Bernie, la Cnn e la propaganda mainstream
Un’analisi delle primarie Usa viste dai media: il paradigma Cnn evidenzia quanto i grandi gruppi siano ancora ostili a Sanders
Molti sono i metodi di cui l’informazione mainstream si serve per contrastare le realtà che considera scomode e per sostenere invece quelle che corrispondono alla propria ideologia. Quanto più le strategie sono accuratamente studiate e diversificate, tanto più sono efficaci nel condizionare il pubblico, non solo convincendolo dell’oggettività di ciò che è invece fazioso, ma facendogli credere che la testata in questione sia interprete e portavoce delle sue stesse idee, quando invece sono state indotte attraverso le tattiche manipolatorie della propaganda.
Si tratta di un fenomeno antico e internazionale che, adeguandosi ai vari momenti storici e ai progressi tecnologici, è oggi più che mai amplificato, ma nello stesso tempo in parte anche contrastato, dalla rete.
In America esso coinvolge i media mainstream in generale, poiché su molti temi a dettar legge sono gli interessi economici che regolano i rapporti tra politica, finanza e informazione.
Quando a esserne protagonisti sono giornali o network storici, come Washington Post, New York Times o Cnn, accreditati in tutto il mondo per il coraggio, la bravura e la deontologia professionale di editori e giornalisti che ne hanno fatto la storia, oltre che per i meriti che ancora hanno in diversi ambiti, il risultato è che il loro pubblico fedele considera vere anche informazioni che non lo sono.
In situazioni chiave come le campagne elettorali ciò dà campo libero a una propaganda, spesso senza pudore, che risulta decisiva nei risultati elettorali, poiché l’informazione mainstream è quella che ancora condiziona la maggior parte della popolazione che vota.
Se negli ultimi decenni l’astensionismo ha coinvolto sempre più i giovani, le classi medio-basse e le minoranze etniche, ciò si deve alla concreta percezione delle persone che la loro vita quotidiana non cambia a seconda dell’appartenenza politica del governo. La mancanza di credibilità di gran parte dei rappresentanti politici, più impegnati nel salvaguardare i propri interessi e quelli di Wall Street che nel fare quelli della gente, ha avuto un impatto maggiore sul partito democratico, che per definizione dovrebbe tutelare le classi lavoratrici e quelle più deboli, ma che in effetti è allineato con i repubblicani nel proteggere lo status quo. E i media mainstream, che con il sistema politico imperante condividono i grossi finanziatori, sono una potente arma di cui il potere si serve per mantenere inalterata la situazione.
L’informazione indipendente e la political revolution di Sanders
Fortunatamente l’affermarsi del web ha consentito, nel marasma di tutto e del contrario di tutto che vi si può trovare, anche la sempre maggior diffusione di un’informazione indipendente in grado di smascherare coi fatti la falsità di opinioni vendute come cronaca e di invenzioni spacciate per realtà. Si tratta di un processo che, agendo in sinergia con i movimenti dal basso sorti in questi ultimi anni , sta portando al voto quelle categorie trascurate che ora fanno tremare di paura l’establishment.
Non è un caso che parecchi aspiranti presidenti, quali ad esempio Kamala Harris, Cory Booker e Beto O’Rourke, abbiano l’interesse a farsi credere progressisti, pur avendo alle spalle storie che smentiscono le posizioni ora millantate. E guarda caso costoro sono quelli che sia l’establishment democratico sia l’informazione mainstream trattano con i guanti di velluto, dando però l’impressione di occuparsene con imparzialità. Così come fingono di essere imparziali con Bernie Sanders, che questa volta non possono permettersi di ignorare come nel 2016 per la popolarità di cui ora gode, ma contro cui è già partita una propaganda feroce.
Già molto attiva nella scorsa campagna, soprattutto man mano che la popolarità di quell’iniziale sconosciuto si faceva sempre più pericolosa per Hilary Clinton, questa volta la propaganda dei media mainstream dovrà affilare sempre più le sue armi, soprattutto in considerazione del fatto che nel periodo intercorso tra la sconfitta Bernie alla Convention democratica di Filadelfia nel 2016 e la sua candidatura per il 2020, di cose non gradite all’establishment ne sono successe molte.
Tra tutte la combinazione di militanza attiva e di informazione indipendente esplosa dopo Filadelfia, con un coordinamento sempre più efficace dovuto anche alla nascita di movimenti nazionali come Our Revolution e Justice Democrats.
Al di là dell’esempio eclatante della vittoria di Alexandria Ocasio Cortez sul “Boss del Queens“ Joe Crowley, nelle elezioni di medio termine molti progressisti reali hanno acquisito cariche a livello locale, statale e federale. Ora quelle persone stanno facendo sentire la voce di coloro che rappresentano e insieme a loro combattono per cause che ritengono giuste. La sollevazione di massa contro l’apertura nel Queens del quartier generale Amazon New York, appoggiata dall’establishment, ne è una prova.
Non è un caso che tra i cartelli e gli slogan della moltitudine di sostenitori di Bernie Sanders, giunti a Filadelfia da ogni angolo della nazione ma ignorati dai media, spiccassero non solo quelli che sottolineavano quanto informazione mainstream e dirigenza democratica fossero colluse e quanto Sanders facesse più paura di Trump, ma anche quelli che recitavano This is just the beginning.
E proprio quei giorni di Filadelfia sono stati in effetti il momento in cui il popolo dei Feel The Bern, resosi concretamente conto delle proprie potenzialità, ha dato il via a quella macchina, sempre più organizzata a livello nazionale e sempre più capillarmente diffusa a livello territoriale, che ha portato ai successi del 2018 e grazie alla quale ora Bernie Sanders corre davvero il rischio di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti.
Alcune strategie della propaganda tv
Nel considerare alcune delle strategie della propaganda mainstream ci limitiamo in questo contesto all’informazione elettorale televisiva, amplificata su internet con stralci scelti ad hoc accompagnati da titoli ad effetto. Una delle tattiche più frequenti utilizzate per screditare o esaltare, a seconda della convenienza, un determinato politico è quella dei pannelli di discussione in assenza del personaggio in questione.
Dopo una breve presentazione iniziale basata su minimi dati oggettivi, che ben si guardano dal fornire quelli veramente rilevanti, vengono introdotte alcune informazioni che possono essere strumentalmente estrapolate da contesti ampi e complessi, acquisendo dunque significati opposti a quelli reali, oppure che non sono supportate da fatti circostanziali. Su tali dati gli ospiti, spesso numerosi per dare l’impressione di opinioni plurime nonostante l’assenza di contraddittorio o con un contraddittorio finto, e soprattutto multietnici, per assicurare l’assenza di pregiudizi razziali, si alternano in interventi che mirano a far passare come imparziale quella che è a tutti gli effetti l’ideologia della rete.
Spesso i dati vaghi, o addirittura inesistenti, su cui gli ospiti intervengono sono presentati con il carattere dell’ufficialità, ad esempio con il supporto di cartelli basati su sondaggi di cui non si cita né la fonte né il campione delle persone intervistate, ma della cui veridicità lo spettatore non dubita.
Esemplare è il cartello sull’indice di gradimento presidenziale mandato in onda dalla Cnn durante la breaking news per l’annuncio di Sanders. Mentre l’analista politico di fiducia della rete Harry Enten sta dicendo che Bernie, pur avendo raggiunto il 42,43% di gradimento nel 2016, parte ora dal 16%, un cartello ci mostra una statistica con Joe Biden in testa col 29%. Dopo di lui ci sono alcuni candidati della presunta ampia platea di sinistra all’interno della quale, dice Enten, «Bernie farà fatica a distinguersi». Sanders è al 16%, seguito da Kamala Harris all’11%, Elizabeth Warren all’8% e Beto O’Rourke al 7%.
Nessuna fonte è citata, ma non importa. Ciò che importa è che risultino lampanti il sostanzioso gap tra Joe Biden e Bernie Sanders e l’incalzare di Kamala Harris, in quel momento candidato di punta dell’establishment democratico, che però vuole farla passare per progressista. Così come vuole fare passare per progressista Beto O’Rourke che ora, dopo la raccolta di 6.1 milioni di dollari contro i 5.9 di Sanders nelle prime 24 ore dalla candidatura, tutto il circo mediatico dell’establishment riverisce ancor più di quanto abbia fatto con Kamala Harris.
La propaganda di Beto ignora il bundling
Nell’attesa che Beto e Kamala se la giochino, entrambi comunque col sicuro supporto dei vertici che potrebbero anche ipotizzare un ticket con i due nomi, non c’è corporate media che, nell’insistenza con cui si parla di Beto, sottolinei la differenza tra i modi in cui quelle somme sono state raggiunte.
Se Bernie ha immediatamente dichiarato i dati relativi alle 225.000 persone fisiche che hanno donato, con una media di 27 dollari, si è dovuto invece aspettare parecchio per avere notizia dei 128.000 ambigui “contributi unici”, come O’Rourke stesso li ha definiti. Sebbene i calcoli portino a una media di 48 dollari, l’espressione usata da Beto consente l’inclusione di multiple donazioni di una stessa persona, fino al limite consentito che va da 2.700 a 5.600 dollari pro capite. Donazioni così alte sono alla base del bundling, ossia la raccolta di donazioni personali da parte di persone appartenenti a una stessa ditta o a un gruppo di investitori con interessi comuni. Non è molto diverso dal percepire soldi dai Pacs o dalle corporation, ma la sottile differenza ha permesso a Beto di dichiarare di non essere finanziato dal cosiddetto corporate money. Chi ha messo alle strette Beto, spingendolo a dichiarare il numero dei donatori, sebbene Beto abbia ancora una volta aggirato l’ostacolo citando il numero delle donazioni invece che quello dei donatori, non è stato uno dei giornalisti mainstream incaricati di occuparsi delle elezioni, bensì una studentessa di nome Leslie che, durante un comizio di Beto alla Penn State University, lo ha messo con le spalle al muro chiedendogli del bundling e della banalità della sua piattaforma elettorale. Beto si è barcamenato come ha potuto, dichiarando che avrebbe reso pubblici i dati e ribadendo la genericità della sua piattaforma, compreso quel Medicare for America, molto diverso dal Medicare for All che aveva inizialmente finto di sostenere, sebbene nessuno degli osservatori attenti gli avesse creduto. Non per nulla Bernie Sanders non si è mai neppure sognato di sostenere Beto nella scorsa campagna elettorale.
Per il momento la cosa certa è che Leslie ha reso al “Giornalismo” un servizio che nessuno dei tanti “giornalisti” mediastream è stato in grado di fare, forse anche per il fatto di dover rispondere, pena il posto di lavoro, a ordini imposti dall’alto di ben altro tipo.
La breaking news della Cnn
Un capolavoro di abilità strategica, ma anche uno dei momenti davvero tristi per il giornalismo, è stato il servizio orchestrato della Cnn per l’annuncio della candidatura di Bernie Sanders, annuncio atteso da un momento all’altro sia dai suoi milioni di sostenitori sia dai media, che avevano avuto tutto il tempo per prepararlo a dovere, quasi come un coccodrillo in vita.
La notizia irrompe alle 6.59 del mattino, fuso di New York, del 19 febbraio 2019, come breaking news, il cui utilizzo già di per sé segnala il rilievo e il rispetto che la rete vuole mostrare di conferire a Bernie Sanders, mentre sta per cominciare il programma del mattino New Day. I due conduttori John Berman e Alisyn Camerata danno le informazioni di base: il senatore si candida per la seconda volta unendosi a una lista già affollata di una decina di persone; «ha perso contro Hillary Clinton in una lotta molto combattuta, ma ha vinto in più di 20 stati e ha dato un bello scossone al partito democratico, e su questo non c’è dubbio».
Informazioni vere, caricate di un accattivante riconoscimento dei meriti di Sanders che conferma la certezza dello spettatore dell’imparzialità di ciò che sta per vedere.
Pronti a intervenire immediatamente ci sono 4 ospiti, due da Washington e due in studio, tutti “casualmente” della Cnn, che con i due conduttori fanno sei. Come consuetudine, inizialmente vediamo gli ospiti accostati in quattro finestre. La diversità della composizione salta subito all’occhio. A un lato Ryan Nobles, che sarà il corrispondente della campagna di Bernie, bianco e vagamente somigliante al Ron Howard/Ricky Cunningham di Happy Days con qualche anno in più. All’altro lato Harry Enten, i cui colori più scuri e tratti somatici ricordano fisionomie mediorentali. In effetti si tratta di un ebreo, proprio come Bernie Sanders, il cui nonno paterno giunse in America dall’Austria durante il nazismo. Le due donne al centro sono l’afroamericana Nia Malika Henderson, figura molto nota della Cnn, e la corrispondente sud-coreana ML Lee.
L’operazione, simile a quelle dei produttori discografici quando costruiscono a tavolino una boyband o girlband pop con diverse tipologie di ragazzi e ragazze per assicurarsi quanti più fan possibile, tende qui ad assicurarsi l’impressione di imparzialità garantita dalla varietà multietnica.
La parzialità dei temi
Il primo a intervenire è Ryan Nobles che dopo una breve cronaca delle modalità dell’annuncio e la messa in onda delle prime frasi del video di presentazione di Sanders, mette sul tavolo i temi che costituiranno gli unici argomenti di domande e risposte. Gli argomenti non saranno la piattaforma politica, né la sua lunga e irreprensibile vita politica che, come dice Bhaskar Sunkara «non ha scandali che potranno emergere», perché Sanders «ha sempre vissuto come un monaco». Tuttavia se gli scandali non ci sono, qualche cosa di negativo si può sempre trovare, soprattutto aggrappandosi alla falsa propaganda della campagna scorsa.
E così ciò di cui si parlerà sono le difficoltà che Bernie dovrà affrontare.
Prima di giocare i pezzi da novanta Nobles introduce il problema della concorrenza, poiché parecchie delle istanze di Sanders che quattro anni fa «erano ritenute radicali come il medicare for all, il salario minimo di 15 dollari e l’università pubblica gratuita, sono entrate nel dibattito mainstream e sono la cifra dei più importanti candidati già scesi in campo».
Ma i veri i problemi che «continueranno a incombere su di lui», sono le relazioni con quei settori «della base democratica con cui non è andato bene nel 2016, inclusi i voti femminili e quelli afroamericani. È già entrato in quelle comunità, specificamente visitando la comunità afroamericana del South Carolina nel Martin Luther King Day e incontrandosi con i leader neri nei primi stati chiave. Naturalmente uno dei problemi più grossi che Sanders dovrà affrontare sono le accuse di dilaganti molestie sessuali avvenute nella campagna del 2016. Sanders ha già presentato le sue scuse e si è incontrato con alcune vittime».
Fin dall’inizio dunque si imposta il dibattito esclusivamente sugli aspetti negativi, tacendo informazioni importantissime su quel presunto difficile rapporto di Bernie con gli afroamericani, tema che sarà al centro dell’intervento clou della tavola rotonda.
Già le parole scelte da Nobles e il modo in cui viene strutturata la frase inducono a guardare le azioni Bernie da una prospettiva falsata. In questo caso la formulazione della frase fa sembrare che la “visita” di Sanders nel South Carolina sia stata una mossa di convenienza atta ad accattivarsi il voto nei neri.
E quello della strutturazione di frasi e domande è una delle strategie a cui la propaganda pone particolare attenzione, non solo in casi come questo, ma anche nei programmi elettorali dove il candidato è presente e deve rispondere a domande dei moderatori o del pubblico, domande che sono sempre comunque selezionate.
Le verità ignorate su Sanders e la comunità afroamericana
Quel che non si vuole dire è che nel South Carolina Bernie è stato invitato per tenere un discorso, in quanto accreditato erede della rivoluzione di Martin Luther King, cosa che una banalissima ricerca su Google attesta senza ombra di dubbio. Ma quel potente discorso, privo delle vuote frasi di circostanza che si sentono dire in simili ricorrenze, ma colmo di riferimenti sia alle battaglie di Martin Luther King messe in relazione con le attuali realtà afroamericane, sia a fenomeni avvenuti dopo la sua morte nel 1968, come l’incarcerazione di massa prevalentemente di colore conseguente alla guerra alla droga cominciata negli anni Settanta, o come il business delle prigioni private e del lavoro carcerario gestiti con immensi profitti dalle corporation multimiliardarie, non viene neppure citato.
Così come non viene citata la militanza di Bernie nel movimento di Martin Luther King fin da quando nel 1963, ventitreenne studente universitario, era alla marcia “Jobs and Freedom” di Washington culminante nel discorso “I have a Dream”, e veniva arrestato a Chicago durante una delle tante manifestazioni per i diritti civili a cui partecipava. Un evento testimoniato da immagini rese pubbliche fin dalla scorsa campagna, ma ignorate dai media mainstream, impegnati nella falsa narrativa sui conflitti di Bernie con la comunità nera. Se Bernie non avesse avuto alle spalle la storia che ha non sarebbe stato esplicitamente considerato come un erede di Martin Luther King da Cornel West o Nina Turner, due delle figure afroamericane talmente stimate, prestigiose e conosciute, che la Cnn si fa bella di avere come ospiti quando tratta di temi civili e razziali
Poiché Bernie con gli interessi economici dell’establishment è più che in palese conflitto, non c’è dunque da stupirsi se in questa occasione la Cnn si sia ben guardata dall’allertare Nina Turner o Cornel West o qualcun altro alcun altro dei tanti afroamericani famosi che sostengono Bernie Sanders.
Poiché però un rappresentante afroamericano ci voleva, la scelta è “casualmente” ricaduta su Nia Malika Henderson, non solo perché figura di spicco della rete, ma per il particolare effetto suscitato dal fatto che sia proprio un’afroamericana ad affrontare il tema del disinteresse di Bernie verso la comunità nera, verso le questioni razziali e verso le donne, tema dominante nella falsa propaganda della campagna del 2016.
Il punto più basso della trasmissione
Ed eccoci all’intervento di Nia Malika Henderson, di cui riportiamo la traduzione letterale, sottolineando che più o meno in corrispondenza della citazione dei Berniebros, Henderson si inceppa ripetutamente e costruisce una frase quasi senza senso. Per il resto del suo discorso il nome di Bernie Sanders è sempre affidato ai pronomi personali, probabilmente perché proprio sul suo nome c’era stato il primo evidentissimo intoppo. Un caso interessante per gli esperti dei segni del corpo e del linguaggio in relazione alla verità e alle bugie.
«Penso che lui sarà solo una voce della sinistra. È davvero difficile citare ora come ora chi potrà essere l’elettore di Bernie Sanders, al di là di quello che sappiamo essere stato l’elettore tipo di Bernie Sanders nel 2016, una sorta di Berniebro, un po’ più giovane e più bianco di quello che è generalmente il processo delle primarie in quel genere di gruppi. Pertanto è difficile capire in che sorta di percorso si vada in termini di costruzione di una coalizione multirazziale. È interessante tuttavia che questa sia una delle sue principali preoccupazioni. Lui ha spostato il partito a sinistra su alcune questioni, come medicare for all e l’università gratuita. Ma lui stesso è stato spostato a sinistra dal partito su temi razziali. È molto spiacevole per molti aspetti parlare di razza. Nel 2016 ci sono state spiacevoli interazioni che lui ha avuto con alcuni contestatori dei Black Lives Matter. E come si vede nel suo annuncio lui cita l’uguaglianza razziale, ed è una cosa di cui credo lo sentiremo parlare. Definisce razzista il presidente ed è una cosa che nessun candidato ha ancora fatto, così vedremo come andrà. Ma io credo che sarà ancora difficile per lui espandere quello che sappiamo essere il gruppo centrale dei suoi sostenitori che sono soprattutto elettori giovani, così come elettori bianchi e primariamente elettori maschi. Quindi staremo a vedere chi sarà una voce interessante in questo campo così affollato».
Eccoli dunque riesumati, nel caso ce ne si fosse dimenticati, i Berniebros, i giovani maschi bianchi misogini che sarebbero stati i principali sostenitori di Bernie. Il termine, che ricalcava un po’ gli Obamaboys di Barack Obama, era stato coniato in un articolo di The Atlantic il 17 ottobre 2015, per essere poi amplificato nelle sue connotazioni dalla propaganda sporca che Hillary, per lavarsene le mani, aveva affidato a David Brock, salvo poi riutilizzarne gli slogan.
Un’altra cosa da notare è come Henderson sottolinei per ben due volte l’espressione «quello che sappiamo essere» il sostenitore tipo di Sanders in riferimento ai Berniebros, in modo da togliere ogni possibile dubbio su quale sia la platea degli elettori sandersiani. E ciò nonostante lo stesso David Brock abbia fatto pubblica ammenda nei confronti di Bernie Sanders per le menzogne fatte circolare su di lui. E nonostante i milioni di voti che Sanders ha preso nel 2016 e che anche semplici calcoli da scuole elementari dimostrerebbero impossibile appartenere solo a giovani maschi bianchi.
Quanto poi all’attribuire al partito democratico il merito di avere spostato Bernie Sanders verso questioni antirazziste e al menzionare le «unconfortable interactions» con i Black Lives Matter, si tratta di altre dichiarazioni costruite su estrapolazioni fuori contesto, di cui documenti concreti ed esistenti, quali video e cronache minuziose, dimostrano la falsità.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. E’ attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
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