
Bolivia tra golpismo e democrazia
Un testimone diretto racconta il golpe contro Evo Morales e la possibile «seconda ondata progressista» in America latina
Si parla da un po’ di tempo di una «seconda ondata progressista» in America Latina. Dopo la cosiddetta «prima ondata» – quella di Lula, di Chávez, di Correa e di Evo Morales – ci troveremmo adesso davanti a un secondo ciclo di governi progressisti, annunciato dalle vittorie di Andrés López Obrador in Messico e di Gabriel Boric in Cile – in attesa delle prossime elezioni presidenziali in Colombia dove la sinistra parte da favorita.
Alfredo Serrano Mancilla è un importante analista della politica latinoamericana e ha scritto un libro su uno dei principali avvenimenti della politica del continente degli ultimi anni, il colpo di stato in Bolivia del 2019 e del susseguente ritorno alla democrazia, un anno dopo. Evo Operación Rescate. Una trama geopolítica en 365 días (edizioni Sudamericana) è un racconto non solo come analista ma soprattutto come artefice diretto dell’operazione che permise di salvare la vita all’ex-presidente Evo Morales, nonché testimone del suo anno d’esilio. Alfredo Serrano, direttore del Celag (Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica) nonché collaboratore del podcast di Pablo Iglesias «La Base», ha risposto alle domande di Jacobin Italia.
Attraverso il Celag svolgi un ruolo di analista economico ed elettorale per le forze di sinistra dell’America Latina. In questo libro racconti il golpe in Bolivia del 2019 non solo in chiave analitica ma come attore protagonista. Quale fu il tuo ruolo nel processo che salvò la vita a Evo Morales e ad altri membri del governo boliviano?
Il mio ruolo in questa vicenda ha a che vedere con la mia relazione con la Bolivia, dove vado e torno dal 2006. Ero lì In veste di sondaggista durante le elezioni presidenziali del 2019, avevo accompagnato Evo nella sua casa nella provincia di Chapare dopodiché, convinto di una vittoria scontata del Mas [Movimiento al Socialismo, ndr], mi ero diretto verso Buenos Aires, dove si teneva una riunione del «Grupo de Puebla» [un forum progressista composto da ex-capi di stato, ndr]. Proprio mentre celebravamo la liberazione di Lula dal carcere, il Vice-Presidente boliviano Álvaro García Linera mi fece capire che in Bolivia la situazione stava precipitando. Ci chiese il massimo supporto, di fare tutto il possibile per salvargli la vita e per uscire dal paese. Per fortuna avevo vicino a me Alberto Rodríguez, Presidente in pectore dell’Argentina. Ricordo che mi avvicinai a lui mentre stava facendo colazione con Dilma Rousseff, gli dissi brevemente quello che stava succedendo e che Evo voleva parlargli. Così si articolò il processo che permise, grazie al governo messicano, di far giungere un aereo in Bolivia. Si creò un gruppo Whatsapp e io passavo informazioni da una parte all’altra. Dico sempre che il mio ruolo fu come quello di un assemblatore: in quel contesto nessuno mi stava chiedendo un report sulla geopolitica, ma di unire informazioni e pezzi separati in modo da consentire la riuscita del nostro obiettivo.
La prima parte del libro sembra un romanzo d’azione. Leggendolo, appare sorprendente come in così poche ore il Presidente di una democrazia saldamente al potere possa sentire la sua vita a rischio. Racconti di come Evo fosse orgoglioso del «suo» esercito, diverso, a suo vedere, dalla reazionaria armata del passato. Com’è stato possibile che in così poche ore ampi settori dello Stato tradirono la democrazia?
Io credo che, come qualsiasi altra istituzione, anche le forze armate boliviane sono più eterogenee di quello che si possa immaginare. Sarebbe un errore pensare che qualsiasi attore sia monolitico e in Bolivia si è fatto negli anni un grande lavoro per renderla democratica e popolare eliminando privilegi agli alti comandi. Nello svolgimento del colpo di stato le forze armate hanno avuto un ruolo importante ma non fondamentale. Chi ha invece avuto una funzione determinante è stato il corpo di polizia, il quale ha sempre manifestato avversione verso il processo politico del Mas. L’esercito ha avuto un peso ma come l’hanno avuto altri attori, come il Segretario Generale dell’Oae [l’Organizzazione degli Stati Americani, ndr] Luis Almagro e i dirigenti della destra. Credo, inoltre, che è proprio l’eterogeneità delle forze armate boliviane ciò che ha permesso a Evo di salvarsi. Se non vi fosse stata divisione tra i militari sarebbe stato molto difficile arrivare in Messico e quindi, in questo senso, aveva ragione Evo a dire che l’esercito era cambiato.
Riguardo a chi sono stati i soggetti ideatori del golpe, Albert Noguera, autore di un libro da poco uscito e riguardante anch’esso la politica boliviana, afferma che «la protagonista del colpo di stato non è stata una destra organizzata, con un sostegno sociale e un progetto per il paese, ma un gruppo di personaggi opportunisti di quart’ordine che, in modo improvvisato, hanno approfittato delle proteste sociali per prendere il potere e iniziare a saccheggiare la risorse pubbliche». Tra questa posizione e quella secondo cui tutto fu pilotato dall’Oae e financo dagli Usa, a quale livello e in che modo credi che sia stato organizzato il colpo di stato?
Credo che Albert ha in parte ragione, vi era molto opportunismo tra coloro che presero il potere. La stessa Presidentessa ad-interim, Jeanine Áñez, era un personaggio poco rilevante. Tuttavia Luis Almagro e la Oea non erano certo soggetti di quart’ordine e il loro ruolo è stato fondamentale. Col suo tweet pieno di astio e premeditazione a poche ore dalla conclusione del voto, con cui annunciava le conclusioni preliminari degli osservatori dell’Oae sul voto boliviano, ha chiaramente delegittimato il Governo. E il report è un documento pieno di lacune statistiche, di mancanza di rigore, e con un linguaggio arbitrario si arriva ad affermare che bisogna ripetere le elezioni per via del comportamento strano di alcuni seggi, senza tenere in considerazione un milione di voti non contabilizzati da territori rurali, quasi tutti a favore di Evo. Luis Almagro non è un extraterrestre, non è un personaggio di quart’ordine ma il segretario dell’Oae ed è chi ha accelerato di più la frode elettorale. E poi ci sono altri attori chiave, come Luis Fernando Camacho, che rappresentava il potere economico di Santa Cruz, e gli ex-Presidenti Carlos Mesa e Jorge Quiroga. C’è un insieme di cose, insomma, soggetti di prim’ordine e altri meno importanti.
Ad ogni modo sorprende la mancanza di mobilitazione delle classi popolari in difesa del risultato elettorale. Al contrario, si disse in quei giorni che vi erano anche molti lavoratori che stavano manifestando contro il Mas. Lo stesso Morales, dopo il golpe si lamentò affermando che «gli imprenditori ci davano il loro appoggio e i lavoratori ci chiedevano di dimetterci».
L’ex-vicepresidente Álvaro García Linera nel suo libro Las tensiones creativas de la revolución parla delle contraddizioni che esistono tra i governi progressisti e i movimenti sociali. Quando si arriva al governo si perde autonomia, bisogna prendere decisioni che vanno oltre la protesta, nascono nuove tensioni. Nel 2019 la società boliviana, che si caratterizza per la sua capacità di mobilitazione, stava immersa proprio in quella dialettica tra Stato e movimenti di cui parla Álvaro. Inoltre, il giorno dopo il colpo di stato sì che vi era voglia di mobilitarsi, era stata programmata una manifestazione, ma fu Evo a fermarla, ritenendo che davanti al rischio di un massacro la cosa più importante fosse preservare l’incolumità degli attivisti. La voglia di scendere per strada, insomma, c’era, ma bisogna pensare che la destra era pronta a uccidere, come infatti è successo in quei giorni.
Vi è una lezione, credo, che in questa nuova tappa di Luis Arce non si è ancora appreso del tutto, ovvero che non bisogna disperdere lo spirito di mobilitazione che è presente nella popolazione. Questo spirito si è visto nella grande manifestazione per la democrazia, della durata di una settimana, dell’ottobre passato. La piazza non la possiamo lasciare alla destra. In quel momento, nel novembre del 2019, la popolazione stava in una fase distinta, non mobilitata, e d’altronde nessuno immaginava che con il 10% di voti in meno la destra avrebbe dichiarato di aver vinto. In generale credo che serve costruire analisi profonde di livello internazionale su come generare la partecipazione del popolo quando ci si trova al Governo di uno Stato.
Nella stessa intervista di cui parlavamo prima, Albert Noguera parla delle responsabilità della sinistra boliviana nello sviluppo delle cause che determinarono le proteste dell’autunno del 2019. In proposito parla di «tre sequestri post-costituzionali della sovranità»: quello della plurinazionalità, l’economico-centralizzatore e quello legato al referendum del 2016. In quel caso il popolo boliviano votò «no» alla possibilità che Evo Morales potesse esercitare la presidenza per il quarto mandato, ma successivamente il Tribunale Costituzionale annullò il risultato del voto. Non credi che il mancato rispetto del voto popolare sia stato un elemento che ha effettivamente indebolito il progetto «masista»?
No, su questo dissento. Si possono avere giudizi diversificati sul referendum del 2016 ma trovo inaccettabile creare un collegamento tra un potenziale errore e il golpe, sarebbe un vero regalo alla destra. È possibile che fu commesso un errore e in proposito credo che il dibattito sia utile e necessario ma non si può creare un filo conduttore tra la scelta del Tribunale Costituzionale e il colpo di stato. Serve un dibattito su quell’episodio, ma senza avere un approccio complessivo, anche perché un simile dibattito lo vorrei non solo per la Bolivia e l’America Latina ma anche per altri casi simili, come in Germania o Spagna. Ripeto, nel 2019 non si scese in piazza per gli errori del passato ma, da un lato, per una dinamica che riguarda la dialettica tra Stato e movimenti sociali – che non sempre è facile conciliare nelle stesse battaglie – e dall’altro, perché si voleva evitare un massacro. Infine, esiste pure un normale atteggiamento di riflusso, la gente non può sempre mobilitarsi e in quel momento vivevamo una fase del genere. In Cile, per esempio, non credo che dopo anni di manifestazioni la gente continuerà a scendere in piazza allo stesso modo, sono processi naturali.
Tra gli eroi di questa storia vi sono il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador e il Presidente in pectore dell’Argentina, Alberto Fernández. In quel momento la cosiddetta prima ondata progressista viveva il suo momento più difficile, visto che governi di sinistra avevano via via perso il potere in Brasile, Ecuador e Uruguay. Eppure si sono impegnati nel salvataggio di Morales sapendo che un fallimento dell’operazione avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili. Come spieghi il loro livello di impegno nell’operazione di salvataggio del Presidente della Bolivia?
A volte ci dimentichiamo l’importanza che hanno le convinzioni in politica. A destra vi sono convinzioni, Bolsonaro ne ha, anche Trump ha le sue convinzioni, in modo profondo. A sinistra non dobbiamo perdere di vista questa variabile, perché la politica non è solo comunicazione, che a volte sopravvalutiamo. Alberto e Andrés avevano in primo luogo l’idea di salvare la democrazia, di non permettere che vi fosse una macchia così grande nell’America Latina. Trovavano inaccettabile che in un paese dove il popolo aveva espresso il suo sostegno al governo potesse esserci un colpo di stato. E in secondo luogo vi era la convinzione umanitaria, di salvare la vita a un essere umano. E poi vi è una caratteristica personale di entrambi, la generosità e il coraggio, entrambi valori sottovalutati e di cui essi ne hanno a volontà.
Tutto fa pensare che il piano di molti (penso a Luis Fernando Camacho, a capo di bande paramilitari) fosse che Evo non uscisse vivo dal colpo di stato. Hai mai pensato a quali sarebbero state le conseguenze politiche della morte di Evo e di García Linera? Sarebbe stato possibile allo stesso modo il fallimento dei golpisti in così poco tempo?
Il fatto che volessero ucciderlo è evidente. E riuscirci sarebbe stato per loro molto importante. Così come nel calcio, quando in una squadra se ne va il giocatore più importante gli effetti sono negativi perché la squadra non è più capace di giocare allo stesso modo, nella politica accade lo stesso. I leader sono coloro che hanno la capacità di unire, di convincere la propria gente, di indicare il cammino giusto. La sconfitta subita nel colpo di stato sarebbe stata ancora peggiore se il protagonista del processo di cambiamento fosse morto, la ferita sarebbe stata ancora più profonda. Evo ha la capacità di unire in un blocco molto ampio le organizzazioni indigene di contadini con le realtà urbane. Evo è il collante di questa unità, ma non in senso retorico ma programmatico e politico, e possiede anche la grande capacità di porre ogni cosa in una prospettiva storica. Se fosse morto, questa unità sarebbe stata molto difficile nei termini in cui si sostiene oggi. Le leadership non si sostituiscono con un software.
Risulta sorprendente che Evo sia potuto tornare in Bolivia e il Mas al Governo dopo solo un anno. Nel libro racconti come durante il suo esilio in Argentina, l’ex-presidente era l’unico a pensare seriamente di poterci riuscire. Come spieghi che questa crisi sia durata così poco?
Credo che vi sia una cosa che la destra latinoamericana dimentica sempre, ovvero l’importanza che possiedono le identità di sinistra nel continente. Ne parlo nell’unica parte del libro in cui cerco di trarre delle lezioni teoriche da questa storia: l’appoggio che la sinistra gode nell’America Latina è sincero, vigoroso, genuino e radicato nella storia. La destra continua a credere agli stessi titoli dei giornali che vengono redatti per screditare la sinistra, e la sinistra si fa condizionare da questo bombardamento mediatico. Veniva raccontato che esisteva una sconnessione tra la cittadinanza e i capi del Mas e non era vero, la popolazione stava con Evo. Certamente, esistevano critiche su episodi precisi, come il referendum di cui abbiamo già parlato, però questo non significava che il popolo stesse sostenendo un progetto politico diverso. E infatti alle elezioni del 2020 si è vinto con una percentuale superiore al 50%, dicendo di «No» al modello neoliberale autoritario. Non è che se un tifoso del Barça critica la sua squadra voglia dire che si è disposti a tifare per il Real Madrid. Lo stesso succede nella politica. Con il Celag abbiamo fatto dei sondaggi sulle politiche portate avanti dal Mas, sulla nazionalizzazione degli idrocarburi e sulle politiche sociali e il consenso verso di esse è altissimo e il livello di logoramento del Governo è minimo. La destra, piuttosto, continua a credere ai suoi titoli di giornale che annunciano una caduta immediata di tutti i governi della sinistra. Questo dimostra una cosa sulla quale bisognerebbe riflettere, ovvero una dissociazione sempre maggiore tra quello che raccontano i grandi mezzi di informazione e quello che pensa la maggioranza delle persone – cosa che è dimostrata dai risultati elettorali in tutta l’America Latina.
In Bolivia continua a esistere una tensione tra chi chiede una radicalizzazione del processo democratico (penso alla marcia «Por el Territorio y la Dignidad» del novembre passato) e quella destra golpista che continua ad agire impunemente. Luis Fernando Camacho è stato eletto Governatore del Dipartimento di Santa Cruz – una regione tradizionalmente ricca e conservatrice – e non tutti coloro che hanno partecipato attivamente al golpe sono stati processati. Intanto Evo Morales, fuori dal Governo, critica spesso l’operato dell’esecutivo di Luis Arce. Come vedi il futuro politico della Bolivia?
Ho imparato che prevedere il suo futuro è difficile. In questo momento siamo in una fase in cui si riflette maggiormente sul golpe e vi è una maggiore allerta. Io non credo che vi siano differenze importanti tra Evo e Arce, direi delle sfumature dovute più che altro per ragioni di traiettoria biografiche ma la struttura ideologica è la stessa. Se penso ai primi trenta temi credo che non ci siano differenze importanti. Ora siamo in una fase in cui il Mas analizzando i fatti del 2019-20 sta costruendo la sua narrazione epica del golpe del 2019 – perché anche l’epica è importante – ma non in senso frivolo piuttosto come base credibile che dà forza al progetto politico.
Come Celag abbiamo fatto sondaggi che dimostrano che la vecchia destra golpista di Camacho, Quiroga e Mesa è minoranza nel paese. Vi è una nuova opposizione con forza crescente e che ha apparentemente un approccio più democratico e i suoi leader in Manfred Vila e Eva Copa. È certo, poi, che continua a esserci una tensione territoriale in Bolivia. In territori come Santa Cruz il Mas non è certamente maggioranza ma pure lì esiste uno zoccolo del 30-35% e vi sono dirigenti di primo piano del Mas come Adriana Salvatierra e Gabriela Montaño che vengono da quelle zone.
Si parla molto di una seconda ondata progressista in America Latina. Dopo le vittorie della sinistra in Messico e Cile, potrebbe essere giunto il momento di Gustavo Petro in Colombia e del ritorno di Lula in Brasile. Credi che davvero siamo di fronte a una nuova ondata per la sinistra e, se sì, quali differenze vedi con la prima?
Anni fa scrissi un saggio, América Latina en dísputa, in cui dicevo che non bisognava essere così pessimisti dopo sconfitte come quella in Argentina del 2015 e che a me non pareva che stessimo di fronte alla fine di un ciclo. A volte si perdono delle elezioni e non per questo finisce un ciclo. Ora direi la stessa cosa al contrario: non è che per aver perso alcune elezioni, la destra è sul punto di sparire. Certamente, se Gustavo Petro e Francia Márquez vincessero in Colombia come tutti i sondaggi affermano, staremmo davanti a una sconfitta del modello neoliberale più selvaggio, assassino, conservatore e sottomesso agli Stati uniti. Sarebbe un fatto enorme. Anche l’eventuale ritorno di Lula al Governo sarebbe importante ma in Brasile, accordandosi con il centro di Geraldo Alckmin, ha dato vita a una svolta di tipo cardosiano per sconfiggere l’estrema destra. L’elezione più importante è in Colombia. Seguo molto la Colombia e se uno ascolta Petro noterà che ha una chiara e brillante visione ideologica che può renderlo uno dei grandi riferimenti intellettuali dei prossimi anni.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.