Un Pinocchio alla rovescia
«Io Capitano», di Matteo Garrone, ha il merito di raccontare il viaggio dei migranti dall'Africa alla Sicilia. Con qualche nodo irrisolto sul rapporto tra realismo, forme espressive e politica della narrazione
Tanti di noi hanno la sensazione di aver aspettato da tempo di vedere un film come Io Capitano di Matteo Garrone. Finalmente un film che narra il viaggio straziante che ci è stato raccontato così tante volte. Non un film per chi quel viaggio l’ha vissuto, ma un film per un pubblico che dovrebbe sapere ma è diventato cieco. Una lezione su una sofferenza di oggi.
Il film in realtà è più di questo, e anche meno. Di più perché riesce – tramite un protagonista in cui è facile immedesimarsi – a rendere l’umanità più riconoscibile al pubblico italiano, dando alla storia del viaggio da Dakar alla Sicilia la forma del «romanzo di formazione». Prende elementi dal cinema senegalese (La Pirogue del 2012 e soprattutto il fondamentale Touki Bouki del 1973) e li rielabora, come vedremo più avanti, nell’immagine di Pinocchio e dell’Odissea. Il film si distingue dall’approccio al tema della migrazione adottato finora dal cinema italiano che ha raccontato il confine (Fuocoammare) e la delusione dell’approdo (Mediterranea): in Io Capitano il capitolo del viaggio si espande e diventa il film intero.
Non è da poco la sfida di presentare un film in lingua Wolof al pubblico italiano, si tratta in sé un atto di rivendicazione di una cultura intera. L’investimento nel prodotto autentico svolge il ruolo di portare sullo schermo una figura e una cultura che in Europa è stata troppo spesso relegata all’ultimo posto. «L’autenticità» è il principio motore dell’opera.
Il film però non riesce a uscire dal modello del «romanzo di formazione» per arrivare a una vera denuncia delle cause della sofferenza del protagonista, nonostante l’autenticità stia così a cuore al film. Nell’accogliere il premio a Venezia, un attivista che ha ispirato tante delle storie raccontate ha puntato il dito sul sistema dei visti in meno di un minuto: perché nel film questa denuncia rimane così nascosta?
La sensazione è che quello che manca a Io Capitano non sia solamente un elemento politico, ma che derivi da un problema formale: sia per il passaggio dalla frammentazione poetica del racconto collettivo e orale della migrazione all’ordine episodico della trama strutturata e individuale; sia per il passaggio opposto, dall’intima specificità biografica alla generalizzazione.
Il plauso della critica per l’autenticità del film fa emergere vecchie domande sul realismo. Oltre a qualche aspetto formale – l’utilizzo di lingue non-europee, l’ambientazione, ecc. – il film rigetta le regole del neorealismo del cinema italiano: non seguiamo un protagonista complesso per guardare il suo mondo sociale intorno, ma seguiamo un eroe semplicissimo mentre diventa uomo e lascia indietro tutto quello che lo ha formato. I personaggi si controbilanciano a vicenda formando un insieme coerente. Si tratta di un realismo che deve molto di più a Bertolt Brecht che a Vittorio De Sica.
Ci sono pochi momenti nel film in cui il viaggio è raccontato verbalmente e non solo visivamente, e sempre quando vengono avvisati – profeticamente – dei pericoli (brechtianamente, l’unica persona che consiglia loro di partire è lo stregone, l’irrazionale). Molto forte l’episodio iniziale in cui un uomo senegalese tornato dall’Europa, divenuto un burbero saldatore, perde la pazienza con i due giovani che vogliono partire e gli chiedono un consiglio: trasmette la rabbia del trauma dietro la trama, rispecchia l’indicibile dell’orrore. In questo assomiglia allo schermo nero che segue la scena di tortura in Libia, una censura che non solo ci protegge, ma ci ricorda che esistono degli atti che non possono essere rappresentati in forma cinematografica. Ma nonostante questo rimane non-detta la rabbia più politicizzata: il saldatore non rivendica la sua libertà di movimento, né nomina la disuguaglianza mondiale; le storie di Senegal, Niger e Libia rimangono anch’esse taciute. Sarebbe stato impossibile introdurre un discorso di eloquente denuncia da parte di un soggetto africano, per esempio attingendo al discorso anticoloniale così diffuso in Africa occidentale? Solo così l’opera tutela la sua «autenticità»?
Certo è difficile assistere a questa violenza illustrata e non ragionare sulle cause della sofferenza, andando oltre i fatti più semplici. Ma si possono individuare le cause nel capitale, nel governo di turno, nel buon dio o nello stregone. Una delle poche denunce precise sulle colpe italiane riguarda la criminalizzazione dei capitani. Il giovane Seydou accetta di guidare la barca in cambio di uno sconto sul prezzo del viaggio per lui e suo cugino; poi rimpiangerà la decisione, ma sarà troppo tardi, il dado è tratto e i libici non gli lasciano scelta. Nel film di Garrone, la denuncia più cruda della violenza si ferma ai libici che torturano e schiavizzano gli africani neri – anche la spiegazione della minaccia del carcere per coloro che guidano le barche viene da una voce libica mentre cerca, riuscendoci, di tranquillizzare Seydou. I libici rappresentano i cattivi della storia, l’altra faccia delle vittime dell’Africa occidentale, anche se due personaggi forniscono un equilibrio a questa cruda razzializzazione della moralità: un libico «buono» che promette la libertà a Seydou se lavora bene, e un senegalese «cattivo» che collabora con i torturatori per spiegare le regole del lager.
Nel tranquillizzare il giovane eroe, i libici gli spiegano che in quanto minore non sarà incarcerato al suo arrivo in Italia. Chissà quante persone nel pubblico sanno di quanti minori sono stati registrati come maggiorenni per pura pigrizia o cattiveria della polizia e delle migliaia di capitani processati nei tribunali italiani che rimangono in carcere. Un pubblico informato potrebbe sapere o indovinare la realtà e l’inganno. Ma questo non necessariamente avviene.
Invece di una denuncia più estesa, Garrone realizza un soggetto intimo: il deserto e il mare sono un rito di passaggio in cui Seydou diventa anche metaforicamente l’eponimo capitano, in quanto soggetto (maschio) autonomo. Come Pinocchio, le sue bugie sono smentite facilmente; come Ulisse, dimostra la sua astuzia nel mare. Ma soprattutto – e a differenza loro – è buono e sensibile, tutore delle donne: cerca di tutelare sua madre o la signora nel deserto, e alla fine riesce a farlo una puerpera a bordo della sua imbarcazione. Prima è spinto ad andare dal cugino, mentre dopo la sua trasformazione il cugino è accudito dallo stesso Seydou. In definitiva, la tortura lo trasforma in uomo. La finale assunzione delle sue responsabilità da uomo avviene in seguito a un’altra forma di tortura, stavolta psicologica, e qui troviamo la seconda e ultima accusa più precisa: la mancanza di soccorso da parte delle guardie costiere europee. Di nuovo il nostro eroe supera la sfida, prende atto delle sue responsabilità, e si trasforma.
Un film deve essere sempre una semplice denuncia? Ovviamente no. Ma il valore di quest’opera dovrebbe stare proprio in questa capacità, altrimenti rimane solo la sua linearità formale, la bellezza della pellicola, il prodotto raffinato. La sua «autenticità» rischia di essere fine a sé stessa, un attributo che in fin dei conti è invocato proprio perché non esiste un modo di misurarla: si tratta di un viaggio – uno dei pochi rimasti – che non può essere registrato e documentato con l’attrezzatura e la tecnologia a cui l’industria cinematografica ci ha abituato. Non avendo modo di distinguere il vero e il contraffatto, il «realismo» del prodotto ci convince.
Ci sono due momenti del film in cui il ritmo lineare e le regole formali dello sviluppo del carattere di Seydou si interrompono e aprono alla possibilità di una denuncia immanente all’autentico. Il primo è quando Seydou interrompe il viaggio nel deserto in un’allucinazione causata dagli effetti fisici e disastrosi del cammino, tentando di salvare una signora morta per strada: lui guarda il suo corpo librarsi in aria, libero finalmente dalla fatica del viaggiare. Il secondo è un sogno in carcere, nel quale uno stregone consultato precedentemente a Dakar appare a Seydou e gli permette di tornare a casa con un angelo: qui ha la possibilità di vedere sua madre da una finestra-schermo, chiamandola anche se lei non può rispondere, separato come noi dalla «quarta parete». In entrambi questi momenti siamo liberati dal dolore terrestre attraverso il volo o introdotti a un altro piano di esistenza. Non si tratta però di realismo magico – come altri hanno detto –, un genere in cui i poteri magici hanno un vero impatto sull’andamento della trama, perché la vita di Seydou trova solo sollievo in queste visioni, non il proprio rifugio.
Il volo torna una terza e ultima volta alla fine del film, quando sopraggiunge un elicottero per sorvegliare la barca in arrivo in Italia: un deus ex machina che introduce – proprio negli ultimi momenti – l’autore, l’Italia di Garrone, il pubblico, che arriva nelle vesti ambigue di soccorritore e nuovo carceriere. Il film si chiude con il rombo meccanico delle pale a cui ora è affidato il destino di Seydou.
Nel Pinocchio di Collodi, il «romanzo di formazione» era utilizzato per rappresentare una giovane nazione che voleva realizzarsi: il popolo italiano. Come i tavoli di Marx, descritti ne Il Capitale per spiegare il feticismo delle merci, che si mettono a testa in giù e fuori dal legno escono strane idee, Pinocchio è un oggetto che diventa soggetto, che finalmente può agire. Con Io Capitano, Garrone ci regala un Pinocchio alla rovescia: un soggetto magico che ha strani sogni e strane idee ma che quando finalmente arriva in Italia, e deve lasciare la magia dell’Africa alle spalle, vede il suo spazio di azione fortemente minacciato. Ancora di più, nella scena finale, Seydou incontra un Pinocchio meccanico e potente, quel popolo italiano divenuto soggetto che vola in alto e lo sorveglia.
Ma noi, burattino senza fili, quanto siamo liberi se non riusciamo a denunciare anche la più ovvia ingiustizia che abbiamo provocato?
*Richard Braude, traduttore e attivista antirazzista, vive a Palermo.
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