
Il neoliberismo in fiamme
Una raccolta di saggi di Gary Indiana, critico e romanziere di culto, descrive l'angoscia e schizofrenia statunitense. Tutto accade nell'interzona temporale che doveva segnare la fine della storia e nella quale invece il mondo si è incendiato
«Da vicino, Bill Clinton sembra ricoperto di tessuto fetale fresco». Così inizia l’articolo di Gary Indiana sulle primarie del New Hampshire del 1992. Ecco subito un aspetto del genio di Indiana: la frase, profana eppure precisa, che trasforma un’immagine ipersatura, il volto di una figura fin troppo familiare, e ti resta impressa per sempre nella mente. Poi le sfumature: il dibattito sull’aborto, l’idea di una politica sperimentale alla Frankenstein che mescola destra e sinistra e il bambino troppo cresciuto che sarebbe presto assurto alla Casa Bianca. Sappiamo come è andata a finire e che il peggio doveva ancora arrivare. Ecco come appariva Clinton all’epoca:
I banali escrementi verbali, più simili a rumori che si fanno per stimolare i cavalli che a veri e propri pensieri, assomigliano anche ai bromuri calmante di uno spot della crema Preparazione H: il proctologo, a un attento esame, si è pronunciato contro la chirurgia radicale a favore di qualcosa di liscio, grasso e facile da dissolversi nel retto collettivo.
Il ricorso allo scatologico per descrivere il disgusto di uno stile politico che copre l’avidità delle multinazionali, il saccheggio del jet-set e l’impoverimento al cuore della globalizzazione. Vale ancora oggi nel Partito democratico. Cosa sono le parole di Joe Biden, Kamala Harris e Pete Buttigieg se non balsamo contro i loro avversari repubblicani ovviamente emorroidali?
Omicidi politici, processi alle streghe, episodi di tortura, percosse della polizia videoregistrate, sanguinose invasioni straniere, suicidi assistiti brutalmente somministrati seppur umani, squallidi crimini di passione e vendetta: queste sono alcune delle forme di violenza che fanno da sfondo a Fire Season: Selected Essays 1984–2021. Un luogo comune molto ripetuto in questi giorni è che «la fine della storia» era arrivata con lo smantellamento del muro di Berlino nel 1989 o con lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, e che Clinton presiedesse un’interzona temporale che era un ricco coma o semplicemente una lunga festa accompagnata da blackout, fino a quando la storia non è ripresa con gli attentati dell’11 settembre o il crollo finanziario del 2008 o il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump nel 2016. Non è mai stato vero – non sembrava vero neppure all’epoca – e i saggi di questo volume lo dimostrano. Gary Indiana è nato nel 1950 a Derry, nel New Hampshire. Aveva già vissuto una dozzina di vite, a Berkeley, Los Angeles e New York City, scrivendo poesie, racconti e opere teatrali e recitando in film in tutto il mondo, prima di pubblicare il suo primo romanzo, Horse Crazy, nel 1988. Il suo lavoro collega il ventesimo e il ventunesimo secolo in forme che lettori e critici stanno solo iniziando ad apprendere.
I saggi di Fire Season vanno dal 1985 al 2020, attraversando quattro decenni. La loro portata geografica va all’incirca da Mosca (le magre meraviglie della cucina in epoca sovietica; l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya sotto la cleptocrazia di Vladimir Putin) a Los Angeles (l’omicidio della Dalia Nera; il processo ai poliziotti che hanno picchiato Rodney King). Dal punto di vista psichico, il centro di gravità di Fire Season potrebbero essere gli anni Sessanta. Un trittico di saggi riprende gli increspati postumi di quella sbornia: c’è l’assassinio di John F. Kennedy, che Indiana identifica come ground zero dell’«innocenza violata» dell’America e quindi il suo successivo apparente squilibrio; c’è Branson, Missouri, un resort senza sbocco sul mare dove ispeziona i rifugiati naufragati dal Lawrence Welk Show che ballano e cantano per guadagnare qualche dollaro prima del loro appuntamento con l’imbalsamatore; e c’è Andy Warhol, soggetto dell’ultimo saggio qui raccolto, del 2020, un esercizio virtuoso di correzione di un gretto malinteso di un biografo a opera di da un testimone oculare.
Nell’idea diffusa, o nelle menti dei redattori di riviste, Indiana spesso viene associato alla Manhattan «Downtown» degli anni Ottanta, e anche se non è sbagliato – viveva, come fa ancora, nell’East Village, era presente al Mudd Club, e così via – non è sufficiente. Lo sguardo dei suoi romanzi, in particolare la sua trilogia poliziesca (Resentment, Three Month Fever, Depraved Indifference) abbraccia tutti gli Stati uniti e la sua sensibilità letteraria è radicata in Europa. È stato critico d’arte per Village Voice dal 1985 al 1988 (questi articoli sono raccolti nel recente volume Vile Days), e le critiche che ne sono seguite, molte delle quali contenute in questo libro, dimostrano un corollario al giudizio di Renata Adler secondo cui i critici medi di solito diventano «striduli» o «stantii» o «striduli e stantii» e diventano «scribacchini» dopo aver trascorso lungo tempo a recensire opere che non sono né capolavori né atrocità ma semplicemente roba che c’è in giro in quella determinata settimana in cui si ha una scadenza: il rischio di questo decadimento (Indiana ha lasciato il lavoro di critico per noia) è necessario affinché il critico serio diventi grande.
La maggior parte degli scrittori, artisti e registi che Indiana esamina in queste pagine sono dei geni e le sue critiche li incontrano al loro livello. Dalle finzioni di Paul Scheerbart ai dipinti del giovane artista Sam McKinniss, passando per Samuel Beckett, Unica Zürn, Robert Bresson, Jean-Pierre Melville, Pier Paolo Pasolini, Louise Bourgeois, la stessa Adler, Jean-Patrick Manchette, Barbet Schroeder, Barbara Kruger, Tracey Emin, Roni Horn e così via: gli argomenti di Indiana, messi insieme, assumono la qualità di un canone personale. Non del tutto alternativo (c’è un vincitore del Nobel lì dentro) ma tutt’altro che ovvio, il loro raggruppamento qui, un atto di cura casuale di Indiana, è benvenuto in un’epoca in cui il concetto di durata è stato evacuato a favore delle metriche dell’hype. La nostra unica speranza in un mondo del genere è un critico sofisticato e indipendente come Indiana per informare i nostri giudizi e reazioni. C’è dell’acido in tutto ciò che Indiana scrive, ma del tipo che agisce come un agente purificatore, eliminando adulteranti, eufemismi, false saggezze ricevute. I suoi saggi sono umani fino al midollo.
Come i Clinton, George W. Bush, Donald Trump, Martha Stewart, Steven Spielberg, Oprah Winfrey e Bruce Springsteen, Gary Indiana è un membro della generazione del baby boom. Ma come scrive a proposito di Pasolini, è «unico nel suo grado di disgusto» per la cultura aziendale che i suoi sodali, per la codardia politica che hanno perpetuato e per le degradazioni che la lingua americana ha subito passando dalla macchina da scrivere a Twitter. Ci sono note di disperazione politica in Fire Season: come potrebbero non esserci? Sui fratelli Tsarnaev e l’attentato alla maratona di Boston: «Perché l’hanno fatto? Come potrebbero? Nel mondo in cui viviamo ora, le domande migliori sono: perché no? Perché non dovrebbero?». Forse viviamo in un mondo decaduto, fatto di oscurità, violenza e superficialità, questo è ovvio per chiunque abbia un televisore o un cellulare. In questi saggi Gary Indiana ci mostra più e più volte che il mondo in rovina non può essere l’unico.
*Christian Lorentzen ha scritto su London Review of Books, Harper’s Magazine, Bookforum, Artforum, n+1, Times Literary Supplement, New Republic, Paris Review, The Baffler, New York Times, Slate, The Literary Review, e New Leader. Dal 2015 al 2018 è stato critico letterario per il New York Magazine. Questo saggio appare come prefazione a Fire Season: Selected Essays 1984–2021 di Gary Indiana, pubblicato ad aprile da Seven Stories Press. Questo testo è uscito anche su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.