
Il colonialismo italiano raccontato ai ragazzi
Di colonialismo si parla sempre di più, ma in ambienti circoscritti e rivolgendosi agli adulti. I manuali scolastici invece sono gli stessi di quarant'anni fa e ancora sminuiscono il ruolo italiano in Africa
I libri di storia per le scuole medie ancora oggi trasformano il colonialismo in una competizione a cui l’Italia «tentò di partecipare», riuscendo in alcuni casi «solo a ritagliarsi una fettina» di paesi lontani, mostrando l’eredità che ci ha lasciato il colonialismo italiano: l’ignoranza. Per sessant’anni ci è stata proibita l’istruzione», afferma l’attivista e scrittrice eritrea Ribka Sibhatu. Un lascito che ha ispirato il titolo del libro, pensato per ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni, della scrittrice romana di origine somala Igiaba Scego, Figli dello stesso cielo (Piemme 2021), un omaggio al padre Ali Omar. «Voleva fare l’astronomo», ricorda, «ma gli è stato impedito di studiare. Questa è stata una delle violenze coloniali più grandi».
Di colonialismo si parla sempre di più, ma in ambienti molto circoscritti e rivolgendosi prevalentemente agli adulti: romanzi, saggi e libri storici non mancano. I manuali scolastici invece sono gli stessi di quando ero piccola. Si tratta spesso di paragrafetti stereotipati scritti male, con l’occhio del colonizzatore.
La centralità di questo aspetto emerge anche dalla lettura di un testo del 2015 pubblicato dalle Edizioni Università di Macerata: Il curricolo «razziale». La costruzione dell’alterità di «razza» e coloniale nella scuola italiana. In quest’opera l’autore Gianluca Gabrielli mostra come fin dalla prima metà dell’Ottocento apparvero nei testi scolastici racconti incentrati sulla presunta inferiorità degli africani. Storie che spiegavano agli studenti della scuola primaria dell’epoca «l’esistenza di una chiara gerarchia di civiltà, di una ‘varietà’ di popolazioni».
Si tratta di una campagna di disumanizzazione iniziata molto prima che il fascismo facesse la sua comparsa, come ribadisce Scego. Nel libro si parla ad esempio della battaglia di Dogali del 1887, «quando Mussolini aveva solo quattro anni». Eppure le violenze del colonialismo italiano spesso vengono ancora sminuite e presentate come un’infelice parentesi legata al ventennio fascista. Una rilettura fuorviante della nostra storia smontata in maniera chiara e accessibile da Francesco Filippi con Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri 2021), disamina impietosa dell’epoca coloniale italiana. Come spiega Filippi «il colonialismo in Italia rappresenta il trait d’union che tiene assieme le tre epoche, liberale, fascista e repubblicana, è un fenomeno addirittura più longevo dell’Italia sabauda, del fascismo o della repubblica stessa. E per tutta l’esperienza coloniale, si trova una continuità di intenti, di brutalità, di mentalità, in cui il fascismo, su cui si scaricano spesso le maggiori responsabilità, non fu in realtà che un tassello».
Riflessioni che si scontrano con una classe politica capace di affermare, come fece due anni fa il sottosegretario agli Esteri del Movimento Cinque Stelle Manlio Di Stefano, che «non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo di nessuna economia». Tuttavia considerare le parole di Di Stefano un caso isolato sarebbe un grave errore. L’assenza di memoria, il cosiddetto «rimosso coloniale», ha consentito anche in tempi recenti episodi ben più gravi come menziona Scego nell’epilogo di Figli dello stesso cielo.
Serve la memoria, se no succedono cose un po’ strane, come quella di Affile, una cittadina laziale dove invece di costruire un monumento alle vittime del colonialismo, è stato eretto un monumento dedicato a Rodolfo Graziani, un criminale di guerra che si è macchiato di molti crimini contro libici ed etiopi […]. È come se in Germania qualcuno si svegliasse e dedicasse un monumento ad Adolf Hitler. Impensabile!.
Impensabile in Germania, ma non in Italia dove perfino la Cassazione ha ritenuto che un sacrario dedicato a uno dei più sanguinari gerarchi fascisti non configurasse reato di apologia del fascismo. «Una ferita alla nostra Repubblica italiana (e alla Costituzione) nata dalla lotta contro il nazifascismo», scrive sempre Scego.
Sui monumenti edificati durante il fascismo, e non è il caso di Affile, l’autrice italo-somala, pur ritenendoli «problematici», non crede che vadano tolti dal paesaggio. «Anzi, vanno conservati, studiati e spiegati alla popolazione e quando si può risignificati, per far capire a tutti (senza abbatterli, ma con la forza delle parole e delle azioni culturali) che ogni oggetto e quindi ogni monumento ha una storia tossica e difficile alle spalle che non va negata, ma conosciuta». Un lavoro che ha auspicato anche per altri prodotti culturali, come nel caso della più celebre canzone fascista, Faccetta nera. «Dovremmo parlarne, soprattutto a scuola. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capro espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali». Aggiunge Scego: «Chi canta Faccetta nera oggi pensa che la canzone sia l’inno del fascismo ma in realtà […] Mussolini la odiava, anzi provò a farla censurare, la voleva far scomparire, ma era troppo famosa e non riuscì nel suo intento». Il testo non incontrava i favori del duce «perché ci vedeva troppa amicizia tra gli italiani e gli etiopi. E questo per i suoi piani non andava bene […], perché era troppo poco razzista per i suoi gusti». Non va infatti dimenticato che le prime leggi razziali del regime fascista furono quelle introdotte nelle colonie per contrastare le unioni miste (il cosiddetto «madamato») in nome di una presunta superiorità del maschio colonizzatore bianco da preservare a ogni costo.
La scrittrice conclude Figli dello stesso cielo, dove si parla anche di «blackface» e «scramble for Africa», sottolineando che «questo libro non è un processo al passato e soprattutto non è un processo all’Italia. È solo il tentativo di illuminare questo passato per conoscerlo meglio e per non ripeterlo» . La storia del colonialismo
non è ancorata al passato, ma ha conseguenze nel presente. Le migrazioni di oggi seguono le linee coloniali del passato. Noi (nel senso di migranti, figli di migranti) siamo qui, perché voi (inteso non voi voi, ma l’Europa, l’Occidente) siete stati lì, in Africa, a spartirvela. E quel stare lì dell’Europa ha significato per molte terre essere condannate alla povertà perenne, causata dal colonialismo di ieri che ha depredato risorse (e schiavizzato popoli) e dal neocolonialismo che con modalità differenti depreda le risorse di oggi.
Un altro testo che non sfigurerebbe come materiale didattico è Roma negata (Ediesse 2014), progetto a quattro mani realizzato sempre da Igiaba Scego insieme al fotogiornalista Rino Bianchi. In questo libro si ricostruisce, attraverso la descrizione di luoghi poco noti di Roma, un legame tra il nostro paese e quella parte d’Africa che prima abbiamo brutalmente sfruttato e poi abbandonato. C’è un passato che ancora oggi ci parla. Anche attraverso le insegne di un vecchio cinema di Tor Pignattara (il Cinema Impero raffigurato nella copertina del libro). Edifici, monumenti, vie e piazze. I «percorsi postcoloniali» sono numerosi e le immagini di Bianchi non si limitano a mostrarceli, giustapponendo i volti dei figli e delle figlie del Corno d’Africa. Questo libro, oltre a essere un atto d’amore verso una metropoli più meticcia di quanto immaginino i suoi stessi abitanti, è un invito vivo e pulsante a non dimenticare. Un valore – la memoria – da coltivare quotidianamente, magari solo camminando, non distrattamente, per le strade della propria città.
E di strada ce n’è ancora molta da fare com’è emerso durante una recente presentazione proprio di Figli dello stesso cielo organizzata dall’associazione genitori della scuola Di Donato, una delle realtà scolastiche più inclusive e multietniche di Roma. In quell’occasione Lorenzo Teodonio, autore insieme a Carlo Costa di Razza partigiana (fondamentale testo sul partigiano italo-somalo Giorgio Marincola), ha segnalato la presenza di un’aula dedicata a Carlo Evangelisti, «giovane funzionario coloniale» caduto in Africa Orientale e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Tracce del nostro passato che andrebbero studiate, anche per evitare scene come quella verificatasi in un istituto aeronautico di Bergamo dove, secondo quanto riporta Wired, ci sarebbero stati inni al duce e saluti romani. Il preside Giuseppe Di Giminiani, tramite il suo legale, ha invitato a «evitare strumentalizzazioni» e spiegato che avrebbe salutato «senza che le braccia siano tese in modo tale da poter intendere» un saluto romano, se non «in un’ottica forzata». Per quanto riguarda i cori studenteschi l’avvocato ha dichiarato che «la qualifica ‘duce’ andrebbe ricondotta alla sua radice latina (dux) e dunque a una analogia tra la figura del direttore scolastico a quella del ‘condottiero degli alunni’. Un appellativo utilizzato in maniera certamente improvvisata e senza intenzioni reattive». Come riferisce ancora Wired «quello di Bergamo non è l’unico istituto fondato da Di Giminiani. Nel 2010 il preside ha avviato un’altra scuola di aeronautica, a Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno. Entrambi gli istituti prendono il nome da Antonio Locatelli, aviatore e militare del Regio Esercito che, stregato dalle imprese coloniali del fascismo, partì volontario per la guerra d’Etiopia nel 1936 e lì vi trovò la morte. Nelle lettere alla madre, Locatelli esprimeva la sua gioia nel partecipare allo sterminio degli etiopi tramite l’uso di armi chimiche contro i civili».
Sei anni fa l’entusiasta sterminatore di etiopi finì al centro di accese polemiche dopo che un palloncino pieno di vernice rossa fu scaraventato contro una fontana in suo onore, macchiando tutta l’acqua in ricircolo. Un po’ di acqua rosso sangue e lo striscione «A. Locatelli assassino sanguinario» convinsero il sindaco Giorgio Gori a esprimere una di quelle scialbe condanne tipiche dei sinceri democratici: «Sappiamo che la figura di Antonio Locatelli è controversa. Un conto è però sollecitare un dibattito di natura storica, l’altro è imbrattare un monumento. Non sarà certo la maleducazione a modificare la collocazione di Locatelli nella toponomastica della città». Chi uccide civili con armi chimiche e se ne vanta diventa «controverso», mentre chi contesta duramente l’omaggio della propria città a un criminale di guerra viene accusato di «maleducazione». Su una cosa però Gori aveva ragione: è un problema di educazione. Assente. Perché solo la negazione di massacri tanto efferati quanto impuniti può rendere accettabile l’idea di intitolare a spietati assassini monumenti e istituti scolastici.
*Adil Mauro è un giornalista freelance. Ha un podcast: La stanza di Adil. Su Twitter: @unoscribacchino.
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