Corporation e consulenti dominano i democratici Usa
Angelo Greco, consulente del Partito democratico e poi di Sanders e di organizzazioni no profit spiega come le strategie politiche siano dominate dalle grandi strutture economiche. Che hanno condotto Kamala Harris al fallimento
Angelo Greco, classe 1982, italo-americano nato in Sicilia ma da sempre residente negli Stati uniti, ha cominciato a lavorare nell’ambito della consulenza politica e sociale subito dopo la laurea in Scienze politiche e il master in public policy, rispettivamente conseguiti alla John Cabot University di Roma e all’American University di Washington DC, dove risiede. Da alcuni anni è un consulente indipendente, responsabile delle comunicazioni e della divulgazione politica di candidati dell’ala sinistra del Partito democratico e di organizzazioni che operano nell’ambito della giustizia ambientale, economica, per i diritti riproduttivi e per diverse altre cause progressiste, organizzazioni per le quali ha operato anche nella campagna di Kamala Harris. Precedentemente ha lavorato da dipendente sia per organizzazioni di interesse sociale, tra cui l’Aarp (American Association of Retired Persons), sia in ambito strettamente politico: nel 2012 per la campagna di rielezione di Barack Obama e nel 2016 per il Comitato Democratico Nazionale, dall’interno dei quali ha avuto modo vedere in azione i meccanismi neoliberisti imperanti nel partito. Nel 2019-2020 è stato senior advisor nelle primarie presidenziali di Bernie Sanders.
La sua conoscenza dell’ambiente dei consulenti e strateghi politici, una vera e propria industria strutturata a vari livelli dove le ambizioni carrieristiche personali sono tali da poter compromettere anche persone inizialmente animate dalla volontà e dalla convinzione di lavorare per il bene pubblico, è molto profonda. Così come lo è quella del Partito democratico e delle varie organizzazioni con cui questo ha a che fare, comprese quelle progressiste che, a causa del coinvolgimento a vario titolo con le corporation, troppo spesso si adeguano a istanze molto più blande rispetto a quelle che servirebbero per migliorare le condizioni della working class.
In questa conversazione avvenuta a Washington, Angelo Greco ha esposto con dovizia di dettagli, senza ipocrisia, l’ambiguo sistema di interrelazioni che regola l’industria della consulenza e il variegato bacino dei suoi committenti.
Difficile scegliere un punto di partenza, considerata la complessità del mega-ambiente nel quale operi da vent’anni. Comincerei con Kamala Harris e la squadra dei suoi top-strategist. Ce ne elenchi qualcuno?
Innanzitutto Tony West, figura del cerchio magico di Kamala in quanto marito di sua sorella Maya e leader di punta della campagna. West è un alto dirigente di Uber che, come Lyft e altre compagnie del trasporto automobilistico privato, è nota per non concedere ai lavoratori e agli autisti i diritti che spetterebbero loro e per cercare di revocare quelli che sono riusciti a fatica a conseguire in alcuni Stati. Durante la campagna elettorale di Kamala Harris Uber ha pagato lobbisti per fare pressioni in Massachusetts, dove uno dei quesiti elettorali riguardava la concessione della sindacalizzazione, unico mezzo per i lavoratori per poter ottenere protezioni e miglioramenti, come ad esempio il passaggio degli autisti da contractor esterni a dipendenti. Ma l’influenza di Tony West si è spinta molto più in là. All’inizio Kamala aveva lanciato alcuni messaggi populisti contro il gouging, l’aumento dei prezzi immotivato, subito ritirati per le pressioni esercitate da persone come West sui media finanziari e su quelli mainstream più conservatori come Cnbc o Wall Street Journal, che hanno paragonato, e propagandato, le seppur vaghe proposte di Harris allo stile sovietico del controllo dei prezzi.
Una stratega assunta per la campagna è Stephanie Cutter, fondatrice e Ceo della ditta Precision Strategies, che si occupa di public relation e contatti media per grosse corporation molto critiche sulle politiche che l’ala sinistra del partito vorrebbe implementare, come l’innalzamento del tetto della Social Security, la sanità nazionale o l’aumento delle tasse per super-ricchi e corporation. La presenza di persone come Stephanie Cutter o come l’ex consulente di punta di Obama David Pluff – un altro neoliberista in affari con Uber e altre corporation, assunto subito dopo il ritiro di Biden per ricucire intorno a Kamala una coalizione alla Obama – è una delle contraddizioni sconcertanti dell’odierno Partito democratico che non può assumere la mentalità della protezione della working class avendo al suo interno strateghi lontani anni luce da quegli interessi. Questo vale anche per i consulenti di livello medio che, lavorando per candidati democratici ed essendo contemporaneamente al soldo di compagnie che sfruttano i lavoratori e abbassano i salari, tradiscono i valori che il partito pretende di sostenere. Come si può credere in un partito che dovrebbe proteggere i diritti del lavoro quando gli strateghi che danno forma ai messaggi politici agiscono di fatto contro quei diritti? E non si tratta solo di sfruttamento economico, ma del modo in cui razzismo, sessismo e misoginia si intrecciano con l’insicurezza che forgia la vita di milioni di americani. Invece di offrire politiche che ne migliorino la vita, il Partito democratico tratta gli elettori della working class come macchine da voto date per scontate invece che come persone le cui voci chiedono di essere ascoltate.
Tu parli di working class, che in teoria dovrebbe costituire la rappresentanza maggiore della base democratica. Tuttavia Kamala ha sempre e solo parlato di middle class, citando la working class esclusivamente nella fase finale della campagna, dando perfino l’impressione di averlo fatto per sbaglio.
Sì, ha nominato la working class quando era necessaria una virata un po’ più popolare visti gli esiti drammatici dei sondaggi interni. Ma ormai era troppo tardi ed era difficile crederci dopo una campagna destinata alla middle class di tipo carrieristico o imprenditoriale che grazie ad aiuti governativi può permettersi di acquistare una prima casa o può costruirsi la propria impresa. Sono soluzioni neoliberiste che non affrontano il grosso problema dell’accessibilità che è estremamente limitata, poiché non esiste più una rete di servizi governativi capace di supportare un sistema che per decenni è stato eroso dalla deindustrializzazione e da trattati commerciali come il Nafta. La maggior parte degli americani fa ormai parte di una working class allargata che comprende blue collars e white collars, persone che vivono in affitto, lottano quotidianamente per far quadrare i conti spesso facendo due o più lavori, e che all’American Dream non ci pensano proprio. Il partito omette anche di considerare razzismo e sessismo come problemi fondamentali della working class, sebbene le iniquità economiche riguardino in particolare coloro che sono pagati di meno, che non hanno accesso all’assicurazione sanitaria e che per un’infinità di cause sono più vulnerabili allo sfruttamento, come le donne e la popolazione di colore. E mentre la diversità è stata simbolicamente celebrata nel ticket presidenziale, si è fatto molto poco per far sì che quella diversità corrispondesse a politiche concrete per alleviare le condizioni delle persone che con quelle diseguaglianze hanno a che fare tutti i giorni. E non si tratta di un fallimento retorico, bensì di un fallimento strategico.
Puoi approfondire il tema di come questi fallimenti siano connessi al mondo della consulenza?
Il rifiuto del partito di connettersi ai veri problemi di questa vasta working class sono insiti in un sistema guidato dall’industria dei consulenti strategici che sono, come le élite del partito, disconnessi dalle realtà delle comunità che pretendono di servire. I consulenti che consideravano la Bidenomics uno slogan vincente, sono gli stessi che hanno pensato che vaghi messaggi sui diritti riproduttivi o sull’immigrazione bastassero per ottenere una massiccia affluenza al voto. Invece di parlare alle persone in difficoltà hanno spinto perché si corteggiassero la middle class abbiente dei sobborghi e i repubblicani anti-Trump rappresentati da Liz Cheney. Anche se nel programma di Harris qualcosa di buono c’era, come l’inclusione nel Medicare dell’assistenza domiciliare per gli anziani, che sarebbe stata una grande espansione della rete sanitaria, e qualche proposta per la cancellazione del debito sanitario, è mancata la volontà di concentrarsi su temi su cui non si poteva evitare di fare i nomi dei «cattivi». Ed è lì che i democratici falliscono, perché non vogliono inimicarsi i donatori che tengono aperte le «porte girevoli».
Cosa intendi per «porte girevoli»?
È una delle espressioni del linguaggio comune tra le persone con le quali lavoro che, avendo contatti con celebrità e con persone che guadagnano un sacco di soldi, intravedono la strada per diventare lobbisti o PR di clienti sempre più importanti e guadagnare di più. È un dato di fatto condiviso che l’industria della consulenza sia un sistema nel quale le persone si vendono. E più che ai livelli alti questo succede ai livelli medi, dove la possibilità di far carriera conta su queste «porte girevoli» e su un certo andirivieni dalla politica alzando progressivamente il livello dei committenti, delle posizioni e dei guadagni. Certo non puoi correre il rischio di far arrabbiare quelli per cui lavori o sputare nel piatto in cui mangi. Così fai il tuo lavoro ma cerchi comunque una via alternativa per avere clienti sempre più ricchi e influenti. Quando lavoravo per il Comitato Democratico Nazionale (Dnc), nelle presidenziali del 2016, oltre al riciclo dei consulenti corporate che avevano già lavorato per Obama e che poi avrebbero lavorato per Biden, ne ho conosciuti alcuni che arrivavano dalla Lockheed Martin e dalla Boeing del Military Industrial Complex così inviso a Bernie Sanders e a Tulsi Gabbard, che infatti si dimise dal comitato per dare il suo endorsement a Sanders, mentre dall’interno dovresti essere neutrale. Dico «dovresti» perché in realtà tutti quanti fin dall’inizio si stavano preparando per Hillary. Prima che Tulsi si dimettesse ho visto il modo in cui hanno tentato di toglierle le credenziali, perché aveva osato sfidare la potentissima presidente Debbie Wasserman Schultz, criticando i comportamenti faziosi del comitato.
Ci racconti qualcosa in più della tua esperienza come dipendente del Partito democratico, prima per Obama e poi per il Dnc?
Per la campagna di rielezione di Obama nel 2012, quando il messaggio principale era battere MItt Romney, ho preso atto di quale forza può avere un movimento grassroots [cioè dalla base, Ndr], perché tantissimi volontari ancora credevano nei cambiamenti che Obama aveva promesso, avendo imputato la loro scarsa realizzazione agli ostacoli posti dai repubblicani. All’inizio anch’io ci ho creduto, poi però strada facendo mi sono reso conto di quanta ipocrisia ci fosse in tutta quella propaganda, dato che nulla si traduceva nei cambiamenti auspicati. Deluso dall’esperienza, ho temporaneamente abbandonato la politica fino all’arrivo di Bernie Sanders, che mi ha dato grande ispirazione e speranza. Mi sembrava impossibile che un candidato presidenziale parlasse di Medicare for All, di uguaglianza economica e razziale, di emergenza climatica, e così sono andato a lavorare per il Comitato Democratico Nazionale. Non sapevo quanto in là Bernie Sanders sarebbe riuscito ad andare, ma mi sono subito reso conto di come tutti fossero contro di lui. Oltre al trattamento riservato a Tulsi Gabbard ho visto anche quello riservato a Nina Turner, che Hillary Clinton odiava perché si era schierata con Sanders, alla quale è stato impedito di parlare alla Convention Democratica di Filadelfia nonostante fosse in scaletta. Quando poi ho aperto la mia attività indipendente Nina Turner è diventata mia cliente per la corsa congressuale e siamo tuttora in contatto costante. Dopo la convention e la sconfitta di Bernie mi hanno mandato in Florida dove mi sono occupato di ingaggiare celebrità e leader democratici che facessero da sostituti di Hillary negli eventi elettorali dello Stato. Poi ancora una volta ho abbandonato la politica, fino alla campagna per le presidenziali del 2019-20 dove ho lavorato direttamente per Bernie Sanders come senior advisor alla comunicazione durante le primarie.
Quindi anche tu come i tuoi colleghi hai fatto uso delle «porte girevoli», anche se per delusione e non per carrierismo. E sei stato assunto all’Aarp, una delle principali associazioni americane non profit per pensionati dai 50 anni in su. Com’è stata l’esperienza in quel settore?
Deludente, ancora una volta. Con i suoi 30 milioni di iscritti l’Aarp è molto forte nella protezione della Social Security e del Medicare, l’assistenza sanitaria gratuita per gli over 65, e della sua espansione, ma non si occupa di politiche sociali molto più inclusive come l’assistenza sanitaria universale o l’abbassamento dei costi dei medicinali da prescrizione. Perché? Perché anche l’Aarp, che fa parte dell’ambiguo mondo del Non-Profit Industrial Complex, ha una sezione profit che ha come partner la Unitedhealthcare [il cui Ceo, Brian Thompson, è stato assassinato per la strada a New York il 4 dicembre, Ndr], una delle principali corporation dell’industria sanitaria e assicurativa, da cui l’Aarp prende moltissimi soldi. Deluso anche da quell’esperienza ho deciso di aprire la mia impresa di consulenza.
Puoi citare delle organizzazioni per cui lavori che sono particolarmente interessanti a livello di proposte politiche?
Oltre a Our Revolution – il gruppo fondato nel 2016 sull’onda della Rivoluzione Politica di Bernie Sanders – del quale sono consulente per le comunicazioni strategiche, voglio citare Fair Wage, che lotta per il salario minimo nazionale e in particolare per quei lavoratori e lavoratrici del settore della ristorazione che percepiscono il cosiddetto sub-minimum wage di 2,13 dollari all’ora, retaggio dello schiavismo, laddove il salario minimo è di 7,25 dollari. Sembra impossibile che ci siano lavoratori e lavoratrici che per contratto prendano due dollari all’ora, eppure è così. E coloro che si oppongono maggiormente all’aumento della paga sono i democratici moderati che percepiscono mazzette dalla National Restaurant Association e si giustificano dicendo che quella cifra è sufficiente perché poi ci sono le mance, pur sapendo che nella maggior parte dei casi la paga resta più o meno la stessa. Sia Biden, già nel 2020, sia Harris nel 2024 avevano la modifica del sub-minimum wage nel programma, ma né Biden si è sognato di modificarlo né Harris ne ha fatto cenno durante la campagna elettorale, lasciando quell’istanza come lettera morta tranquillizzando le corporation della ristorazione.
Le organizzazioni pro-diritti per le quali lavori sono «pure» o contaminate almeno in parte dagli interessi economici invasivi nell’industria della consulenza?
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, però mentirei se ti dicessi che sono tutte «pure», come dici tu. Alcune ricevono soldi da Comcast, Verizon, Uber, Lyft e altre big corporation. Non ho mai visto esplicite pressioni mirate a cambiare i messaggi, ma solo perché i messaggi sono focalizzati su obiettivi specifici. Il problema è che quegli obiettivi specifici rappresentanomiglioramenti incrementali, ma non corrispondono alle necessità reali che bisognerebbe affrontare. Ti faccio un esempio. Se Comcast o Verizon danno soldi a qualche organizzazione per abbassare i costi della banda larga, allora quella è un’organizzazione progressista perché ha un programma di «inclusione digitale», anche se viene ignorato il vero problema, ossia la mancanza di connessione delle comunità rurali alle quali le corporation della comunicazione non sono interessate perché non portano profitto. Con Biden si è arrivati a 35 dollari al mese per la banda larga, che è davvero poco, cosa che ovviamente porta una maggiore inclusione digitale, ma anche grande profitto alle corporation che utilizzano quelle organizzazioni progressiste per fare i propri interessi. E questo vale in molti ambiti. È un sistema monopolistico che si concentra su qualche miglioramento nel breve periodo continuando a ignorare i bisogni strutturali.
Come si distinguono le organizzazioni «progressiste» che prendono corporate money da quelle che non lo prendono?
Entrambi i tipi rientrano sotto l’etichetta di organizzazioni che promuovono diritti civili. Le organizzazioni veramente progressiste sono quelle che si occupano di istanze strutturali come ad esempio l’American Economic Liberties Project, che combatte apertamente il sistema economico delle corporation e dei monopoli. Ha fatto un ottimo lavoro nel contribuire a scegliere e riuscire a mantenere a capo della Federal Trade Commission una persona come Lina Kahn, che per il suo lavoro contro i monopoli è stata presa di mira sia da parte repubblicana (ad eccezione di J.D. Vance e Matt Gaetz, che Trump aveva scelto come Attorney General ma che si è poi ritirato), sia da parte democratica. Su Lina Cahn, figura che è da mesi al centro del dibattito politico, Kamala Harris non si è pronunciata mantenendo fede alla sua ambiguità, ma Mark Cuban, l’imprenditore miliardario che è stato uno dei principali sostenitori e surrogate di Kamala, da tempo ne chiede il licenziamento, cosa che con tutta probabilità avverrà col governo Trump anche grazie al sostegno democratico. Comunque, se siamo a questo punto è perché siamo tutti un po’ colpevoli e complici in questo sistema.
Senti anche tu di essere colpevole e complice?
Sì, perché opero nell’infrastruttura dei consulenti interna al Partito democratico e quindi anche se i miei risultati immediati contribuiscono ad allargare la platea per benefit importanti, includendo persone che non se li potevano permettere, resta comunque la mia consapevolezza che i problemi di base generalmente vengono ignorati. Ciò avviene perché negli anni si è consolidato un regime nel quale anche le organizzazioni pro-diritti prendono soldi da fondazioni, corporation ed enti filantropici manovrati dai miliardari, che sono quelli che stabiliscono l’agenda con anni di anticipo. Loro giocano a scacchi e noi a dama e si va avanti così. Persone come me, che lavorano in proprio sia per il Partito democratico, sia per organizzazioni, candidati e istanze elettorali di ambito progressista, sia per clienti corporate, fanno comunque parte del sistema anche se cercano di essere fedeli ai propri ideali politici. Con un portfolio di questo tipo è inevitabile chiedersi quanto si possa spingere su istanze effettivamente progressiste senza mandare tutto all’aria. Supponiamo che io lavori per un candidato che si batte perché i contractor esterni del trasporto vengano assunti come dipendenti, e che al tempo stesso io lavori anche per Uber su una strategia incrementale che renda le corse più inclusive e accessibili. Sono entrambe cose buone eppure sono in contrasto, e se non sto attento corro il rischio che il mio contratto venga rescisso e che non mi chiamino più come consulente. È davvero un territorio minato, nel quale cerco di barcamenarmi in un modo che mi permetta di non tradire troppo le mie convinzioni politiche.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
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