
La sinistra Usa verso le presidenziali
Con la prospettiva dello storico e del militante, Max Elbaum traccia un quadro del rapporto tra movimenti dal basso e voto in vista delle elezioni del 2020
Nel corso dell’anno appena passato, mentre la sinistra veniva sconfitta in molti paesi occidentali, il Partito democratico statunitense conquistava la camera e al suo interno agivano forze che dichiarano la propria ispirazione socialista. Alimentata da una miriade di gruppi politicizzati, la sinistra socialista americana sta concentrando i propri sforzi su questioni di politica nazionale e internazionale, molte delle quali hanno fatto discutere. Tra tutte, la proposta della socialista Ocasio-Cortez di aumentare le tasse dei più ricchi fino al 70% per finanziare un Green New Deal che dovrebbe favorire la transizione dai combustibili fossili a forme di energia rinnovabile. Antimilitarista, pacifista, ambientalista, anti-suprematista e vicino ai problemi della working class, il socialismo democratico americano sembra stia raccogliendo le speranze di quei paesi, Italia compresa, che stanno vivendo uno dei periodi più neri della sinistra.
Questa ondata progressista è figlia della piattaforma Our Revolution di Bernie Sanders, fondata nel 2016 con lo scopo di unire i movimenti radicali del paese. Ma quale sarà il futuro di questa corrente? Quali sono le differenze tra la sinistra progressista americana di oggi rispetto alla new left degli anni Sessanta? E cosa significa essere “socialisti” per questi gruppi? Ne parlo dalla University of California, Berkeley, con Max Elbaum, storico ed ex militante della Student for a Democratic Society a Madison (Winsconsin), organizzazione pacifista nata nel 1962 e radicalizzatasi durante le lotte del Sessantotto. Autore del premiato libro Revolution in the Air: Sixties Radicals Turn to Lenin, Mao and Che, Elbaum è attualmente uno dei creatori di Organizing Upgrade, una piattaforma di confronto e di organizzazione dei movimenti grassroots di sinistra nata in risposta alla vittoria di Trump alle elezioni del 2016.
Come commenteresti i risultati delle ultime elezioni di midterm dal punto di vista della sinistra progressista americana?
Bisogna considerare due elementi: il fatto di aver provato a scalfire la macchina politica di Trump e il bilanciamento interno alla campagna anti-Trump, cioè tra il fronte più progressista e di sinistra da una parte e le corporate forces [le forze guidate dai capitali] dall’altra. Molti a sinistra hanno accolto i risultati in maniera positiva, considerando dove eravamo fino a qualche anno fa. Ovviamente avrebbero voluto molte più vittorie contro i repubblicani – specialmente in Georgia, Florida e nel Texas, dove si è assistito soprattutto alla presenza di candidati afroamericani veramente progressisti. Ma è stato difficile, nonostante questi ultimi abbiano fatto meglio di quanto sia stato fatto in quegli stati da decenni. Il fronte della sinistra statunitense è comunque entusiasta dei risultati e ha accolto con fervore la vittoria democratica alla camera dei rappresentanti e quella di alcuni esponenti dichiaratamente socialisti, così come una enorme gamma di candidati. Comunque, nonostante alcuni socialisti abbiano visto negativamente gli sforzi della sinistra radicale nel lavorare all’interno del Partito democratico, adesso, dati i risultati, credo abbiano cambiato idea.
Che relazione hanno questi risultati dal punto di vista dell’elettorato e dell’interazione con i movimenti dal basso?
Penso che l’enorme affluenza dell’elettorato, specialmente al Sud, sia stato il segno di una partecipazione massiccia ai collegi elettorali, alcuni dei quali vicini ai programmi della sinistra. Certo, da un punto di vista più generale si è assistito a un miscuglio di situazioni, perché in altri distretti i candidati che hanno vinto erano moderati o vicini al mercato e il loro elettorato non è simpatetico a un programma di sinistra, per cui è difficile rispondere alla tua domanda se consideriamo le differenze tra le varie sezioni della coalizione anti-Trump. Ma penso che entrambe queste due sezioni, cioè i moderati e i corporate da una parte e il fronte progressista dall’altro, abbiano ottenuto ciò che volevano nelle loro sezioni. Ma la parte importante non è stata tanto la vittoria, quanto l’impegno che questi gruppi hanno messo in campo per costruire la loro forza. Un enorme numero di organizzazioni dal basso ha fatto tesoro di questa esperienza aumentando numericamente.
Come descriveresti la relazione a tre tra il Partito democratico, i movimenti dal basso e i socialisti americani che hanno preso parte alle elezioni?
Mentre in Europa si ha un sistema parlamentare, in cui ogni partito può partecipare alle elezioni ed è capace di prendere una percentuale di seggi in parlamento in base ai voti ottenuti, negli Usa i candidati hanno a che fare con un sistema di voti su base distrettuale o statale. Per cui devono ottenere il 51% dei voti in un distretto se si concorre per la camera dei rappresentanti o in uno stato se si concorre al senato. Ciò vuol dire che la coalizione deve formarsi prima delle elezioni, non dopo. La maggioranza della sinistra americana ha adottato una strategia da loro definita “inside and outside”, basata cioè da una parte sulla costruzione di una forza che partecipa alle elezioni (inside), mentre dall’altra i movimenti dal basso (outside) la supportano con attività non legate alle elezioni, come campagne, proteste, atti di disobbedienza civile. C’è stato un tempo nella storia statunitense in cui la forza elettorale di sinistra e i movimenti dal basso erano allineati al livello nazionale. Negli anni Trenta la Cio [Congress of Industrial Organizations] ha rappresentato il quartier generale di questi movimenti al livello nazionale. Per poco tempo negli anni Ottanta si è avuto qualcosa di simile con la Coalizione Arcobaleno guidata da Jesse Jackson. Ma dagli anni Zero non c’è più stato nessun coordinamento centralizzato di tutte quelle organizzazioni. Dalla elezione di Trump si sono formate nuove forze, che insieme alle vecchie organizzazioni hanno cercato di strutturare un coordinamento a base statale. Tra questi ci sono alcune organizzazioni sindacali, ma anche organizzazioni di vecchia data e su base comunitaria come Il Texas Organizing Project, il New Georgia Project o il New Virginia Majority – gruppi di aria progressista ma che non hanno un programma esattamente socialista – così come organizzazioni createsi dopo le elezioni del 2016 (come il movimento di Sanders Our Revolution, o gli Indivisible). Il coordinamento di queste organizzazioni si stabilisce grazie a quelli che vengono definiti “States Tables”, dove i gruppi progressisti di un determinato stato riescono a coordinarsi. Ma è talmente difficile il coordinamento tra i gruppi che due movimenti progressisti possono anche concorrere tra loro. Tra questi, i gruppi più grandi sono rappresentati dalla “Our Revolution” di Sanders o dal “Working Families Party”, e in alcuni stati ce ne sono molteplici dello stesso tipo. Adesso la situazione di questi movimenti è mutevole. Penso che per poter comprendere il fronte progressista americano, così come quello socialista, bisogna rendersi conto della situazione fluida che stiamo attraversando.
Quali sono le posizioni del gruppo socialista che attualmente vediamo tra le fila del Partito democratico?
I gruppi progressisti sostengono la pace, la giustizia etnica e di genere, così come la necessità di contratti migliori per la working class. Delle volte parlano di sistema capitalista, ma limitandosi a sostenere un trattamento migliore dei lavoratori. Ciò li pone in una posizione estrema contro Trump e i repubblicani e in un rapporto ambivalente rispetto al Partito Democratico. Sono in pochi a seguire senza criticare le direttive del Partito Democratico. La maggioranza è critica perché pensa che il Partito negli ultimi 20 anni sia stato troppo conciliante con i Repubblicani e quindi non sia il mezzo adatto per contrastare Trump. Ma per come è strutturato il sistema elettorale americano è lì che gli elettori stanno, per cui il versante progressista ha iniziato a lottare all’interno del Partito Democratico. Dal 1989 agli anni Novanta fino al 2016, il gruppo di area socialista più importante è stato sicuramente il Democratic Socialist of America (Dsa), composto fino al 2016 di circa 5.000 membri e di cui soltanto alcuni attivi. Di questi i più rivoluzionari (comunisti, trotskysti, maoisti) erano una piccolissima parte. Per cui fino a quella data la sinistra rivoluzionaria non ha potuto giocare un ruolo importante nelle politiche elettorali, limitandosi a manifestazioni e a cercare di creare una base comune. Un sacco di gruppi per la giustizia sociale avrebbero voluto supportare candidati locali, se non fosse stato per una mancanza di strategia nazionale poiché troppo marginali. Ma le cose sono cambiate. Sia perchè in molti hanno visto in Trump un pericolo mortale, sia grazie alla campagna di Sanders che ha aperto a una linea nazionale comune per i gruppi progressisti. A distanza di due anni il rapporto tra questa sinistra e il Partito Democratico è fluido. Per cui la maggioranza dei gruppi progressisti, così come quelli socialisti, pensa che in queste circostanze sia necessario combattere all’interno del Partito democratico per resistere a Trump e contemporaneamente costruire una base forte e indipendente. Per cui sostengono i candidati democratici, ma non sono subordinati ad essi.
Per esempio, Alexandria Ocasio-Cortez fa parte dei Dsa così come di un Gruppo chiamato Justice Democrats e di altri gruppi progressisti. Non prende ordini da nessuno, e certo, questo a lungo andare potrebbe portare a delle tensioni. Se consideriamo i gruppi progressisti da un punto di vista più ampio, le differenze aumentano: alcuni pensano che a un certo punto i socialisti potrebbero diventare la parte dominante del Partito democratico, tramutandolo in una forza socialdemocratica. Altri pensano che sia impossibile, e che a un certo punto si assisterà a una scissione interna al Partito e mentre una parte sosterrà posizioni vicine alla working class e ai socialisti, un’altra finirà per unirsi al Partito repubblicano. Altri ancora insistono su una riforma del sistema elettorale da condurre attraverso il Partito democratico. Tutte queste posizioni attualmente sono sul tavolo, data la situazione fluida. Per cui, sul lungo termine, questa situazione non è detto che funzionerà per sempre. Di certo però non siamo vicini a una situazione rivoluzionaria.
Come è cambiata la sinistra parlamentare di oggi rispetto a quella extraparlamentare degli anni Sessanta?
Negli anni Sessanta il sistema sociopolitico sembrava molto più precario di questo, il New Communist Movement – così come molte altri – si mostrò scettico a pensare di impegnarsi all’interno del sistema elettorale, perché pensava che tale sforzo potesse dissolvere le energie necessarie alla costruzione di un movimento rivoluzionario. Oggi non c’è un movimento rivoluzionario di quelle dimensioni, e tutti sono stati risucchiati dalle elezioni. Adesso le organizzazioni vogliono contrastare Trump e, come ha fatto Sanders, si stanno muovendo al livello elettorale. Tutta la sinistra ha dovuto scendere a patti con questa situazione. Negli anni Sessanta ci si muoveva a livello dei movimenti dal basso perché il sistema elettorale sembrava bloccato. Invece adesso, per le masse, il sistema elettorale sembra offrire una strada diversa, o quantomeno un cambiamento.
Per cui adesso la sinistra progressista è divenuta riformista?
Non utilizzerei il termine riformista. Parlerei piuttosto di un processo che guida la gente al cambiamento. Che questo percorso si fermi qui – e questo vorrebbe dire parlare di un sistema riformista – o arrivi a un livello più avanzato, è tutto da vedere. Nonostante le forze più rivoluzionarie stiano partecipando alle elezioni, non penso che la società socialista possa arrivare soltanto attraverso il sistema elettorale, e certamente non potrà arrivare attraverso un allineamento con i grandi capitalisti del Partito democratico. Ma non stiamo parlando di una possibile situazione insurrezionale. Penso più a un percorso non diverso dal “Compromesso Storico” italiano che si è avuto tra Berlinguer e Moro negli anni Settanta, ovvero a un possibile trampolino di lancio verso il socialismo, sia un punto di partenza per la costruzione di un vasto fronte democratico aperto alla working class e lontano dai capitalisti. Solo successivamente si avrà un contrasto tra le due parti che porterà a una lotta per il socialismo. Il fatto è che oggi non esiste un vero movimento insurrezionale, così come non esiste neanche una base comune che possa dare alla working class la forza per costruire dei Consigli degli operai in stile Soviet. Per cui, ideologicamente pensare a un movimento insurrezionale risulta attraente per molti, ma in senso pratico si è inclini a metterlo da parte.
Ultimamente hai sottolineato il bisogno per i movimenti dal basso statunitensi di essere maggiormente coinvolti nella dimensione internazionale, al fine di combattere il militarismo. Di che tipo di internazionalismo stiamo parlando? E quali sono le differenze tra questo tipo di internazionalismo e quello degli anni Sessanta?
Questa è un’altra domanda difficile. Negli anni Sessanta i movimenti del sud del mondo hanno ispirato un’intera generazione a livello mondiale. E, nonostante anche io pensassi che avremmo potuto aiutarli a mettere fine alla guerra fredda, la spinta propulsiva venne data dall’internazionalismo. E negli Stati uniti un’alta percentuale di persone proveniva proprio da quei paesi. Per cui sussisteva un link tra la comunità afroamericana e la lotta dei paesi africani, un altro tra i discendenti di famiglie messicane e il Messico, e nonostante all’epoca la percentuale di asiatici in America fosse bassa, questi ultimi si identificavano con la lotta e il socialismo asiatico. A quell’epoca poi tutti passavano o venivano ispirati da Cuba. Certo, vi erano differenze interne alla sinistra, ma comunque vi era un’idea generale comune, cioè che il movimento dei paesi non allineati e i movimenti per la liberazione nazionale stessero lottando per l’indipendenza. Poi anche loro non riuscirono a costruire una valida alternativa socialista, e il socialismo iniziò a crollare ovunque.
Non siamo nella stessa situazione, nonostante vi siano dei movimenti che sostengono l’indipendenza di alcuni paesi. Il problema principale è che negli Stati uniti l’internazionalismo tende a essere debole in ogni caso. A meno che un soldato americano non venga ucciso in un paese straniero, molti americani non pensano al resto del mondo. Negli Stati uniti si è assistito alla crescita di movimenti con sentimenti internazionalisti sostanzialmente in corrispondenza di un massiccio dispiegamento di truppe durante guerre brutali, e solo allora la gente ha iniziato a identificarsi nella lotta degli altri paesi. Ciò avvenne con i filippini negli anni Novanta dell’Ottocento, con l’America centrale negli anni Ottanta, soprattutto con la guerra del Vietnam. Anche se i movimenti socialisti sostengono la pace nel mondo, non lo fanno davvero in termini pratici. La sinistra progressista è alla ricerca di nuove strategie contro il militarismo, e adesso l’internazionalismo si lega alla lotta contro il cambiamento climatico. Ci sono sforzi per indirizzare la gente al contatto con persone di altri paesi. E sebbene ci siano i tentativi di creare nuovi legami internazionali, non si sono raggiunti i livelli degli anni Sessanta o degli anni Ottanta. Un altro problema è interno alla sinistra, perché si polarizza quando si parla di relazioni internazionali. Invece negli anni Sessanta, nonostante vi fossero differenze di opinione all’interno della sinistra circa il Partito comunista cinese o nei confronti di quello vietnamita, si partiva da un punto di partenza comune: cioè che i paesi del sud del mondo fossero più progressisti di quanto non lo fossero gli Stati uniti e che dovessero vincere.
Ultimamente Bernie Sanders ha iniziato a parlare e a sostenere molto di più un movimento internazionale contro la destra e l’autoritarismo di destra. Ed è grazie a questi sforzi che abbiamo portato al Senato la questione dello Yemen, messa sul tavolo dei problemi da affrontare. E nuovamente la questione della guerra diventa importante, soprattutto perché molta gente si è impegnata molto al livello dei movimenti dal basso.
Nella prefazione del 2006 del tuo libro hai insistito sull’esigenza per la sinistra statunitense di essere più flessibile ai cambiamenti e di cambiare il sistema dentro il sistema. Cos’è successo dopo il 2006?
Penso che da dopo Occupy Wall Street e #BlackLivesMatter, ci siano stati più movimenti di questo tipo come gli scioperi degli insegnanti, i movimenti femministi, etc., quindi un maggiore movimento di proteste dal basso e manifestazioni. E penso che ci sia un’alta percentuale che abbia cercanto di esaminare la questione in maniera più sistematica da allora. Si è assistito a una radicalizzazione. Le condizioni economiche non sono più buone. Molti fanno più di un lavoro, e adesso che la situazione è peggiorata in molti pensano che sia necessario un cambiamento. E difatti molti degli attivisti lavorarono al livello dei movimenti dal basso, combattendo contro l’incarcerazione di massa così come contro il cambiamento climatico.
Pensi che questo cambiamento sia il segno di una reazione a Trump?
Penso che Trump abbia posto al centro il problema del potere politico. La sinistra fino a poco tempo fa si era limitata a parlare di costruire movimenti, ma non aveva una strategia. La combinazione Trump-Bernie ha fatto sì che in molti a sinistra iniziassero a pensare: «Aspetta un attimo: sia noi che loro abbiamo bisogno di una nuova strategia per ottenere potere politico». E questo potere poteva essere di tipo elettorale o di altro tipo, ma in ogni caso volle dire che la sinistra, nonostante le differenze, si era concentrata su un unico problema al fine di risolverlo. Per molti anni queste teorie sono sembrate astratte. Potevi dire «Il capitalismo è orribile, abbiamo bisogno di una rivoluzione», ma a quel punto eri costretto a lavorare in un gruppo ristretto. Adesso invece la gente pensa che le cose debbano cambiare. Per cui penso che la sinistra statunitense di oggi sia interessata a una visione di insieme e alla costruzione di una strategia più di quanto non lo fosse qualche anno fa. La mia generazione è cresciuta pensando che ci fosse già una teoria rivoluzionaria pronta per essere utilizzata, nonostante non fosse ben definita. Ci siamo arrivati quando il socialismo marxista-leninista sembrava offrire la soluzione ai problemi essenziali, e quando non riusciva a risolverli la colpa non la davamo al capitalismo. Credo che oggi soltanto una piccola parte della sinistra la continui a pensare in questo modo. Tutti quanti pensano che vi sia bisogno di ripensare a nuove strategie e direzioni, anche sulle questioni di genere, etniche o per la costruzione di una nuova forma di internazionalismo. La working class si è riorganizzata, e la produzione industriale è cambiata. Per cui ci sono tantissime questioni da snocciolare e la gente si sente sopraffatta. Nonostante gli ultimi risultati positivi a cui abbiamo assistito, la nuova generazione sta affrontando più problemi di quanti non ne avesse affrontati la mia.
Hai detto che la working class si è riorganizzata. E che cosa ne è stata della coscienza di classe? Pensi che il cambiamento possa avvenire attraverso la coscienza di classe?
Be’, io non penso che la situazione possa cambiare nella forma classica teorizzata da Marx. La forma classica si basa sull’idea di una produzione socializzata, con migliaia di lavoratori che lavorano nello stesso posto, che condividono le stesse situazioni, e che molto spesso vivono negli stessi quartieri. Ma le cose non stanno più in quel modo. Adesso si è strutturata la cosiddetta gig-economy, i lavori part-time, la flessibilità del lavoro. Questo vuol dire che qualcosa cambierà, ma l’idea che esista un fronte composto da quei lavoratori che rappresentano il cuore della rivoluzione proletaria non penso avverrà. Per quanto riguarda la questione della coscienza di classe penso le cose saranno differenti, ma la formula marxista della coscienza di classe non penso sia adeguata.
Perché mentre negli Stati uniti la sinistra sta diventando sempre più forte, in Europa sta diventando sempre più debole?
Penso che una delle ragioni risieda nella differenza tra le politiche sull’immigrazione tra qui e l’Europa. Un altro motivo risiede nella demografia. Negli Stati uniti gli afroamericani hanno sempre rappresentato una chiave di volta per la sinistra. Infatti, la sinistra americana ha sempre avuto una tradizione operaia, ma anche una tradizione legata alla liberazione degli afroamericani. In Italia e in Europa solo adesso i lavoratori del Nord Africa stanno occupando un ruolo importante dal punto di vista sociale. La questione demografica, invece, ha sempre rappresentato un mezzo attraverso cui rappresentare le identità nazionali, e da essa dipende l’abilità della destra di approfittarne. In più voi siete più sfortunati di noi. Trump può essere davvero fastidioso, ma non è un leader sofisticato. Per cui molto spesso ha fatto degli errori madornali che hanno spinto la gente a rifiutare le sue posizioni perché oscene. Voi invece avete dei fascisti molto più sofisticati in Europa, con molta più esperienza e con maggiore capacità nello sfruttare le paure della gente. Se Trump si fosse mosso allo stesso modo, a quest’ora sarebbe invincibile. Per cui, è vero che abbiamo un leader estremamente pericoloso, ma i suoi errori madornali stanno ridando speranza alla sinistra.
Se potessi fare una previsione, che cosa pensi succederà alla sinistra progressista americana di qui a due anni? E quali saranno i candidati del Partito democratico e della sinistra socialista nel 2020?
Con le investigazioni, il pericolo di una guerra, eccetera, potrebbe succedere di tutto. Ma assumendo che le cose rimangano così, Trump si ripresenterà alle elezioni presidenziali, e a quel punto ci sarà una dura lotta nel Partito democratico per capire quale messaggio dare agli elettori, quale strategia creare e quale candidato presentare. Il versante progressista, la sinistra, spingerà affinché si crei una strategia per espandere l’elettorato coinvolgendo chi è stato tagliato ai margini, promettendogli parità di classe, genere ed etnia. Questa la posizione della sinistra. E la persona che più è vicina a queste posizioni è Bernie Sanders. Il versante dei Democratici vicino ai capitalisti sceglierà qualcuno che sosterrà che la migliore strategia per combattere Trump sia fare appello alle zone suburbane, all’elettorato bianco, cercando di attirare alcuni Repubblicani. Il cuore della loro campagna sarà «Ritorniamo al periodo in cui c’era Obama». Non saprei dire chi sarà il candidato, ma per molta parte della destra interna al Partito democratico sarà Bloomberg, ex sindaco di New York, milionario e sostanzialmente un Repubblicano. Dall’altra parte invece altri pensano che il candidato debba essere una donna come Kamala Harris per la California. Ci sono molte perplessità su Beto O’Rourke, il quale potrebbe essere interessato a rivolgersi a un nuovo gruppo di elettori. In ogni caso buona parte della sinistra presterà meno attenzione ai candidati e più alla costruzione di una struttura forte sia per i lavoratori, che per la comunità nera e per i più giovani, perché è lì che sta il futuro. Penso ci siano tre tendenze a sinistra: una è composta da quelli che pensano di non aver niente a che fare con Bernie. Un’altra, come la Dsa, invece lo supporterà. E poi ci sono quelli che pensano che si debba votare per chiunque verrà proposto dal Partito democratico, perché preferiscono spendere più tempo alla costruzione di una struttura solida al livello locale, della camera e del senato.
*Bruno Walter Renato Toscano è laureando del corso Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università degli Studi di Bologna, e membro della redazione del blog C’era una volta l’America, curata dal Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euroamericana (Cispea).
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