Il lento riconoscimento
La sinistra francese spesso non è riuscita a difendere le banlieue. Questa volta, dopo l'omicidio di Nahel da parte della polizia, ha preso una posizione chiara, rifiutandosi di condannare i rivoltosi e sostenendo che la rabbia è giustificata
Ancora senza fiato dopo la marche blanche a Nanterre – una solenne processione in omaggio a Nahel, il diciassettenne ucciso martedì 27 giugno dalla polizia francese in questo sobborgo a ovest di Parigi – il deputato per Seine-Saint-Denis de La France Insoumise (Lfi) Éric Coquerel è irremovibile: «È stato un corteo storico: finalmente la comunità degli attivisti di sinistra era lì! A poco a poco qualcosa è successo». Secondo questo storico esponente di Lfi, instancabile sostenitore delle lotte sociali e dei quartieri popolari ed emarginati, i partiti della sinistra hanno risposto alle rivolte in corso in chiave totalmente diversa rispetto a quelle scoppiate nel 2005.
Allora, quando le banlieue furono incendiate dalla morte di Zyed Benna e Bouna Traoré mentre fuggivano dalla polizia, la classe politica era nel migliore dei casi indifferente, nel peggiore del tutto sopraffatta dagli eventi. Mentre l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy alimentava le fiamme dell’odio giovanile con discorsi sul «ripulire le strade», la «feccia» e la «tolleranza zero», il Partito socialista (Ps) si allineava alle posizioni del governo: la priorità era l’unità delle principali forze politiche della Repubblica (si astennero solo al voto sullo stato di emergenza).
Anche l’estrema sinistra si considerava «poco interessata all’incendio delle auto», diceva a Mediapart il sociologo Michel Kokoreff, professore all’Università di Paris 8 e autore de La Diagonale de la rage. In uno studio del 2007, la sociologa Véronique Le Goaziou scriveva che l’estrema sinistra «si è distinta per la sua assenza durante gran parte delle rivolte». Notava il «silenzio dei gruppi di estrema sinistra», ma anche «l’imbarazzo, persino la cacofonia della sinistra al governo (partiti socialista e comunista)», che aveva «lasciato i rivoltosi profondamente isolati politicamente».
2005: Silenzio assordante
«Nel 2005, il telegiornale di France 2 ha parlato prima dello scandalo delle auto bruciate, poi della morte dei ragazzini, e le reazioni politiche erano tutte allineate con questa gerarchia di informazioni. C’è stato un consenso nell’appello alla calma, che ha lasciato questi ragazzini assolutamente soli», ricorda l’antropologo Alain Bertho, specialista del fenomeno delle rivolte. «L’idea prevalente era ‘classi lavoratrici, classi pericolose’: avevamo un punto di vista così estraneo che non capivamo», concorda Coquerel.
Quasi vent’anni dopo, qualcosa potrebbe essere cambiato. I partiti di sinistra sono ancora storditi per l’espressione della rabbia popolare delle ultime nottate, ma adesso lo stupore convive con la comprensione.
Jean-Luc Mélenchon, Marine Tondelier (capogruppo dei verdi Europe Écologie-Les Verts) e Olivier Faure (segretario del Partito socialista) chiedono che la rabbia sia ascoltata, anche se non lo dicono allo stesso modo. «Ci sono molte questioni, il rapporto polizia-popolazione è troppo deteriorato, la situazione economica e sociale è molto particolare: tutto questo è diventato esplosivo, ed è quello che si esprime oggi. Non vedo alcun messaggio che possiamo inviare per calmare le acque», dice Faure.
Nonostante la valanga di accuse sull’odio «anti-sbirro» da parte di destra ed estrema destra, e gli arroganti appelli del ministro dell’Interno Gérald Darmanin ai «professionisti del disordine» perché «tornino a casa», la condanna dei partiti di sinistra per la violenza della polizia è unanime, e stanno finalmente mettendo le parole sulle cause della rabbia espressa.
Dopo che l’ex primo ministro Manuel Valls – ancora ampiamente presentato come un uomo di sinistra (nonostante il suo record in carica sotto il presidente François Hollande nel 2014-16 e successivamente il sostegno esplicito a Macron) – ha accusato Lfi di «soffiare sul fuoco» per «trarre vantaggio politico», racconta a Mediapart il deputato di France Insoumise Alexis Corbière: «Se pensi che le persone daranno fuoco a una stazione di polizia solo perché leggono un tweet, vedi le cose in modo complottista, che ignora le ragioni sociali dietro queste condizioni. Il modo in cui viene gestita la situazione non ha dato fiducia alle famiglie delle persone che hanno perso la vita. Le forze dell’ordine devono essere ricostruite e non possono controllarsi da sole».
Dentro il Partito socialista, che fino al 2022 rifiutava ancora «l’uso del concetto stesso di ‘violenza della polizia’», la linea sta cambiando – e non cede di un centimetro alle accuse secondo cui questo linguaggio è provocatorio. Emma Rafowicz, portavoce del partito e presidente dei Giovani socialisti, difende l’uso di queste parole: «Sono le reazioni della destra e dell’estrema destra, che si limitano a condannare le rivolte e giudicano troppo presto per commentare la morte di Nahel, ad alimentare un’enorme ondata di rabbia. Comprendiamo questa rabbia, che è politica. Siamo molto lontani dalla pace e dalla calma. Abbiamo bisogno di trovare soluzioni per calmare le acque, ma queste reazioni sono l’opposto», dice a Mediapart.
La violenza impunita
Anche se a sinistra ci sono differenze di opinione sulla necessità o meno di invitare alla calma («I miei amici di Insoumise sbagliano a non invitare alla calma, stanno reagendo come persone che non vivono nei quartieri popolari» dice ad esempio il presidente socialista di Seine-Saint-Denis, Stéphane Troussel), Bertho ritiene che l’atteggiamento di questo schieramento politico testimoni un «vero cambiamento» rispetto al 2005.
Ci sono molte ragioni per questo cambiamento. Innanzitutto, sono radicate nell’esperienza della repressione poliziesca che movimenti sociali e attivisti politici hanno dovuto sopportare negli ultimi anni.
«La mobilitazione contro la riforma delle pensioni e, prima ancora, i gilets jaunes hanno reso questa generazione militante consapevole della violenza poliziesca impunita che i quartieri subiscono da anni. La notevole intensificazione della repressione poliziesca ha de-marginalizzato questi giovani e questi quartieri, e ha cambiato il modo in cui li guardiamo oggi», precisa Bertho. Coquerel è d’accordo: «Ciò che i quartieri popolari hanno sofferto per anni altri lo stanno soffrendo oggi, anche se non con la stessa gravità. Così tutti capiscono che è in gioco l’ordine sociale stesso».
Inoltre, ormai da diversi anni, sono stati creati legami tra le organizzazioni tradizionali del movimento operaio e i movimenti dei quartieri popolari ed emarginati: ad esempio il Comité Adama (un gruppo di campagna istituito inizialmente per chiedere giustizia per Adama Traoré, un giovane uomo di colore morto durante la custodia della polizia nel 2016) ha guidato la marcia «L’alta marea del popolo» a Parigi il 26 maggio 2018.
Per Kokoreff, questa nuova comprensione della sinistra deriva anche dalla politicizzazione dei collettivi di quartiere della classe operaia e dalla lotta alla violenza della polizia, che hanno sensibilizzato i partiti politici: «C’è stata una nuova consapevolezza negli ultimi vent’anni, che è indubbiamente legata allo sviluppo di movimenti decoloniali e postcoloniali, come Black Lives Matter, a cui si è ad esempio ispirato Assa Traoré [fondatrice del Comité Adama]». Il «software» della sinistra è cambiato ed è stato adottato l’assioma fondamentale della sociologia americana delle rivolte, secondo cui esse hanno sempre una spiegazione politica. Il sottotesto adesso è: chi ci protegge dalla polizia?
La connessione ricostruita
Durante le rivolte del 2005, il leader della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr) Alain Krivine, residente a Saint-Denis, trovava la situazione sfuggente, «dove il dialogo è, per il momento, incerto e non abbiamo i mezzi per perseguire un’altra politica». Quasi vent’anni dopo, il suo erede politico, Olivier Besancenot, portavoce del Nuovo Partito Anticapitalista (Npa), afferma di essere più vicino alle forze trainanti del Movimento degli immigrati e delle banlieues (Mib) e del Comité Adama: «La rivolta è Là. Ora, o si va alla negazione, cioè a una risposta di ordine pubblico, o si parte dalle risposte che arrivano dai movimenti sul campo. I quartieri popolari non sono deserti politici. I partiti di sinistra devono rivendicare la loro solidarietà e allontanarsi dal paternalismo», afferma Besancenot.
Da questo punto di vista, anche la recente campagna presidenziale di Mélenchon testimonia un cambiamento nel modo in cui i programmi di sinistra tengono conto degli abitanti dei quartieri popolari ed emarginati e della loro situazione. L’ex portavoce degli Indigènes de la République, Houria Bouteldja, ha salutato una «France Insoumise rimodellata dalle lotte», riconoscendo un panorama politico che è cambiato dal 2005.
Nella storia politica dell’ex senatore socialista Mélenchon, questa svolta è arrivata nel 2019, quando ha preso parte alla marcia contro l’islamofobia: «C’è stata una svolta da parte sua su questo tema, si è un po’ ripulito e, durante della campagna del 2022, ha puntato il dito sulla questione della violenza della polizia, dell’impunità della polizia e della necessaria indipendenza delle forze di polizia», osserva Kokoreff.
«La campagna di Jean-Luc Mélenchon, il suo tono verso le banlieue e l’islamofobia, che è una dimensione di ciò che subiscono, ha gettato dei ponti» conferma Bertho. In effetti, Mélenchon ha prodotto una svolta spettacolare nei centri urbani e nelle loro periferie nel 2022.
Tuttavia, c’è ancora un abisso che separa la sinistra dai progetti abitativi più poveri e non dovremmo farci illusioni sulla sua capacità di influenzare il corso degli eventi. La responsabilità dell’ex ministro degli interni socialista Bernard Cazeneuve per la legislazione che facilita l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine non è stata dimenticata. Né lo è la recente partecipazione di Socialisti e Verdi alla manifestazione sindacale di polizia del 19 maggio 2021, davanti all’Assemblea nazionale. A sinistra, soltanto France Insoumise non ha partecipato.
Oggi, anche se attutito dallo choc del video della morte di Nahel, questo divario resta sullo sfondo, nelle critiche rivolte agli Insoumise che si rifiutano di invitare alla calma. Eppure Coquerel è determinato a dare una svolta positiva alle cose: «Ora, c’è un’ampia comprensione a sinistra secondo la quale, qualunque forma assuma la rabbia, si tratta di cose legittime, in particolare rispetto all’uso della polizia come strumento per il controllo discriminatorio delle persone nei nostri quartieri».
*Mathieu Dejean è collaboratore di Mediapart e autore di Sciences Po, l’école de la domination. Christophe Gueugneau è giornalista di Mediapart. Quest articolo, uscito originariamente su Mediapart, è stato pubblicato su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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