
Il millennio Minsky
Più che una teoria del collasso, per cogliere il significato degli eventi del 2008 serve un pensiero del salvataggio. Le analisi di Hyman Minsky, l’economista post-keynesiano preferito tra i marxisti e apprezzato dagli investitori
Dopo averne vissuta una, rispetto agli anni precedenti il 2008 ora i socialisti sembrano meno preoccupati dalla “crisi”. A quei tempi, le teorie della stagnazione e della crisi erano una parte notevole del repertorio economico marxiano. Eri un sostenitore della Scuola della Monthly Review e della sua nozione di “problema cronico di assorbimento del surplus”? Ti convinceva di più la storia di Robert Brenner della “sovracompetizione che cresce a partire dalla sovracapacità produttiva permanente della manifattura globale”? Oppure tutto questo era soltanto revisionismo senza speranze di chi aveva abbandonato la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”?
Naturalmente, dopo averla sognata così a lungo i teorici della crisi erano pronti ad agire quando la Lehman Brothers ha rotto il settimo sigillo e spalancato la stretta porta. Quando tutto è crollato, ero alla sessione plenaria di Historical Materialism 2008 a Bloomsbury, Londra. La «finanziarizzazione» era un mero sintomo morboso del declino dei rendimenti, forse uno sfogo per la sovra-accumulazione, e il mercato subprime era il suo ultimo disperato rifugio? Oppure la finanza era una sfera con una relativa autonomia in cui nuove contraddizioni si stavano condensando?
Qualcuno colse l’attimo per lanciare una frecciata agli scrittori marxisti Leo Panitch e Sam Gindin, che qualche anno prima si erano assegnati la parte degli anti-Geremia, dei profeti eccentrici di un non-destino. Sostenevano che il capitalismo fosse in declino cronico dagli anni Settanta, e che si fosse salvato per un fortuito aggiustamento spazio-temporale dopo l’altro. Secondo loro, nel mondo a capitalismo avanzato l’accumulazione era debole solo in confronto col lungo boom del dopoguerra. In una prospettiva storica e su un’ampia estensione geografica, il capitalismo e l’impero se la stavano cavando bene. Eppure, ecco che arriva la grande crisi. Il presidente della Federal Reserve [la banca centrale degli Stati Uniti d’America, ndt] non aveva avvertito che «potremmo non avere più un’economia lunedì prossimo»? Esattamente così!
Ma riguardando indietro al 2008, Panitch e Gindin sembrano i più preveggenti. Non ne avevano mai negato la possibilità, avevano solo sostenuto che «prevedere una crisi non è una strategia». Le teorie della crisi non erano affatto di aiuto politico per i socialisti. Anche se una teoria spiega, la spiegazione è politicamente utile solo se identifica le leve più efficaci per l’azione. La teoria marxiana della crisi è inusuale perché è una diagnosi che non prova a fornire elementi per la cura. La prognosi è che il capitalismo è intrinsecamente instabile e non può essere stabilizzato. E poi?
La speranza taciuta era che una grande crisi smascherasse il capitalismo, rivelasse che la prosperità che la gente pensava di possedere era una menzogna. Ma ora abbiamo realizzato che non delegittima il capitalismo, e non ne minaccia di per sé la fine. La crisi porta a un capitalismo malfunzionante per un po’ di tempo e legittima tutte le misure per ripristinarne il funzionamento, vero o falso che sia: salvataggi, incentivi alle aziende, austerità, contrasto all’immigrazione. Per troppo tempo i socialisti hanno immaginato la grande crisi come l’evento che avrebbe fatto saltare in aria il sistema.
Il vero «momento Minsky» è il salvataggio
Intanto, la stampa economica stava scoprendo il proprio teorico socialista della crisi: Hyman P. Minsky.
Nel 2016 l’Economist incluse l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky nell’elenco delle sei teorie più influenti in economia, accanto al moltiplicatore keynesiano, l’equilibrio di Nash, l’asimmetria informativa. Gli ideatori di questi concetti – eccetto il moltiplicatore che è arrivato troppo presto – hanno ricevuto tutti il premio Nobel. Minsky era quello insolito, riconosciuto a malapena ai suoi tempi negli ambiti convenzionali della propria disciplina. L’Economist constatò che prima della morte, nel 1996, lo avevano menzionato solo una volta e in seguito solo di sfuggita. A partire dal 2007 il giornale aveva recuperato, citandolo in più di trenta articoli.
Paul Krugman dichiarò che «Siamo tutti minskiniani ora», e coniò l’espressione «momento Minsky» in un articolo firmato insieme a Gauti Eggertsson. Janet Yellen, allora presidente della Federal Reserve Bank of San Francisco ma destinata a cose ben più grandi, entrò alla 18th Annual Hyman P. Minsky Conference nel 2009 per presentare un articolo – intitolato «un crollo Minsky: lezioni per banchieri centrali». Mervyn King e Mark Carney, i successivi governatori della Banca d’Inghilterra, iniziarono a loro volta a citare Minsky.
Minsky non stava mica lavorando nell’ombra ai suoi tempi – gli sconosciuti non hanno istituti di ricerca o conferenze annuali a loro nome. Ma il suo status di “classico” fu riconosciuto da due pubblici distinti. Fu un nome grosso tra i post-keynesiani e uno dei post-keynesiani preferiti tra i marxisti (per quanto mi riguarda, l’ho incontrato per la prima volta attraverso il punto di vista radicale di Doug Henwood su Wall Street, del 1998). Ebbe un certo seguito anche tra gli investitori professionisti. Uno di questi, Paul McCulley della Pimco – l’azienda di gestione di investimenti da un triliardo di dollari – coniò la nozione di «momento Minsky» e fu responsabile in larga misura della divulgazione del suo lavoro nei giornali di affari (McCulley è anche l’autore del concetto di «sistema bancario ombra [shadow banking]» – che peraltro ha teorizzato da una prospettiva minskiana).
Minsky è considerato quasi ovunque come uno dei teorici del collasso finanziario. Il «momento Minsky», secondo McCulley, è il punto in cui una bolla speculativa, alimentata dal debito, esplode. Nel modello di Krugman e Eggertsson, il «momento Minsky» è il punto in cui le prospettive sul livello sostenibile della leva finanziaria (rapporto debito-capitale) improvvisamente crollano, spingendo i debitori a cercare di ridurre il loro debito con ogni mezzo necessario.
Minsky fornisce un ingrediente mancante nella macroeconomia classica: il quadro per pensare alla relazione tra debito, prezzi delle attività (reali e finanziarie) e investimenti. Poiché il bisogno di un quadro del genere si fa più chiaro durante una crisi finanziaria, Minsky è stato visto solamente come un teorico del punto di collasso.
Ma Minsky viene interpretato a torto come un profeta. Una raccolta di suoi articoli si intitola, in modo abbastanza prevedibile, Potrebbe ripetersi? – il cui soggetto sottinteso è la Grande Depressione. Il saggio prende il nome da uno degli articoli della raccolta, in origine pubblicato nel 1962. Ovviamente si può presumere che la risposta di Minsky sia «Sì». In realtà lui risponde «Probabilmente no».
L’occasione per scrivere quell’articolo fu un crollo nel mercato azionario, che aveva innescato sui giornali diverse riflessioni sulla crisi del 1929. Il Consiglio dei consulenti economici di Kennedy respinse la possibilità che potesse ripetersi, grazie ai «cambiamenti fondamentali messi in atto durante e a partire dagli anni Trenta». La risposta di Minsky scartava questa ipotesi non in quanto fondata sulla speranza, ma piuttosto per mettere a critica il fatto che non fosse sostenuta da alcuna spiegazione teorica della relazione tra i rapporti macroeconomici e il sistema finanziario. Il proposito di Minsky era di fornire tale teoria. L’articolo espose la prima formulazione di ciò che sarebbe divenuta più avanti «l’ipotesi dell’instabilità finanziaria». Questa avrebbe sempre incluso la tesi secondo cui la crescita del settore pubblico e i cambiamenti nella politica economica pongono un limite alle conseguenze macroeconomiche dei guai finanziari.
All’inizio Minsky credeva che le banche centrali avessero imparato dall’esperienza della Depressione e che avrebbero fatto di tutto per interrompere una reazione a catena di bancarotte, agendo da finanziatori di ultima istanza, oppure organizzando e sottoscrivendo un salvataggio da parte di privati. Anche quando la banca centrale si rifiuta in partenza di supportare qualche strumento esotico o qualche istituzione che si comporta male, si trova sempre forzata al salvataggio quando la minaccia è il collasso del sistema. Inoltre, la spesa pubblica era molto più ampia in proporzione alle dimensioni dell’economia di quanto non fosse prima della Seconda Guerra Mondiale. Dato il sistema fiscale e dei trasferimenti, le riduzioni della spesa privata indussero automaticamente delle leve fiscali compensative, anche senza uno stimolo programmato e un deficit maggiore, furono iniettati dei Treasury bond [obbligazioni statali statunitensi, ndt] in un sistema finanziario affamato di titoli sicuri. Quello che Minsky definì «Grande Governo» agì da supporto per attenuare l’impatto di un’inflessione degli investimenti sulle entrate, l’occupazione, i profitti, e i valori patrimoniali.
Negli anni Settanta e Ottanta, quando presentò l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria», Minsky non aveva bisogno di predire il futuro guaio finanziario. Poteva sottolineare una lunga serie di salvataggi nel sistema statunitense: una corsa ai certificati di deposito nel 1966, il default della Penn-Central railroad negli anni Settanta, il fallimento della Franklin National Bank del 1974, la corsa ai fondi fiduciari di investimenti immobiliari nel medesimo anno, il collasso di Penn Square del 1982. Questi erano gli episodi che aveva in mente Minsky; nessuno è rimasto nella memoria al giorno d’oggi. Erano crisi ordinarie e rimedi ordinari, e l’ordinarietà era il punto centrale per Minsky.
Il vero «momento Minsky» è il salvataggio. Minsky non predisse l’implosione del capitalismo in una grande crisi che avrebbe eliminato tutti: «Abbiamo a che fare con un sistema intrinsecamente instabile», scrisse nel 1975, ma «l’instabilità fondamentale tende verso l’alto». Nel 1986, sintetizzava la questione così:
Ogni volta che la Federal Reserve tutela uno strumento finanziario, ne legittima l’uso per il finanziamento di attività. Questo significa che l’intervento della Federal Reserve non solo disinnesca l’inizio di una crisi, ma prepara il terreno per una ripresa del processo di crescente indebitamento – e consente l’introduzione di nuovi strumenti (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).
Così come la Teoria Generale di John Maynard Keynes fu influenzata dal periodo di depressione in cui fu elaborata, anche l’«ipotesi di instabilità finanziaria» di Minsky fu il risultato dell’inflazione degli anni Settanta e del mercato in ascesa degli anni Ottanta:
Quello con cui ci sembra di avere a che fare è un sistema che sostiene l’instabilità proprio mentre impedisce la depressione del passato. Invece di crisi finanziarie e profonde depressioni distanti tra loro decenni, si verificano minacce continue di crisi e di profonda depressione a distanza di pochi anni l’una dall’altra; invece di un’effettiva depressione, ora abbiamo a che fare con un’inflazione cronica (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).
L’inflazione dei prezzi non era più cronica ai tempi in cui Minsky scrisse queste parole, e non lo è più da allora. La debolezza del lavoro (della pressione salariale) eliminò la parte di inflazione dovuta ai salari all’interno del ciclo economico, con il supporto della strategia delle politiche macro-economiche, studiate affinché partissero scioperi preventivi al primo segno di rigidità del mercato del lavoro. Ma l’inflazione dei prezzi delle attività non è mai finita. Ora la teoria di Minsky regge di più se inserita in una spiegazione del lungo trend ascendente del valore del capitale proprio e dei prezzi dei beni immobiliari che si è delineato a partire dagli anni Ottanta, con un passo all’indietro ogni due passi avanti. Minsky riesce a dare spiegazione sia del Greenspan put (provvedimento di politica monetaria che permetteva ai detentori di titoli di venderli a terzi in qualsiasi circostanza a un prezzo prefissato) sia del nuovo ruolo della Federal Reserve nei termini di «operatore di mercato di ultima istanza» come l’ha definita Perry Mehrling dopo il 2008.
Chiunque abbia letto con attenzione la loro interpretazione di Minsky non resterebbe sorpreso nel leggere nel 2018 le prime pagine dei giornali che sostengono il «ritorno delle obbligazioni garantite», e che i titoli di credito sono «troppo attrattivi per essere ignorati», o che «il mutuo subprime è tornato sul mercato e ha un nome nuovo di zecca». E non sarebbe una sorpresa nemmeno sentire che il «sistema bancario ombra» godrebbe di ottima salute, come sostiene Daniela Gabor. Da una prospettiva minskiana, il periodo successivo al 2008 è il ripetersi della storia di cui Minsky aveva parlato. È la traiettoria di molti strumenti, istituzioni e mercati dall’innovazione alla crisi e al salvataggio fino alla ricostruzione come parte della fornitura finanziaria. Una volta era il mercato dei fondi federali, poi sono arrivati i certificati di deposito, i fondi di mercato monetario, i fondi fiduciari di investimenti immobiliari. Prima ti ignorano, poi ti ammoniscono, poi ti salvano, e poi diventi parte della fornitura finanziaria e ti ignorano di nuovo.
Proprio come Keynes che cercava di fornire una teoria generale, e non solo una teoria per i tempi di crisi, Minsky volle fare altrettanto. Come afferma Perry Mehrling, «la sua enfasi sulla crisi può essere capita meglio come il tentativo di attirare l’attenzione sul suo modo di pensare […]. Per Minsky la crisi finanziaria era solo il caso più estremo di un problema permanente che ogni economia finanziaria sviluppata si trova ad affrontare, ovvero il problema del rifinanziamento a causa dello spostamento dell’equilibrio tra gli impegni di cassa e i flussi di cassa».
Per Minsky, la finanza non è qualcosa di trapiantato nel capitalismo. La finanza non è un parassita e nemmeno una sfera separata. L’economia capitalista è finanziaria fino al midollo. Minsky non porta semplicemente l’attenzione sulle istituzioni finanziarie; egli tratta tutti gli attori economici come istituzioni finanziarie – banche, imprese e famiglie allo stesso modo. Tutte le unità economiche, infatti, hanno un bilancio, ricevono e fanno pagamenti, contraggono e concedono prestiti. La «transazione economica chiave» è «lo scambio di denaro oggi per altro denaro più avanti». Quasi tutti gli aspetti della finanza rientrano in questa definizione; nei dettagli si aggiungono solo le tempistiche e le condizioni per il «denaro più avanti». Alcune istituzioni sono specializzate in funzioni finanziarie e, in quanto nodi fondamentali nella rete delle relazioni monetarie, i mercati finanziari sono gli epicentri da cui il collasso facilmente si propaga.
La finanza è solo finanza. Non ha niente a che vedere con «l’ottimizzazione intertemporale» dei modelli idealizzati. La finanza non ottimizza l’allocazione di mezzi scarsi tra usi alternativi in una società, né predice il futuro attraverso il buonsenso della gente. È solo «scambio di denaro oggi, per altro denaro più avanti». Il capitalismo è fondamentalmente instabile perché le aspettative sul «denaro più avanti» possono mettere in moto flussi di «denaro oggi» che hanno poco a che vedere con le condizioni macroeconomiche dell’oggi e fissano delle promesse di «denaro più avanti» basate su aspettative che potrebbero non concretizzarsi quando «più avanti» diventa «oggi».
Minsky il socialista
Ancor prima di diventare un economista Hyman Minsky fu un socialista, e divenne economista proprio a causa della sua adesione al socialismo. I suoi genitori erano degli emigranti menscevichi (di buona annata, 1905), entrambi molto impegnati nei sindacati di Chicago e nei movimenti socialisti. I due si incontrarono per la prima volta alla festa del Socialist Party per il centenario della nascita di Karl Marx, nel 1918. Hyman nacque l’anno seguente.
Vent’anni più tardi, Minsky era uno studente dell’Università di Chicago, infelice di specializzarsi in matematica e fisica, e che dedicava la maggior parte delle sue energie alla politica. Partecipava anche lui alle riunioni del Socialist Party e fu proprio lì che incontrò l’economista polacco Oskar Lange, chiamato a tenere un ciclo di lezioni per il Partito in Economia del socialismo.
Il giovane Minsky trovava che gli interventi di Lange fossero «un modello di chiarezza nell’argomentare sia come un’economia di mercato possa raggiungere “l’efficienza”, sia come il socialismo di mercato decentralizzato possa realizzare gli obiettivi dei mercati, paradossalmente irrealizzabili sotto il capitalismo».
Un giorno, su una fredda banchina della stazione, poco dopo la fine di una sua lezione, Lange convinse Minsky a passare agli studi di economia.
Minsky non fu mai un leninista e mai un membro del Communist Party, ma continuò a ritenersi un socialista e contribuì a pubblicazioni socialiste, per decenni.
Tra i suoi mentori si annoverano: il socialista di mercato e keynesiano Abba Lerner (che Minsky conobbe al rientro di Lerner dal Messico, dopo aver fatto lezione a Lev Trotsky su Keynes), Wassily Leontief (che più tardi lo fece assumere ad Harvard) e il suo tutor di dottorato Joseph Schumpeter, che Minsky descrisse come un «Marxista conservatore» (ma ancora meglio lo definì Joan Robinson: Schumpeter era «Marx con una variazione di aggettivi»). Minsky rimase molto deluso dalla traiettoria politica di Oskar Lange, che più avanti divenne collaboratore di Stalin e titolare della più alta carica nella Repubblica Popolare di Polonia. Ma tornando indietro agli anni Settanta – proprio a quando stava riformulando la sua Ipotesi dell’instabilità finanziaria – Minsky affermò che «il programma di ricerca che sto portando avanti è coerente con il Lange del 1939-42». Questa affermazione è la prova di quale fosse l’intento originario di Minsky con l’ipotesi dell’instabilità finanziaria. L’obiettivo non era dimostrare una propensione del capitalismo al collasso, ma piuttosto rendere evidente che i mercati finanziari reali non sono un insieme di informazioni magiche, ma un dispositivo che crea incentivi per organizzare la complessa divisione del lavoro in maniera equa ed efficiente. Minsky combinò Lange con Keynes.
Le lezioni che Lange diede per il Socialist Party a Chicago si basavano su un lungo articolo pubblicato in due parti nella Review of Economic Studies del 1936-37, e pubblicate poi sotto forma di libro nel 1938. Oggi Lange è visto come un classico del «socialismo di mercato», ma il suo atteggiamento nei confronti del mercato era ambivalente e potrebbe essere definito come «socialismo dei prezzi».
Mises e Hayek sostenevano l’impossibilità di gestire l’intricata moderna divisione del lavoro sulla base di una pianificazione centralizzata. Senza i mercati, i prezzi dei beni capitali sarebbero indeterminati e non vi sarebbe modo di ripartire le risorse in maniera efficace. Secondo i due autori, la generosa produttività del capitalismo semplicemente non era matura per la spennatura socialista: togli la proprietà privata e il mercato e l’abbondanza svaniranno.
Lange rigirò quell’argomentazione contro i due autori austriaci. Questi avevano ragione a sostenere che i prezzi fossero necessari, ma torto sul fatto che questo richiedesse diseguaglianza o la proprietà privata dei mezzi di produzione. In realtà il socialismo, nella prospettiva di Lange, potrebbe avere un sistema di prezzi migliore. L’equilibrio nella competizione di cui parlano i manuali di economia era una fantasia dal punto di vista del capitalismo. Nel capitalismo reale, le imprese non prendono i prezzi come un dato, ma occupano posizioni di maggiore o minor potere di mercato che cercano di difendere o sfruttare. I risultati positivi di un’economia del benessere potrebbero essere raggiunti solo in un’economia socialista in cui i prezzi siano direttamente stabiliti come se vigesse un regime di concorrenza perfetta. Al contrario delle imprese che cercano alla cieca una via per la minimizzazione dei costi e la massimizzazione dei profitti, una gestione socialista sarebbe orientata direttamente alla minimizzazione dei costi, avendo i prezzi come parametri. I pianificatori aumenterebbero o diminuirebbero i prezzi secondo il rapporto tra domanda e offerta. Il banditore d’asta immaginario dell’equilibrio economico generale di Walras – una descrizione dei processi di mercato reale completamente irrealistica – diventerebbe reale.
Per Lange, la pianificazione e i mercati non erano in antitesi. I mercati sarebbero stati uno strumento per implementare i piani, trasmettendo informazioni e organizzando incentivi. I beni di consumo e il mercato del lavoro potrebbero restare, in quanto modo più funzionale per assicurarsi che le persone siano libere di dirigere la produzione verso ciò che decidono di consumare, e di muoversi tra le possibilità di impiego a loro piacimento. Ma in questo caso lavorerebbero in maniera ben diversa. Anche i mercati ideali organizzano la produzione per soddisfare le persone in proporzione alle entrate da spendere; distribuendo in modo equo le risorse, il socialismo adempirebbe per la prima volta alle pretese democratiche del mercato, permettendo la libera espressione delle mode e dei gusti. Con la piena occupazione, il mercato del lavoro sarebbe il mercato dei venditori. Le differenze salariali rifletterebbero i gradi d’intensità e di amabilità degli impieghi, adempiendo alla teoria dei salari di Adam Smith come il capitalismo non ha mai fatto: professori e professoresse potrebbero guadagnare meno di lavoratori e lavoratrici delle pulizie. Le differenze di reddito derivanti da un divario nelle capacità o altre espressioni della fortuna potrebbero essere mitigate con una tassazione progressiva. E ovviamente, mentre il sistema dei prezzi potrebbe andare bene per il consumo individuale, la tassazione e i servizi pubblici si prenderebbero cura dei beni collettivi come l’educazione, la salute, le infrastrutture.
Minsky vide una corrispondenza naturale tra la visione di Lange e quella di Keynes. La politica di Keynes era complessa e non era affatto socialista. Ma il libro di Minsky del 1975, John Maynard Keynes, si conclude con una lunga improvvisazione in cui prende sul serio l’ambiguo appello di Keynes all’«eutanasia di chi vive di rendita» e alla «socializzazione degli investimenti». Minsky cita il Keynes degli anni Venti, quello che si proclamava «meno conservatore nelle mie tendenze di elettore laburista medio» e che «la Repubblica della mia immaginazione risiede nell’estrema sinistra dello spazio celeste».
Lange pensava che, una volta eliminata l’ineguaglianza di risorse, un mercato idealizzato e simulato fosse un buon meccanismo distributivo. Allo stesso modo Keynes scriveva in Teoria generale:
Se le nostre autorità centrali di controllo riuscissero a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione […] allora non vi è alcuna obiezione da opporre all’analisi classica del modo in cui l’interesse individuale privato determinerà ciò che si produce in particolare, in quali proporzioni i fattori di produzione verranno comminati nella produzione e in che modo il valore del prodotto finale si distribuirà fra di essi (Utet, 2013).
Lange sosteneva che nella società capitalista l’ineguaglianza e il potere del mercato impedivano al meccanismo del prezzo di fare il suo lavoro – ovvero organizzare la produzione nel presente, per fare il miglior uso delle risorse e andare incontro ai bisogni e ai desideri in maniera corretta ed efficiente. Keynes sosteneva che in particolare avesse fallito il meccanismo del tasso di interesse nel suo compito di programmare nel tempo, per poter fare un uso pieno delle risorse nel presente e provvedere in simultanea ai consumi desiderati nel futuro. Il cuore di Teoria generale è che il tasso di interesse non porti a un equilibrio tra i risparmi desiderati e gli investimenti desiderati. Esso infatti non coordina le preferenze delle persone sulle tempistiche dei consumi e gli investimenti per provvedervi. Il tasso di interesse è un fenomeno monetario, determinato sui mercati finanziari. Non è veicolo di provvidenza ma semplicemente riflette gli esiti delle transazioni tra persone con prospettive incerte rispetto a un futuro incerto, motivate dalla speranza di guadagnare e dalla paura di perdere. Per l’intera comunità, risparmiare non significa provvedere per il futuro, ma astenersi dal consumo nel presente; l’aumento di risparmi di una persona corrisponde al declino delle entrate di un’altra. Sono gli investimenti che provvedono al futuro e questo dipende non dal risparmio, ma dalle prospettive di redditività futura, relativa ai tassi di interesse. Le imprese non hanno bisogno di mettere le loro mani nei risparmi della gente prima di poter investire; le banche e i mercati finanziari possono creare e mobilitare potere d’acquisto.
Gran parte del lavoro di una vita di Minsky può essere visto come un’elaborazione di questo aspetto della Teoria generale. Keynes ha espresso la sua nel modo più modesto e astratto possibile. Se Keynes si focalizza sul tasso di interesse, su un solo tipo di obbligazioni, Minsky estende la sua analisi all’intera gamma di strumenti finanziari, in particolare ai titoli azionari.
Se Keynes descrive la «preferenza per la liquidità» come l’esigenza di una certa quantità di denaro (comunque definita), per Minsky la liquidità è una cosa complessa che include l’interazione tra lo stato patrimoniale, i flussi di cassa previsti, e i flussi di cassa potenziali. Se Keynes negli anni Trenta si concentra sulle disfunzioni della disoccupazione, Minsky negli anni Settanta si focalizza sulle disfunzioni dell’inflazione e delle bolle speculative sui prezzi delle attività finanziarie. La tesi implicita è la stessa: non c’è ragione perché il perseguimento razionale del proprio interesse individuale sui mercati finanziari generi un esito razionale per il sistema intero. Non esiste nessuna mano invisibile finanziaria.
Ma per Minsky nel 1975 un capitalismo stabilizzato non sarebbe stato sufficiente: anche il mercato falliva «in ciò che conduce a una distribuzione socialmente oppressiva della ricchezza», ma in misura molto più efficiente per il ricco e molto meno per il povero. «Riconoscere il meccanismo del mercato come determinante la direzione dell’occupazione potrebbe ricadere su un cortocircuito pre-esistente della distribuzione di mercato dei redditi».
Dal punto di vista di Minsky anche Keynes faceva la medesima analisi e per questo sperava nell’«eutanasia di chi vive di rendita», ma pensava che sarebbe stato tutto troppo facile. Keynes credeva che la remunerazione del capitale sarebbe diminuita quando la ricchezza fosse diventata abbondante. In altre parole, si verificava una caduta tendenziale del tasso di profitto. Le ricompense per la mera detenzione di ricchezza sarebbero andate scemando. In realtà, questa si chiamerebbe «una esaustiva socializzazione degli investimenti»: lo scopo del profitto andrebbe scemando grazie a questa.
Purtroppo, diceva Minsky, non era così semplice. Keynes pensava che il capitale avrebbe raggiunto un punto di saturazione perché credeva, a torto, che le persone alla fine sarebbero state soddisfatte delle merci, per lo meno delle merci prodotte con investimenti sostanziali di capitali. Sbagliava nel generalizzare da Bloomsbury. Piuttosto che «filosofia e cultura» i ricchi continuavano a trovare nuove combinazioni di beni ad alta intensità di capitale da desiderare e «il loro esempio trapelava verso il basso, verso i non così ricchi». Un’ondata dietro l’altra di novità tecnologiche ha colpito i negozi nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, mentre i contratti statali per l’armamento ad alta intensità di capitale continuava ad aumentare. Non c’era alcuna garanzia che il capitale potesse diventare talmente abbondante da eliminare i rendimenti derivanti dalla detenzione di ricchezza (questa tesi, per inciso, proveniva direttamente da Lange).
Minsky pensava che i gusti potessero evolvere preferendo lo svago e la cultura a gadget ed energia, ma che questo sarebbe accaduto con molta più probabilità in una società che fosse già egualitaria. Così Keynes si sbagliava ad aspettarsi che i rendimenti derivanti dalla ricchezza sarebbero scomparsi: «potrebbe anche darsi che l’eutanasia di chi vive di rendita nella forma a cui puntava Keynes richieda innanzitutto limitazioni alla crescita dei bisogni relativi, e tale crescita richiede una distribuzione delle entrate basata su uno scarso o nullo rendimento derivante dalla ricchezza posseduta, per esempio l’eutanasia preventiva di chi vive di rendita».
Lo stesso Keynes diede seguito alla sua chiamata alla «socializzazione relativamente estesa degli investimenti», affermando che «non è la proprietà privata dei mezzi di produzione che deve assumere lo stato», ma era sufficiente «determinare l’ammontare complessivo delle risorse destinate ad aumentare gli strumenti e il tasso base di ricompensa per coloro che li possedevano». Ma Minsky difese la causa della socializzazione in misura molto più letterale, almeno dei «piani alti» dell’industria. La prospettiva di Keynes era «coerente in linea di principio» con il socialismo di mercato dei suoi contemporanei come Lange e Lerner.
Eppure, la politica keynesiana prese una strada diversa. I governi appresero la lezione dalla Seconda Guerra Mondiale, ovvero che un ampio budget di governo era sufficiente per stabilizzare l’economia capitalistica. La politica fiscale divenne il sostituto della socializzazione. La politica macroeconomica lavorò per rinforzare i rendimenti del capitale nella speranza di alimentare gli investimenti privati. «La politica della piena occupazione ha assunto una connotazione conservatrice; ciò che è stato raggiunto potrebbe essere chiamato in maniera appropriata come socialismo per i ricchi». L’instabilità finanziaria «verso l’alto» era l’effetto collaterale, poiché gli stabilizzatori automatici dei grandi stanziamenti di governo e i meccanismi di protezione della banca centrale salvavano il capitale dal crollo della valutazione senza essere in grado di tenere a bada l’esuberanza/la sovrabbondanza.
La ritirata di Minsky
Un decennio dopo l’uscita del libro John Maynard Keynes, Minsky pubblicò la sua opera più importante, Stabilizing an Unstable Economy (1986).
Molto più ampia di quanto il titolo non lasci intendere, quest’opera non è altro che il quadro per comprendere il capitalismo. Mescola la teoria economica con una trattazione della storia finanziaria statunitense sin dalla Seconda Guerra Mondiale. È la formulazione definitiva dell’Ipotesi dell’instabilità finanziaria di Minsky e si conclude con una serie di proposte politiche ancora più dettagliate.
Sfortunatamente la proposta politica segna la ritirata dal socialismo di mercato degli anni Settanta. La radicalità del suo testo del 1975 non dovrebbe essere sovrastimata. In quell’opera Minsky faceva appello soltanto alla socializzazione dei «piani alti». Ma lo schema precedente dava egual peso alla stabilizzazione macroeconomica, a un’espansione «dei beni comuni-sociali», e a una distribuzione egualitaria delle entrate. E Minsky lo chiamava tranquillamente «socialismo». A metà degli anni Ottanta, la stabilizzazione domina in maniera assoluta.
«Il capitalismo è difettoso – scrive ora Minsky – perché non può assimilare prontamente i processi di produzione che usano capitale fisso su larga scala». Questa è la radice dell’instabilità finanziaria, verso l’alto e verso il basso: la produzione dipende da attività a lungo termine, ma il loro valore è instabile perché le persone non possono prevedere il futuro. Quando queste hanno fiducia nella profittabilità futura, le valutazioni sono alte, le imprese investono in capitale fisso, e il reddito creato dagli investimenti convalida le alte valutazioni. Quando le persone sono meno fiduciose, preferiscono la sicurezza e la liquidità, la valutazione delle attività a lungo termine diminuisce, gli investimenti si riducono e spese inferiori alle attese convalidano valutazioni più basse.
Il capitalismo ha anche molti altri problemi, ma «per quanto detestabili possano essere l’ineguaglianza e l’inefficienza, non c’è legge scientifica o evidenza storica che dica che un sistema economico per sopravvivere deve andare incontro agli standard di eguaglianza ed efficacia». Il sistema è insostenibile se «oscilla tra minacce di collasso imminente dei valori dei beni e minacce di un’accelerazione dell’inflazione e di speculazione galoppante».
Le sue proposte allora puntano al problema della stabilità. Una volta risolto questo, «tale programma economico è il migliore per minimizzare l’ineguaglianza» – ma l’ordine è chiaro.
L’espansione del consumo collettivo è interamente ritirata. Minsky sostiene quello che definisce «il Grande Governo» innanzitutto in quanto forza di stabilizzazione macroeconomica. Gli stanziamenti federali dovrebbero almeno essere dello stesso ordine di grandezza degli investimenti privati, in modo da poter finire il lavoro quando questi ultimi recedono – ma gli stanziamenti federali non devono essere più grandi. Minsky propone la «stima generosa» che il 20% del reddito nazionale lordo sia sufficiente, e tramite questo parametro le spese del governo federale del 1983 (l’anno che fa da parametro di riferimento) erano di oltre cento miliardi di dollari troppo alte (per un totale di 826 miliardi) per bilanciare il budget in condizioni di piena occupazione. Invece di espandere lo stato, egli propone di tagliare più di un decimo delle spese federali e di lasciare che le tasse assumano oscillazioni per stabilizzare la domanda.
Questo implica una riforma del welfare: propone di «rimuovere i trasferimenti monetari in quanto barriere alla partecipazione al mercato del lavoro». Intende sia rimuovere la verifica dei mezzi su ciò che resta dei trasferimenti sia smantellare «il considerevole apparato per i trasferimenti». Finirebbe così l’aiuto federale ai disoccupati oltre le tredici settimane di copertura. Con la stabilità economica a piena occupazione, non sarebbe necessario estendere oltre tale misura.
Invece, il governo manterrebbe un programma di garanzia dell’occupazione, garantendo un lavoro per chiunque altrimenti resterebbe disoccupato. Ma questi lavori devono essere abbastanza bassi così da limitare la parte inferiore della distribuzione dei salari di mercato. Gli adulti percepirebbero una paga annuale pari a settemila dollari (17.700 dollari nel 2018), all’incirca il salario minimo del momento, per effettuare «servizi pubblici, miglioramenti ambientali, ecc.» non meglio specificati. I giovani percepirebbero tremila dollari più vitto e alloggio per lavorare nei parchi nazionali, o come staff nei bar delle scuole e nelle biblioteche in cui studiano. La paga bassa è purtroppo necessaria, sostiene Minsky, perché «i vincoli ai salari e al costo del lavoro sono la conseguenza dell’impegno a mantenere la piena occupazione». La disciplina del mercato del lavoro si mantiene: la popolazione occupata potrebbe non temere la disoccupazione, ma rimarrebbe sicuramente preoccupata dalla riduzione del salario minimo.
Se la disoccupazione aumenta poiché i salari del settore privato vengono aumentati per la pressione del sindacato, allora aumenterà l’offerta di lavoratori per [il programma di granzia occupazionale] […] Se il salario del […] programma di occupazione resta immobile, tuttavia, l’aumento dei salari del settore privato ha più probabilità di essere annullato dalla competizione del mercato.
Nel 1975, Minsky aveva criticato il fatto che la teoria keynesiana del dopoguerra si basasse sul sovvenzionare i profitti e sul garantir loro un livello minimo – «il socialismo per i ricchi» – e propose un’alternativa «in cui i settori chiave sono socializzati, in cui il consumo comunitario soddisfa un’ampia proporzione di bisogni privati, e la tassazione delle entrate e della ricchezza è destinata a ridurre l’ineguaglianza». Queste proposte non erano solo positive in sé, ma aiutavano a far fronte al problema dell’instabilità del capitalismo, che chiamava alla «riduzione della dipendenza del sistema dagli investimenti privati».
Il piano del 1986 va nella direzione opposta: la stabilità significa soltanto supportare la profittabilità per sostenere il consumo privato. «Una volta ottenuta una struttura istituzionale in cui gli incrementi esponenziali della piena occupazione sono vincolati anche quando i profitti sono stabilizzati, allora i dettagli dell’economia possono essere lasciati ai processi di mercato».
Questo è molto più Keynes che Lange.
Gli ideali di Minsky di un tempo sono ancora presenti nei principi generali della sua teoria: Minsky fa ancora appello al «controllo pubblico, di una proprietà pubblica non totale della produzione a capitale intensivo su larga scala».
Ma quando questi principi generali si declinano in proposte dettagliate, queste si limitano alle ferrovie e all’energia nucleare; altrove la politica della competizione e i limiti sulle dimensioni dell’impresa sono sufficienti. Minsky lascia intendere che la finanza favorisce gli oligopoli perché il potere del mercato protegge i loro flussi di denaro dall’instabilità macroeconomica. «Una volta che il Grande Governo abbia stabilizzato i profitti complessivi, le ragioni del banchiere per il potere del mercato perdono la loro forza». La soluzione per l’«impresa burocratica» è il finanziamento dell’«impresa innovatrice»
Tutto sommato, sembra che Minsky abbia chiaramente riconfezionato le sue idee per l’era di Reagan. Da qualche altra parte continuò a parlare di «socialismo keynesiano», ma il suo significato era annacquato, e Minsky diventò più propenso a parlare di «varietà del capitalismo». Con il crollo del blocco orientale, portò avanti le sue proposte per la transizione cui diede inizio con una prospettiva decisamente Langiana – con pianificatori che usavano i segnali di prezzo per gestire le imprese pubbliche – ma anche in questo caso l’impressione è che avesse perso fiducia e i piani successivi finiscono con la privatizzazione.
L’obiettivo principale del suo piano era la regolazione finanziaria. La grande ironia di Stabilizing an Unstable Economy è che la brillantezza dell’analisi e degli studi storici di Minsky nella maggior parte del suo libro compromette la fiducia del lettore nelle sue proposte finali. Per la sua intera carriera Minsky ha scritto dei modi in cui la finanza alla fine ha aggirato ogni autorità di regolamentazione che ostruiva il suo percorso e ha impedito rigide politiche monetarie inventando nuovi modi di estendere la liquidità.
L’elemento centrale della sua proposta era una serie di controlli dello stato patrimoniale delle banche. Egli raccomanda un rapporto di adeguatezza patrimoniale – un rapporto attivi e capitale proprio del 5% come norma, ma variabile a discrezione della banca centrale «nel caso in cui il sistema bancario complessivo venga compromesso».
Non dobbiamo immaginare cosa sarebbe accaduto se il piano di Minsky fosse stato messo in opera, perché non è poi così distante dai requisiti di adeguatezza del capitale imposti sul sistema bancario negli Stati Uniti e in giro per il mondo dopo gli Accordi di Basilea del 1988. Il sistema bancario li aggirava, proprio come aveva fatto in passato con i requisiti di liquidità – come raccontato da Minsky al dettaglio in Stabilizing an Unstable Economy. Era più difficile gestire uno stato patrimoniale attorno ai requisiti di capitale di quanto non lo fosse con i requisiti di liquidità. Ma quello non era un problema se le banche potevano trasferire gli affari al di fuori dello stato patrimoniale.
Ora sappiamo esattamente quello che è emerso: i requisiti di capitale non hanno evitato un’enorme crisi bancaria, ma le hanno dato la forma che poi avrebbe preso. Minsky, lo storico finanziario, non ne sarebbe rimasto affatto sorpreso.
L’instabilità può essere stabilizzante
«La stabilità è destabilizzante»: questo è lo slogan dell’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky. L’economista intendeva dire che i periodi di tranquillità finanziaria e macroeconomica alimentano la fiducia nel futuro che conduce alla sovra-espansione e alla fragilità.
Ma politicamente parlando, è vero anche l’opposto: l’instabilità del capitalismo può essere stabilizzante.
Prevedere la prossima crisi non è una strategia per i socialisti perché il socialismo non è semplicemente l’assenza del capitalismo. Non è come se il capitalismo fosse semplicemente un involucro che deve soltanto rompersi e svanire per rivelare un nuovo modo di produzione già pronto. Il socialismo subentrerà solo quando le persone saranno convinte che sia una strada percorribile per organizzare la complessa divisione del lavoro da cui dipende la vita moderna.
Anche le peggiori crisi finanziarie della storia non sono state fatali per le strutture economiche capitalistiche o per qualsiasi cosa simile. Nelle recessioni profonde, molte persone vengono espulse dal mercato del lavoro e gettate nella povertà o nell’insicurezza e bloccate in questa situazione per lunghi periodi. Molte persone perdono i loro risparmi di una vita, le loro case, e ancora più persone temono di perderli. L’instabilità finanziaria minaccia i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice, ma non minaccia il capitalismo in sé, a meno che non alimenti risposte politiche credibili nella promessa di costruire qualcosa di meglio.
E abbiamo visto di continuo che le crisi alimentano le risposte politiche tecnocratiche e reazionarie tanto quanto quelle della sinistra. Una crisi finanziaria rivela quanto la sussistenza di ciascuno dipenda dalla fiducia degli investitori privati. Ripristinare la fiducia attraverso il ripristino della profittabilità ovviamente sembra un percorso di minor resistenza politica rispetto a un piano per mettere fine alla nostra dipendenza dagli investimenti privati.
Niente ha più probabilità di scoraggiare ulteriormente la fiducia negli affari di un piano per socializzare gli investimenti in misura «relativamente estesa» o in altro modo.
Questa tesi è stata sostenuta soltanto da Oskar Lange, nell’articolo che ha fornito le basi per quelle sue lezioni che hanno convertito Minsky all’economia tanto tempo fa:
Un sistema economico basato sull’impresa privata e sulla proprietà privata dei mezzi di produzione può lavorare solo fino a quando sarà garantita la sicurezza della proprietà privata e delle entrate derivate dalla proprietà e dall’impresa […]. Se il governo socialista socializza le miniere di carbone oggi e dichiara che l’industria tessile sarà socializzata tra cinque anni, possiamo essere abbastanza certi che l’industria tessile sarà rovinata prima di essere socializzata […]. Quindi, è difficile che una programma complessivo di socializzazioni possa essere raggiunto per fasi progressive. […] Ogni esitazione, ogni vacillamento e indecisione provoca l’invitabile catastrofe economica.
Questo è il gran paradosso della strategia socialista, che nessuno è riuscito ancora a risolvere: i suoi programmi compromettono le basi per un sistema presente prima che si possa costruire il sistema successivo. La vera debolezza che rende il capitalismo propenso alla crisi gli conferisce un’eccellente difesa dagli attacchi politici.
Minsky ha ereditato dai socialisti di mercato e da Keynes un programma politico su tre assi fondamentali: eguaglianza, ampliamento dei servizi pubblici e stabilità. Quando è arrivato il momento critico negli anni Ottanta, si è trovato a sacrificare i primi due obiettivi in virtù di un’attenzione esclusiva al terzo. Non fu un fallimento personale; Minsky lesse sicuramente in modo corretto il vento della politica e ne concluse che non ci fosse alcuna via percorribile per una «socializzazione relativamente estesa degli investimenti». Quando la crisi arriva, è troppo tardi.
*Mike Beggs è redattore di Jacobin Usa e docente di economia politica all’Università di Sidney.
La traduzione dell’articolo è di Marie Moïse.
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