Dove ci porta il Modello Albania
Con il rocambolesco decreto sui paesi sicuri, il governo Meloni prova a salvare l'accordo che esternalizza la detenzione delle persone migranti. E che rappresenta una minaccia disumana che rischia di contagiare tutta l'Unione europea
Fin dalla sua firma, nel novembre 2023, il Protocollo tra Italia e Albania per l’apertura di due centri di detenzione per persone migranti è stato oggetto di critiche significative e sostanziali, nonché ampiamente circostanziate, da parte di politica, accademia, giornalismo e società civile. Tra i vari aspetti contestati nel corso del tempo, ci sono le violazioni del diritto internazionale, del diritto dell’Unione europea e di innumerevoli diritti umani delle persone migranti, l’opacità dei costi e i potenziali profili di illegittimità delle concessioni, nonché il tentativo, spesso riuscito, di eludere i più basilari meccanismi di controllo democratico, tanto in fase di approvazione quanto di implementazione.
Con l’avvio, nei giorni scorsi, della fase operativa dell’accordo, l’inizio dei primi trasferimenti di persone in Albania e l’incredibile e vergognoso rimpallo di esseri umani da un lato all’altro dell’Adriatico, l’insostenibile follia dell’operazione è venuta fuori in tutta la sua crudele realtà, e invita a nuove riflessioni.
Da un lato, esse riguardano proprio la dimensione operativa degli accordi, che non solo sembra confermare tutti i timori che erano stati espressi nel corso dei mesi da chi contestava l’accordo, ma rivela ulteriori e significative criticità sotto innumerevoli profili, incluso quello sanitario. Dall’altro, l’avvio delle operazioni è coinciso con un interesse crescente da parte dell’Ue e dei suoi 27 stati membri verso quello che è stato definito – con accezioni ben diverse, a seconda di chi ne parlava – il «modello Albania». Da qui l’importanza di affrontare il modo in cui questo accordo e il suo maggiore o minore successo, sotto molteplici punti di vista, potrà incidere sulle future politiche migratorie e di asilo dell’Ue e dei 27.
Partendo dalla dimensione operativa, nonostante alcuni chiarimenti in merito contenuti nella legge di ratifica, ci sono diversi aspetti che il Protocollo ha lasciato non chiari o del tutto non definiti. La maggior parte degli aspetti operativi riguardanti la fase immediatamente successiva al soccorso, a bordo della nave militare hub, sono infatti emersi in questi giorni, solo in seguito all’inizio delle operazioni.
Implicazioni sanitarie
Innanzi tutto, si specifica che solamente le persone soccorse in acque internazionali, e in particolare in zona Sar (zona di competenza per la ricerca e il soccorso) italiana, dalle motovedette della guardia costiera italiana e della guardia di finanza possono essere condotte a bordo della nave hub. Tale nave, che attualmente è la nave militare P402 Libra, staziona infatti immediatamente fuori dalle acque territoriali. Le persone soccorse in acque territoriali italiane dovrebbero essere condotte invece in Italia. Il condizionale è d’obbligo, perchè se effettivamente le motovedette italiane rispetteranno questa distinzione sarà un elemento da monitorare attentamente, soprattutto dato il frequente scenario che si verifica nelle acque a sud di Lampedusa, con molteplici imbarcazioni in distress nello stesso momento e la necessità per le motovedette in servizio di effettuare soccorsi multipli, tanto nel mare territoriale quanto in acque internazionali. In quest’ottica, le dichiarazioni delle prime persone migranti condotte in Albania in merito all’effettivo luogo in cui è avvenuto il salvataggio sembrano confermare questi dubbi.
Rispetto, poi, alla selezione di vulnerabilità prevista dal protocollo, era stata inizialmente ventilata l’ipotesi – poi smentita, almeno per ora, dai fatti – che tale selezione potesse avvenire già a bordo delle motovedette della guardia costiera italiana, sulle quali opera il Cisom (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta), che attraverso il progetto Passim fornisce personale sanitario (medico e infermieristico) a bordo delle motovedette italiane. Ma le motovedette, ancora più della nave hub, sono imbarcazioni con spazi molto limitati, del tutto inadeguati a una completa ed efficace valutazione delle condizioni mediche e più in generale delle vulnerabilità di una persona. Tuttavia, nel caso in cui un primo screening venisse richiesto in futuro anche a bordo delle motovedette, il Cisom dovrà decidere se porre fine alla collaborazione ormai consolidata con la guardia costiera italiana o se prestarsi a tale pratica. Ad ogni modo, il Cisom è già oggi presente, come poc’anzi ricordato, a bordo delle motovedette che effettuano soccorsi in zona Sar italiana, in seguito ai quali le persone soccorse possono essere poi condotte a bordo della nave militare per essere selezionate ed eventualmente trasferite in Albania, come avvenuto per i soccorsi effettuati nella notte tra il 13 e il 14 ottobre. Al momento non c’è stata alcuna presa di posizione pubblica da parte del Cisom in merito alla scelta di essere parte di questo sistema, nonostante si tratti di un ordine religioso che fornisce personale sanitario e tale sistema sia non poco problematico dal punto di vista etico e di deontologia medica.
A bordo della nave hub sappiamo invece della presenza di Unhcr e Oim, responsabili di quello che di fatto è il primo screening di vulnerabilità e che, pertanto, avviene in mezzo al mare. Come descritto dal contrammiraglio in congedo Vittorio Alessandro, l’imbarcazione attualmente utilizzata come nave hub è un pattugliatore di ottanta metri con spazi ristretti e inadeguati, senza un’infermeria o un ufficio idonei alla valutazione di vulnerabilità delle persone migranti. La valutazione delle condizioni cliniche delle persone soccorse – effettuata da personale sanitario – rientra pienamente, infatti, fra i criteri di vulnerabilità secondo la Direttiva 2013/32/EU. Nel Protocollo, tuttavia, non si fa alcun riferimento alla presenza di personale sanitario dedicato a tale valutazione. Una volta escluso che si tratti di personale della Croce rossa italiana (che, nonostante in passato si fosse prestata alla gestione dell’abominio delle navi quarantena, in questo caso ha deciso di non farsi coinvolgere) o del personale Usmaf, le ipotesi più accreditate pare si confermino quelle di una o un medico e infermiere nel team Oim oppure di un medico militare a bordo della nave. Ad oggi, però, non vi è alcuna chiarezza sul punto. Di fatto, come se non bastassero la Costituzione, la Convenzione europea per i diritti dell’uomo, le varie direttive europee e le condanne già subite dall’Italia ad affermare che una tale selezione di vulnerabilità non è possibile a bordo di una nave in mezzo al mare, l’esperienza del primo trasferimento di persone in Albania ha confermato il fallimento di questo tipo di screening. Delle sedici persone trasferite oltre Adriatico in quanto «non vulnerabili», infatti, quattro sono poi state riconosciute come vulnerabili al momento del secondo screening condotto dopo lo sbarco in Albania.
Bisogna poi soffermarsi su ciò che accade al momento dello sbarco nel porto di Shengjin. Qui le persone migranti vengono sottoposte a uno screening sanitario e alle procedure di identificazione. Mentre il personale Unhcr e Oim viaggia sulla nave insieme a loro, a Shengjin sono presenti mediatori e mediatrici culturali nonché personale medico e infermieristico Usmaf, l’ufficio periferico del Ministero della salute che si occupa, tra le altre cose, delle condizioni sanitarie delle persone al momento dello sbarco e che, già nel 2022, si era prestato a una veloce, inconsistente e arbitraria «selezione sanitaria» delle oltre mille persone a bordo di quattro navi della Flotta civile, bloccate per giorni in totale violazione delle leggi che regolamentano il soccorso in mare.
Qui le persone ritenute non vulnerabili vengono trasferite nel centro di Gjader e vanno incontro a una forma di detenzione amministrativa, che riguarda sia coloro che sono in attesa del riconoscimento della protezione internazionale, sia coloro la cui domanda è stata rifiutata e sono in attesa di rimpatrio. Queste strutture sono paragonabili ai nostri hotspot e Cpr, in merito ai quali è già stata ampiamente provata e denunciata la violazione dei diritti umani che avviene all’interno. Anche per questo, il personale Oim, Unhcr e Usmaf, che classifica una persona come «non vulnerabile», e quindi adeguata all’ingresso in queste strutture, dovrebbe essere ben consapevole dell’inadeguatezza di spazi, tempi, modalità e strumenti per poter verificare effettivamente la vulnerabilità manifesta o potenziale di una persona. Dovrebbe inoltre considerare la patogenicità intrinseca della detenzione amministrativa, sia per la salute fisica che per quella mentale, la difficoltà a identificare condizioni patologiche anche mentali per cui si rendono necessari tempi più lunghi e competenze diverse da quelle indicate nel Protocollo, nonché le ripercussioni che la separazione di nuclei familiari, la permanenza prolungata in mare e la totale privazione della libertà possono avere sulla salute fisica e mentale delle persone. Per quel che concerne, invece, le persone ritenute «non vulnerabili» in seguito al secondo screening, esse vengono imbarcate nuovamente sulla Libra e ricondotte in Italia.
Impatto sul soccorso in mare
Tornando al soccorso in mare, in zona Sar italiana è frequente la collaborazione tra la guardia costiera italiana e le navi e gli aerei di soccorso appartenenti alla Flotta civile, in termini ad esempio di stabilizzazione dell’imbarcazione in distress da parte della nave della Flotta civile, in attesa dell’arrivo della motovedetta della guardia costiera per portare a termine il soccorso e sbarcare i naufraghi e le naufraghe in Italia. A volte, concluso il soccorso in mare e avviata la fase di accoglienza e visite mediche a bordo di una nave della Flotta civile, sopraggiunge una motovedetta della guardia costiera italiana per effettuare un trasbordo dei naufraghi e delle naufraghe a bordo del proprio assetto e condurli a Lampedusa.
Fino a qualche giorno fa, questo era da considerare come un ottimo esempio di come dovrebbe avvenire la collaborazione dei diversi attori che si occupano di soccorso in mare, istituzionale e civile, finché quest’ultimo si renderà necessario. Tuttavia, si paventa adesso il rischio di essere complici delle autorità italiane in questo sistema di deportazione e ghettizzazione in Albania. Le diverse Ong e realtà del soccorso civile hanno già preso le distanze e criticato ampiamente il Protocollo, essendo questo in violazione dei diritti umani delle persone migranti e del diritto internazionale, a partire dal principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra, e hanno dichiarato che non si renderanno complici di tali deportazioni. Se ci saranno conseguenze legali per l’eventuale diniego al trasbordo delle persone soccorse sugli assetti governativi, e in cosa tali conseguenze consisteranno, sarà tema delle prossime settimane o addirittura dei prossimi giorni, e si aprirà verosimilmente un nuovo capitolo nella repressione e criminalizzazione del soccorso civile in mare. In tutto ciò, è paradossale pensare che, nell’urgenza e bramosia di mostrare all’Europa l’efficienza del «modello Albania», i soccorsi in zona Sar italiana potrebbero ora avvenire con una certa celerità ed efficacia, mentre negli anni passati si è assistito più volte a ritardi o addirittura omissioni di soccorso, che hanno determinato naufragi divenuti tristemente famosi. Provoca rabbia e tristezza la ragione dietro a questa rinnovata efficienza nell’operatività del soccorso in mare, che dovrebbe essere invece costante e universale, alla luce delle convenzioni internazionali e nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone.
Il compiacente parlamento europeo
Il paradosso ulteriore del Protocollo Italia-Albania è che, nonostante tutto quel che è stato rappresentato finora, continua a tenere banco nel dibattito sulle politiche migratorie Ue, come dimostra la recente riunione del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre. Per comprendere le ragioni di ciò, e districarsi in una situazione che appare parecchio complessa e (almeno apparentemente) confusa, conviene iniziare dal principio, e cioè dalle primissime reazioni all’accordo, sul finire del 2023.
Esse mostravano un sostanziale interesse e supporto di fondo, tanto da parte dei governi europei – a partire dal cancelliere tedesco Olaf Scholz – quanto da parte della Commissione, per bocca della sua presidente Ursula von der Leyen, dopo il pilatesco e rocambolesco non-giudizio iniziale, espresso dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, secondo cui gli accordi si collocavano al di fuori del diritto Ue e, pertanto, non potevano essere in violazione dello stesso. Questo interesse non era inatteso: in fondo, erano gli stessi mesi in cui un altro paese europeo, per quanto appena fuori Ue, tanto geograficamente quanto cronologicamente, e cioè il Regno Unito, portava avanti il suo «modello Ruanda».
Nei mesi successivi, l’approvazione definitiva del Patto sulla migrazione e l’asilo segnava un passaggio ulteriore nello smantellamento dei diritti delle persone migranti nello spazio comunitario, avallato da un compiacente Parlamento europeo. L’approvazione di questo pacchetto di riforme rafforzava uno dei pilastri del modello Albania: tra i vari pezzi del puzzle legislativo di cui si compone il Patto, il cosiddetto Regolamento procedure introduce a livello comunitario quelle procedure accelerate di frontiera, utilizzate da anni in Italia e il cui ambito di operatività è stato significativamente ampliato dal governo Meloni, che sono alla base dell’accordo con l’Albania. Quest’ultimo prevede, infatti, che a essere processate nello Stato balcanico siano proprio quelle richieste di asilo soggette a procedura accelerata.
Le elezioni europee del giugno scorso non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, con un Parlamento e una Commissione sempre più spostati a destra e ossessionati da una stretta securitaria sulla migrazione e l’asilo.
Le contraddizioni europee
Come faro nella notte, in questo scenario desolante, è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso 4 ottobre. Affrontando la questione dei paesi sicuri, determinante per le procedure accelerate di frontiera, che possono essere disposte solo per chi proviene da tali paesi, la Corte ha stabilito che un paese può essere considerato sicuro solo se è tale in tutto il suo territorio e per tutte le persone che si trovano al suo interno. È stato proprio alla luce di questa sentenza che il tribunale di Roma, competente sui centri albanesi, non ha convalidato il trattenimento delle prime dodici persone condotte lì nei giorni scorsi.
E si arriva, così, all’attualità, fatta di un’Unione che «vorrebbe ma non può» seguire il modello Albania, o almeno non subito e non in modo esplicito. La Commissione europea esprime supporto, poi si smentisce da sé e infine ribadisce il proprio sostegno (a patto che si cambino le normative comunitarie). Gli Stati membri, a parte la cordata ipersecuritaria composta da undici paesi e guidata da Meloni, mandano messaggi ambigui. È vero che diversi «grandi», come Germania, Francia e Spagna, esprimono contrarietà al «modello Albania». È altrettanto vero, però, che, scavando più a fondo, c’è poco da essere allegri. La Germania, ad esempio, dice di non volere accordi come quello con l’Albania, ma solo perché non è interessata a svolgere all’estero le procedure accelerate di frontiera. Ben diverso sarebbe, come ribadito più volte, se nei paesi terzi si aprissero invece hub per i rimpatri (una delle priorità di Berlino). La Francia si mostra ondivaga, e pesa l’incognita di una coabitazione de facto tra Macron e il Rassemblement National. La centralità dei diritti umani ribadita dal presidente sembra non essere così prioritaria per il primo ministro, da cui è trapelato interesse verso questo modello di esternalizzazione. Una contrarietà basata sul mancato rispetto dei diritti umani viene invece dalla Spagna guidata da Pedro Sanchez – che però sembra non avere la stessa attenzione in merito a ciò che avviene lungo la rotta canaria, così come a Ceuta e Melilla.
In fondo, è proprio la storia dei posizionamenti rispetto all’accordo – e, più in generale, rispetto alle procedure di frontiera e all’esternalizzazione delle frontiere – ad aiutarci nella comprensione della fase attuale e degli sviluppi futuri. Al netto di quel che si dice o si lascia emergere, l’Ue (tanto la Commissione, quanto gli Stati membri – cioè il Consiglio – e, in misura crescente, pur con importanti eccezioni, il Parlamento) sostiene pienamente l’approccio del governo Meloni, fatto appunto di procedure accelerate, detenzione e frontiere spostate sempre più in là. Perché è esattamente la direzione in cui si è mossa con il Patto sulla migrazione e l’asilo, con le interlocuzioni informali avvenute nei mesi scorsi – tra tutte quella tra la ministra degli interni tedesca Nancy Faeser e l’omologo italiano Matteo Piantedosi – e più in generale con le politiche di esternalizzazione, come il patto siglato con la Tunisia. Se si sono pagate la Turchia e la Tunisia, tra gli altri, per trattenere le persone migranti, perché mai per l’Ue dovrebbe essere un problema pagare l’Albania per tenere queste persone lì in attesa che si valuti la loro richiesta di asilo?
Insomma, i problemi che la Commissione e la maggior parte degli Stati membri, salvo poche eccezioni, rilevano rispetto all’accordo tra Italia e Albania non sono certo etici o umanitari. Piuttosto, essi sembrano essere politici (ci sono cose che non si possono dire apertamente, o si possono dire solo fino a un certo punto), procedurali (per potere supportare pienamente questo modello va cambiata la cosiddetta Direttiva rimpatri, non a caso una delle priorità indicate dalla presidente della Commissione von der Leyen in una lettera ai 27 e ribadita dal Consiglio europeo di ottobre, pena l’incompatibilità del regime con il diritto comunitario), e di efficacia.
Già, l’efficacia. Perché quello che non rende realmente appetibile il «modello Albania», tanto a Bruxelles quanto in numerose cancellerie europee, è la poca efficacia, non la disumanità. Poca efficacia in termini numerici, come dimostra il rocambolesco avvio. Ma, ancor di più, poca efficacia rispetto alla vera priorità, sopra richiamata, e cioè i rimpatri. Ecco perché la mossa che si sta studiando è una trasformazione del «modello Albania». L’idea è che accordi come quello siglato da Giorgia Meloni ed Edi Rama possano servire non a detenere qualche decina di richiedenti asilo, ma persone espulse, aprendo alla strada del rimpatrio verso un paese terzo, dove stoccare le persone migranti come si trattasse di merce indesiderata, all’interno di centri di detenzione, in attesa di un rimpatrio effettivo nel loro paese di origine. Tutto ciò ad oggi è illegale per il diritto Ue. Domani, chissà.
Intanto, nelle scorse ore, il governo Meloni ha varato un decreto legge che rende norma primaria l’elenco dei paesi sicuri, e che avrebbe l’ambizione di scavalcare la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo la la logica espressa dal ministro della giustizia Carlo Nordio, per cui «nel momento in cui l’elenco dei Paesi sicuri è inserito in una legge, il giudice non può disapplicarla». La realtà è molto diversa, e il governo sa bene – lo si impara al primo anno di studi in giurisprudenza – che il diritto europeo, inclusa l’interpretazione che di esso dà la Corte di giustizia, prevale sul diritto interno. È probabile, quindi, che poco o nulla cambierà nei fatti.. Ma il senso dell’azione governativa è da ricercarsi nell’aumento della tensione nello scontro con le toghe, probabilmente allo scopo di distogliere l’attenzione dal fallimento della campagna albanese e, al tempo stesso, di capitalizzare politicamente questo scontro tanto sul fronte del dossier migrazione quanto su quello della riforma della magistratura.
In quello che appare sempre più come un gioco delle parti, non vi è traccia della minima attenzione verso le pesanti criticità operative emerse in questi primi giorni di attuazione del modello Albania. Ancora una volta, le poche speranze di fermare questa ulteriore deriva delle politiche migratorie e di asilo all’interno dell’Unione risiedono nel Parlamento europeo, in quelle poche forze che al suo interno si oppongono a questo modello. La Sinistra, i Verdi, ma anche – e questa è una novità – alcune delegazioni all’interno del gruppo dei Socialisti e democratici (S&D). In un quadro complessivo in cui i socialisti e socialdemocratici di governo stanno mostrando, al pari delle destre, il peggio di sé (nessuna novità al riguardo – Minniti docet), forse qualcosa può venir fuori anche da qui, e dalla capacità del gruppo S&D di esercitare una forte pressione tanto sulla Commissione, essendo parte della maggioranza parlamentare che la sostiene, quanto sui governi d’area. Ma i rapporti di forza, al pari della pochissima credibilità delle forze socialiste e socialdemocratiche in tema di politiche migratorie, gettano pesanti ombre sul futuro di questa strada.
*Vanessa Guidi è medica specializzanda in Medicina d’emergenza-urgenza. Attivista di Mediterranea – Saving Humans, ha ricoperto la carica di presidente dal 2020 al 2023. All’interno di Mediterranea coordina il team sanitario e ha partecipato a missioni in mare come medica di bordo e capomissione. Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del diritto alla città e delle migrazioni, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso e di Mediterranea – Saving Humans ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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