Il disarchivio del cinema postcoloniale
Tra il 1949 e il 1976 in Italia vennero prodotti più di duecento film che coinvolsero 22 paesi africani: indagare questo corpus di opere serve a capire anche la situazione odierna e i rapporti col sud del Mediterraneo
Sono andato a scorrermi la lista dei 154 film italiani in lizza per i David di Donatello 2025, con la curiosità di vedere quali siano stati almeno in parte ambientati e girati in Africa. A conti fatti sono spuntati fuori quattro titoli. Mi riferisco, partendo dal più recente, anzitutto a Non dirmi che hai paura, una coproduzione fra Italia, Germania, Belgio, Svezia e Regno unito, diretta dalla tedesco-turca Yasemin Samdereli insieme all’italo-somala Deka Mohamed Osman, che ricostruisce la vicenda umana toccante della giovane olimpionica somala Samia Yusuf Omar, protagonista del romanzo omonimo di Giuseppe Catozzella, e quindi ambientato in larga parte a Mogadiscio, mentre è stato girato solo in minima parte in Kenya. Pochi giorni prima era uscito Sulla terra leggeri, opera prima italiana diretta dall’italo-tunisina Sara Fgaier, una storia d’amore e memoria terremotata da un lutto, ambientata e girata in parte in Tunisia. Ancora prima era stato distribuito La cosa migliore, di Federico Ferrone, che racconta la parabola di radicalizzazione di un giovane italiano fra Trentino e Marocco, parzialmente ambientato e girato a Tangeri. A luglio, si è affacciato in sala anche Madame Luna, una coproduzione fra Italia e Svezia, diretta dallo svedese-cileno Daniel Espinosa, che racconta una sorta di tratta nel Mediterraneo nero, fra Libia e Italia, protagonista una giovane eritrea implicata nel traffico di migranti, girato però interamente fra Calabria e Sicilia.
Al netto di quello che possiamo dire sul valore culturale, politico ed estetico di ciascuno di questi film, colpiscono il dato numerico esiguo e l’impatto di pubblico limitato di questi titoli, a fronte di alcune presentazioni di rilievo in festival internazionali, ma anche lo sforzo apprezzabile di coinvolgere maestranze africane o afrodiscendenti dietro e davanti la cinepresa. Fattori che, nell’insieme, e nella prospettiva di una valutazione pur veloce, restituiscono il segno di un’oggettiva difficoltà del cinema italiano a raccontare le dinamiche di dialogo transculturale fra l’Italia e i paesi della sponda sud del Mediterraneo.
Spaghetti Runaway
Eppure, ci sono stati anni in cui il cinema italiano ha guardato con ben altro interesse all’Africa, e lo ha fatto non solo sul piano dell’immaginario narrativo ma sbarcandovi armi e bagagli, con la complicità talora determinante di società euroamericane, per macinare giornate e giornate di lavorazione, stringere collaborazioni con produzioni locali, ingaggiare tecnici e talora interpreti lì ben noti, e portando a casa Leoni d’oro come La battaglia di Algeri (Pontecorvo 1967), Palme d’Oro come Otello (Welles 1950) e Il caso Mattei (Rosi 1972), film compresi nella top ten degli incassi a fine stagione come Sodoma e Gomorra (Aldrich, Leone 1962) e Africa addio (Jacopetti, Prosperi 1966), e mobilitando autori di prima fascia, da Pasolini a Visconti, da Rossellini a Huston. Era però la cosiddetta golden age del cinema italiano, la stagione compresa grosso modo fra il 1949, anno di approvazione della famigerata Legge Andreotti sul cinema, e il 1976, in cui escono diverse sentenze della Consulta che sanciscono la fine del monopolio Rai: in questo periodo la cinematografia italiana guardava dall’alto in basso alle altre concorrenti nel panorama europeo, a partire da Francia, Spagna e Germania occidentale, pur intrecciandovisi in decine di coproduzioni, forte di un mercato interno solido e di un quadro di strutture e maestranze in grado di attirare numerosi set da una Hollywood allora in crisi.
Approfittando di fattori anche contingenti, i «capitani coraggiosi» del cinema italiano, i De Laurentiis, i Ponti, i Rizzoli, i Lombardo, i Cristaldi, i Grimaldi, sono riusciti spesso, con un mix abbastanza riconoscibile e coerente di avventurismo e spregiudicatezza, a estrarre valore aggiunto da decine di progetti di film ambientati e girati (anche) in Africa – oltre duecento, nel periodo citato: parliamo di 209 titoli, che hanno coinvolto 22 paesi africani, dall’Algeria all’attuale Zimbabwe, con l’Egitto a fare la parte del leone (54 titoli), seguito da Marocco, Tunisia, Kenya, il Sudafrica sotto apartheid.
In questo quarto di secolo abbondante in cui l’Africa cambia pelle e larga parte dei suoi paesi diventano indipendenti, mettendosi alle spalle la memoria traumatica della tratta atlantica e del colonialismo, decine e decine di responsabili di società grandi, medie o minime scommettono sulla possibilità di esportarvi, debitamente riformulata, la ricetta delle runaway productions, che era alla base dei film della Hollywood sul Tevere.
Hic Sunt Leones
Mi concentro sull’Africa poiché ci troviamo di fronte a un corpus che, nelle sue dimensioni, non ha confronti, per quanto concerne quel periodo, con nessun’altra cinematografia: tra il 1949 e il 1976, né la Francia (con i suoi circa 130 titoli), né gli Stati uniti (circa 90 titoli), né il Regno unito (poco più di 50) o altre cinematografie, anche con trascorsi coloniali, si avvicinano minimamente alla cifra di 209 lungometraggi complessivi prodotti in Italia.
Molti erano i fattori di attrattività dell’Africa per le produzioni italiane, come la presenza di paesaggi e vestigia architettoniche con una forza di richiamo specifica e amplificata dall’uso del colore e dello schermo panoramico, la possibilità di sfruttare i contatti stretti soprattutto dai partner francesi e americani nel periodo tra le due guerre mondiali, il ricordo ancora vivo dell’esperienza coloniale italiana in Libia e in Africa orientale.
Negli anni, alcune società italiane hanno scommesso molto soprattutto sui set in Egitto, in Tunisia, in Marocco, con l’idea di realizzare prodotti a budget medio-alto, incentrati sulla presenza di star e registi di fama internazionale, destinati al mercato globale. Questa strategia ha incontrato alcune gravi battute di arresto, a seguito di operazioni produttivamente arrischiate, come nel caso citato di Sodoma e Gomorra ma, accanto a produzioni ad alto budget, si è andata diffondendo una pluralità significativa di esperienze dai costi più contenuti, misurandosi con una realtà sul terreno talora ostacolata da problemi logistici e infrastrutturali ma in cui le società italiane sono riuscite fino a buona parte degli anni Settanta a ritagliarsi significativi margini di guadagno. Lo hanno fatto negoziando con i partner euroamericani ma anche con funzionari del Ministero, votati a far rispettare normative di sistema che limitavano fortemente tanto l’esternalizzazione delle lavorazioni quanto il coinvolgimento di maestranze di paesi terzi. Lo hanno fatto in qualche caso stringendo relazioni di interscambio proficue con le controparti locali, integrandone i quadri tecnici e artistici nelle troupe, molto più spesso intessendo una routine produttiva predatoria, a costo di determinare ricadute reputazionali pesanti sull’immagine di questi paesi o del continente nel suo insieme.
Interrogare il grado di colonialità
Come analizzare questo fenomeno nel suo insieme e le sue risultanze sul piano di film usciti in qualche caso oltre sessant’anni fa? Parafrasando quanto scrivono Ella Shohat e Robert Stam in uno dei passaggi chiave del loro seminale Unthinking Eurocentrism (Routledge 1994, 2014), a proposito della necessità di ancorare l’analisi dei modi di rappresentazione dei film che raccontano l’incontro transculturale a parametri che chiamino in causa la puntualità delle scelte di linguaggio, nel mio recente libro Spaghetti Runaway ho cercato di interrogare questi film sulla base di domande precise. A partire dalla seguente: al netto di analisi che rinviano ad altri livelli discorsivi, è possibile – sulla base di una serie di scelte compiute, per ogni dato film, sul piano dei modi di produzione (compagine finanziaria, gestione del budget, scelta delle location, distribuzione dei ruoli artistici e tecnici, ripartizione contrattuale degli introiti su base territoriale, definizione dei credits) – articolare una griglia operativa in grado di aiutarci a interrogare il grado di colonialità, per riprendere la terminologia di Aníbal Quijano, dei film italiani del periodo?
Domande con e senza risposta
Mi sono trovato spesso a chiedermi anche, per ogni singolo paese africano attraversato dalla troupe di uno di questi film, se, specie nei casi di permanenza significativa in termini di giornate di lavorazione, questo paese sia stato vissuto dalla produzione italiana di turno semplicemente come una location più o meno suggestiva o, in qualche misura, come un partner in una relazione di co-creazione. Se la produzione italiana abbia dato a questa relazione una veste dichiarata di compartecipazione, restituita nei credits, e se sì, quali condizioni contrattuali prevedesse questo regime di compartecipazione. Mi sono chiesto altresì, per ogni set africano, se sia stato concepito e gestito come un’esperienza chiusa in sé stessa o, al contrario, come una tappa in una processualità continuativa. Mi sono chiesto che ruolo si sia creato, in termini di rapporti di forze, fra creativi, tecnici e figuranti italiani e maestranze locali, e che traccia abbia lasciato ogni set nella memoria di chi vi ha lavorato, specie sul territorio africano. Mi sono chiesto quante persone, tra quelle italiane coinvolte in un set africano, si siano poste il problema di cosa sarebbe successo se il film che stavano girando fosse stato mostrato sul luogo, e abbiano concretamente operato per ottenere che il film in questione fosse distribuito nei paesi africani in cui era stato girato.
Si tratta di domande a cui non è stato possibile dare risposta in modo puntuale ed esaustivo. Per tante ragioni: di spazio, di rotture epistemologiche che rendono alcune di queste domande impensabili oltre cinquant’anni fa, ma anche per la difficoltà di reperire informazioni e memorie, specie da parte delle maestranze locali sui set italiani.
Disarchivio
Mi è capitato di recente di definire questa pratica di analisi consapevolmente provvisoria, incerta, bisognosa di ulteriori contributi e verifiche, col termine disarchivio, intendendo con quest’espressione un dispositivo di saperi critici e di rottura rispetto a un archivio della conoscenza prodotto dalla ricerca accademica sempre più autoreferenziale e chiuso a ogni possibilità di riuso civile da parte di non addetti ai lavori, e orientato invece alla creazione di undercommons, in un’università pubblica definanziata e abbandonata nelle mani di privati di filiere tossiche a caccia di occasioni di washing. La mia prima preoccupazione, fatta salva un’autodisciplina rigida sul piano scientifico, è stata quella di censire, all’interno di titoli quasi sempre invecchiati male, le tracce di una realtà di base che-era-lì e appare quindi tuttora recuperabile, magari nascosta dietro una voce di commento tossica o filtrata da una pagina di cattiva sceneggiatura, che si tratti di un paesaggio, di un rito sociale, del volto di un interprete o di un figurante. Forse il concetto oggi un po’ inflazionato di economia circolare può aiutare a capire il senso di quest’operazione, che ha anche un valore di almeno parziale restituzione, nei confronti di chi quei set li ha vissuti, talora subendoli, e di chi ne sconta tuttora l’eredità sulla propria pelle, in termini simbolici ma anche materiali, nel continente come in Italia.
Sì, perché questa violenza coloniale presente anche nella stagione più celebrata del cinema italiano, mai sondata dalla stampa d’epoca e poco oggetto di riflessione anche in seguito, molto ci può dire, in questo 2025, sul perché ancora non riusciamo, se non di rado, a guardare verso l’Africa come sistema-cinema, con uno sguardo attento, rispettoso e valorizzante, con uno sguardo alla pari insomma.
*Leonardo De Franceschi insegna Storia del cinema e Studi postcoloniali di cinema e media all’Università Roma Tre e studia narrazioni dell’altro/ve e/o prodotte da filmmaker razzializzatə. Ha pubblicato anche Migrazioni, cittadinanze, inclusività. Narrazioni dell’Italia plurale, tra immaginario e politiche per la diversità (a cura di, tab edizioni, 2022) e Il nero di Giovanni Vento. Un film e un regista verso l’Italia plurale (Artdigiland, 2021). Il suo libro Spaghetti Runaway, uscito da alcuni mesi per Marsilio, sarà presentato venerdì 7 febbraio alla Libreria Griot di Roma, insieme a Roberto Silvestri e Adil Mauro.
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