Il problema di Cuba sono gli Stati uniti
L'economia cubana è certamente afflitta da questioni indipendenti dalla politica statunitense, ma i mali più acuti sono l'effetto schiacciante del blocco che la assilla da sessant'anni e della strategia di «massima pressione» condotta da Trump
«Danno sempre la colpa agli Stati uniti», ha detto questa settimana il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio al senato. «L’embargo, la prima cosa che incolpano, è l’embargo. ‘L’embargo sta causando tutto questo’».
Non è passato molto tempo da quando l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato per il ventinovesimo anno consecutivo la condanna al sessantennale embargo degli Stati uniti contro Cuba – un voto 184 a 2 che ha visto i governi degli Stati uniti e di Israele opporsi al resto del mondo – e nel paese sono scoppiate massicce proteste causate dalla carenza di cibo e medicine. Un coro di voci, che va da Bernie Sanders ad altri progressisti del Congresso fino all’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, ha puntato il dito contro gli effetti della politica statunitense di lunga data e chiesto che finalmente si faccia un passo indietro.
I sostenitori del cambio di regime come Rubio si sono contrariati. Per loro, l’embargo è irrilevante rispetto a ciò che sta accadendo ora nel paese, che sarebbe invece l’esito di «sei decenni di sofferenza sotto il socialismo e il comunismo totalitari». Com’era prevedibile, la loro risposta preferita alle attuali proteste non comporta la fine dell’embargo. Ma la realtà è che l’«embargo» degli Stati uniti – o il blocco, più precisamente – è stato progettato per intensificare la povertà e incoraggiare i disordini sociali a Cuba. Per decenni, il blocco ha soffocato l’economia del paese e privato i cubani dell’accesso a beni di prima necessità come le forniture mediche, il suo successo nel creare miseria si è intensificato con la caduta dell’Unione Sovietica, la pandemia di Coronavirus e quattro anni di «massima pressione» sotto la presidenza Trump.
Ottanta democratici della Camera all’inizio di quest’anno hanno detto a Joe Biden che basterebbe «un tratto di penna», per cancellare le azioni di Trump, «assistere le famiglie cubane in difficoltà e promuovere un approccio più costruttivo tornando prontamente alla politica dell’amministrazione Obama-Biden di coinvolgimento e normalizzazione delle relazioni». Questa ovvia linea d’azione è solo il minimo che Washington dovrebbe fare. Il blocco degli Stati uniti è una guerra economica non dichiarata contro Cuba che prosegue da generazioni, una guerra che è costantemente fallita anche alle sue condizioni, infliggendo un enorme dolore ai cubani.
La guerra non dichiarata
Il blocco degli Stati uniti contro Cuba è stato una parte fondamentale della lunga guerra di Washington contro quel paese, lanciata poco dopo che, nel 1959, Fidel Castro guidò la rivoluzione che rovesciò la dittatura militare sostenuta dagli Stati uniti. All’inizio non c’era tutta questa ostilità. L’amministrazione Eisenhower aveva adottato pubblicamente un atteggiamento prudente nei confronti del nuovo governo. Incontratosi con Castro per tre ore e mezza, l’allora vicepresidente Richard Nixon gli disse, come recitava il comunicato post-riunione, «che era responsabilità di un leader non seguire sempre l’opinione pubblica, ma aiutarla a dirigerla in modo appropriato, non per dare alle persone ciò che pensano di volere in un momento di stress emotivo, ma per farle desiderare ciò che dovrebbero avere». Con una sfumatura di rammarico, Nixon raccontava che «la preoccupazione principale di Castro era lo sviluppo di programmi per il progresso economico».
Nel settembre di quell’anno, mentre Castro ridimensionò la proprietà privata dei terreni agricoli e si preparò a nazionalizzare l’industria di proprietà straniera, l’ambasciatore statunitense nel paese espresse «seria preoccupazione per il trattamento riservato agli interessi privati statunitensi a Cuba». Il mese successivo, il presidente Dwight Eisenhower approvò un programma a sostegno di elementi anticastristi, inclusi esuli cubani che organizzarono incursioni nel paese e, in seguito, campagne di sabotaggio e bombardamento foraggiate dagli Stati uniti, nella speranza che avrebbero rovesciato Castro facendolo apparire come la causa della sua stessa rovina. A dicembre, un capo divisione della Cia suggerì di «prendere in attenta considerazione l’eliminazione di Fidel Castro».
La Guerra fredda conferì a questa missione statunitense un’urgenza in più. Eisenhower avvertì i sovietici nel 1960 che il suo governo non avrebbe tollerato «l’instaurazione di un regime dominato dal comunismo internazionale nell’emisfero occidentale», in linea con la dottrina di lunga data di Washington secondo cui il governo degli Stati uniti sarebbe intervenuto nei paesi dell’emisfero se avessero contrastato gli interessi statunitensi. Sperando di fermare la diffusione del «castrismo» e per farla finita con Cuba, Washington fece pressioni su altri paesi dell’America Latina per interrompere i rapporti diplomatici, i viaggi e le spedizioni di armi nel paese, minacciando di sospendere gli aiuti militari e di comminare altre sanzioni a coloro che non lo avessero fatto, arrivando al punto di espellere Cuba dall’Organizzazione degli Stati americani. Dopo aver fatto pressioni con successo sulle banche europee e canadesi per annullare e rifiutare i prestiti al governo cubano, nell’ottobre 1960 iniziò quella che fu definita la «quarantena» statunitense sul paese, che vietava tutte le esportazioni a Cuba, a parte cibo e forniture mediche, e nel giro pochi anni riguardò tutto il commercio, le importazioni e persino le merci da paesi terzi contenenti prodotti cubani. Nel 1963, sotto John F. Kennedy, il blocco per come lo conosciamo oggi era pienamente in vigore.
Non fu cosa da poco. Un blocco – diverso da un embargo, visto che includeva le importazioni e cercando di costringere paesi terzi – è una forma di guerra che, secondo il diritto internazionale, dovrebbe avvenire solo durante il conflitto armato. Non a caso i giuristi hanno sostenuto che il blocco di Cuba è una grave violazione del diritto internazionale, non ultimo per il fatto che mira esplicitamente a forzare un cambio di governo. Persino i consulenti legali del governo degli Stati uniti stabilirono nel 1962 che «poteva essere considerato da Cuba e da altre nazioni del blocco sovietico come un atto di guerra».
Allo stesso modo in cui Nixon avrebbe reagito nel 1973 di fronte all’elezione di un governo socialista in Cile ordinando alla Cia «Fate urlare l’economia», i politici statunitensi speravano apertamente che impoverire e affamare il popolo cubano li avrebbe portati a rovesciare Castro. «Bisognerebbe utilizzare ogni strumento per indebolire la vita economica di Cuba», scrisse un funzionario del Dipartimento di Stato nel 1960, al fine di «provocare la fame, la disperazione e il rovesciamento del governo». Eisenhower affermò più chiaramente: «Se (il popolo cubano) ha fame, caccerà Castro».
Il giro di vite
Essendo il partner commerciale più grande e più vicino di Cuba, l’economia risentì immediatamente della fine ai traffici con gli Stati uniti. La quota delle esportazioni cubane verso gli Usa crollò da oltre il 60% negli anni Cinquanta a meno del 5% nel 1961, mentre da circa il 70% delle importazioni nel paese dagli Stati uniti registrati fino alla fine degli anni Cinquanta si arrivò a meno del 4%. Nel 2018, un’agenzia delle Nazioni unite calcolò che l’embargo era costato a Cuba più di 130 miliardi di dollari in sei decenni, un dato significativo per un paese il cui Pil medio annuo è solo una frazione di quella somma.
È stato il blocco sovietico a mantenere a galla l’economia cubana per decenni, sia attraverso miliardi di sussidi annuali sia riempiendo il vuoto commerciale lasciato dagli Stati uniti, diventando responsabile del 79-90% del commercio estero. Dal carburante, ai macchinari e ai componenti, ai fertilizzanti, ai pesticidi e persino ai grassi usati per fare il sapone, le risorse che hanno permesso alla vita e all’economia di Cuba di funzionare normalmente avvenivano per l’integrazione di Cuba in un campo comunista più ampio. La dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 è stato il più grande dei numerosi shock che hanno colpito l’economia cubana in quel decennio, rendendola più vulnerabile che mai al blocco degli Stati uniti. Il Pil è crollato del 35%, mentre la produzione agricola e la capacità manifatturiera sono crollate rispettivamente del 47 e del 90%. L’edilizia e il trasporto passeggeri sono crollati di oltre il 70% ciascuno, mentre le code per il cibo, le ore senza acqua corrente e i blackout sono parte della vita quotidiana. Il sapone improvvisamente doveva essere razionato, i cubani hanno dovuto accontentarsi di quattro miseri pezzi all’anno.
Annusato l’odore del sangue, i legislatori statunitensi si sono mossi per uccidere. Non appena il commercio cubano con le società controllate statunitensi aumentò bruscamente sulla scia del crollo sovietico, il Congresso degli Stati uniti ha approvato l’anno successivo il Cuban democracy act per mettere al bando la prassi, nonostante la posizione contraria della Comunità Europea e di altri alleati, e portando alla cancellazione di decine di accordi commerciali con il paese. Inoltre, la legge ha vietato per la prima volta la vendita di cibo (poi abrogata, in qualche modo) e creato un regime di licenza per medicinali e attrezzature mediche così oneroso da porre di fatto fine al commercio medico con il paese. I legislatori statunitensi, a quanto pare, non hanno avuto problemi con la pesante ingerenza del governo nel settore privato, purché fosse al servizio del rovesciamento di un governo che non gradivano.
Allo stesso modo, l’Unione europea si è opposta alla legge Helms-Burton del 1996, che ha tolto l’autorità per il blocco al presidente e l’ha data al Congresso, praticamente blindandola. Oltre a fare della rivoluzione una condizione di incompatibilità, ha ulteriormente scoraggiato gli investimenti stranieri a Cuba, ad esempio negando i visti statunitensi ai rappresentanti di aziende che fanno affari con proprietà statunitensi confiscate. Ciò accadeva nonostante solo un anno più tardi le agenzie militari e di intelligence statunitensi avessero certificato che «Cuba non rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza degli Stati uniti o di altri paesi della regione» e il Pentagono fosse arrivato alle conclusioni l’anno successivo.
Gli effetti di tutto ciò, come si può immaginare, sono stati brutali. Dopo un’indagine durata un anno, l’Associazione americana per la sanità mondiale ha concluso nel 1997 che il blocco aveva «minato drammaticamente la salute e la nutrizione di un gran numero di comuni cittadini cubani» e «causato l’aumento significativo della sofferenza – e persino dei decessi – a Cuba» attraverso «carenze critiche anche delle medicine più basilari e dell’hardware medico».
Il rapporto forniva un quadro caotico: aumento delle malattie a causa di più acqua non trattata e meno sapone; ambulanze, altri servizi di emergenza e strutture sanitarie incapaci di funzionare correttamente a causa di interruzioni di corrente e mancanza di risorse come il carburante; alti tassi di anemia, carenza di ferro e denutrizione, l’ultima delle quali ha colpito il 22% della popolazione; e centinaia di farmaci fuori portata o solo a volte disponibili, aggravati dalle megafusioni farmaceutiche. Non sorprende che nel 1994 a Cuba ci siano stati disordini simili a quelli che stiamo vedendo ora.
La situazione di quell’anno fu accolta con soddisfazione dalla destra della Fondazione Heritage. Descrivendo con soddisfazione i racconti sulle madri che si dedicano al lavoro sessuale, le famiglie che sopravvivono con un pasto al giorno e il ritorno di malattie come la malaria, esortarono il governo degli Stati uniti a mantenere il blocco fino al crollo del governo di Castro e negare una «provvidenziale valvola di sicurezza«» respingendo i rifugiati cubani. Segnalavano che questa condotta politica avrebbe probabilmente condotto a una maggiore repressione per il popolo cubano e forse si sarebbe conclusa con «sangue, conflitti armati e caos», prima di concludere, senza traccia di ironia, che «gli Stati uniti non devono abbandonare il popolo cubano e rilassare o revocare l’embargo commerciale».
Quindi, quando Marco Rubio dice oggi che «la carenza di cibo, medicine e gas non è purtroppo una novità a Cuba», ha ragione: il blocco più lungo della storia moderna ha assicurato che questi problemi persistevano da molto tempo. Che Cuba abbia resistito a tutto questo è una testimonianza di ciò che è possibile ottenere con un governo che assume un ruolo attivo durante le crisi e cerca di garantire la sicurezza economica. Con l’inevitabile restringimento della cintura, il governo ha lanciato un programma di «austerità umanitaria», con importanti tagli al settore statale ma aumento della spesa sanitaria e sociale, e cibo, vestiti e altri beni razionati per dare priorità ai gruppi vulnerabili come le donne incinte e gli anziani.
Sabotaggio economico
Eppure queste misure temporanee hanno i loro limiti, come stiamo vedendo. L’economia di Cuba è certamente afflitta da gravi questioni separate dalla politica statunitense, ma i mali più acuti sono guidati in modo schiacciante da due fattori: la strategia di «massima pressione» dell’amministrazione Trump e la pandemia.
Durante i suoi quattro anni alla Casa bianca, Trump ha firmato più di duecento direttive volte a danneggiare l’economia cubana. Ha fortemente limitato le rimesse (per ogni membro della famiglia a un massimo di 1.000 dollari a trimestre) prima di vietarle definitivamente. Ha inoltre vietato ai viaggiatori statunitensi di effettuare qualsiasi transazione con entità legate ai servizi militari e di intelligence e di sicurezza, in pratica un attacco sia alla capacità di Cuba di attirare investimenti stranieri che alla sua cruciale industria turistica, dato il pesante coinvolgimento del conglomerato di affari dei militari in quello che, secondo una stima, interessa il 60% dell’economia. E ha imposto sanzioni alle compagnie di navigazione e alle navi che trasportano petrolio a Cuba dal Venezuela, oltre a un embargo già esistente sul paese che ha sovvenzionato e fornito un terzo del consumo di petrolio di Cuba nel 2019.
L’impatto è stato rapido e netto. L’obiettivo delle esportazioni di petrolio del Venezuela ha portato a un maggiore razionamento dell’energia, alla carenza di prodotti per l’igiene personale che il governo non può permettersi dal momento che acquista carburante sul mercato e sostituiscono i trattori con i buoi nelle fattorie. Gli attacchi di Trump alle rimesse hanno portato all’eventuale chiusura della Western Union sull’isola, mettendo in pericolo centinaia di migliaia di famiglie cubane. Dopo l’incremento del turismo dell’era Obama, le varie restrizioni ai viaggi di Trump, incluso il divieto alle crociere nel 2019, hanno portato il calo del numero di turisti per la prima volta in un decennio, del 9,3% nel periodo 2018-2019 e quasi del 20% nell’anno successivo. Con il calo dei visitatori statunitensi del 70%. Inoltre, la diminuzione delle rimesse e del turismo ha privato il paese delle principali fonti di valuta pregiata. Ciò ha causato l’ulteriore lotta del governo nel pagare i creditori esteri, ha ostacolato la sua capacità di importare dal 60 al 70% delle scorte di cibo che riceve dall’estero e ha motivato l’apertura di costosi negozi in dollari che sono stati uno dei motivi della rabbia che guida le proteste in corso.
Anche se può essere vero che il blocco degli Stati uniti tecnicamente non si applica più al cibo né impedisce il commercio con altri paesi, la rete di sanzioni sovrapposte di Washington ha di fatto impedito entrambi facendo di tutto, dal privare Cuba del petrolio e della valuta estera, al paralizzare la sua economia più in generale e costringere al duro mercato estero degli acquisti.
Tutto questo sarebbe stato abbastanza difficile da affrontare nel migliore dei casi. Ma nel 2020, Cuba, come il resto del mondo, ha visto la sua economia ulteriormente devastata dalla pandemia di Coronavirus che ha esacerbato tutti questi problemi: ha bloccato il turismo, ha soffocato ulteriormente l’ingresso di valuta forte, ha aggravato la penuria di cibo e causato perdite di posti di lavoro che hanno reso i cubani sempre più dipendenti dalle rimesse estere che Washington è determinata a soffocare. Nel corso dell’anno, il paese ha visto la sua economia decrescere dell’11%.
Poiché la pandemia amplifica la devastazione del blocco statunitense, il blocco ha a sua volta reso più difficile per Cuba gestire la pandemia. Nel luglio 2020, un relatore speciale delle Nazioni unite ha sancito che il blocco stava «ostacolando le risposte umanitarie per aiutare il sistema sanitario del paese a combattere la pandemia di Covid-19». Tra le altre cose, il blocco ha fermato gli aiuti medici e i trasferimenti di denaro da società e organizzazioni umanitarie estere, ha negato ai cubani la possibilità di utilizzare Zoom, ha precluso l’acquisto di macchine per la ventilazione e causato una carenza di questi e dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), mentre ha impedito una donazione per affrontare la pandemia da parte dell’uomo più ricco della Cina.
Oxfam riferisce che il blocco ha avuto un «effetto drastico sull’industria dei vaccini di Cuba», rendendo difficile ottenere le materie prime necessarie. Anche così, l’investimento generoso e a lungo termine dello stato nell’assistenza sanitaria e nell’istruzione ha permesso di sviluppare il proprio vaccino anti-Covid, per poi dover affrontare una carenza di siringhe, visto che il blocco ne rende difficile l’acquisto dai produttori.
È sempre il blocco che ha guidato la rinascita della pandemia sull’isola, grande motore delle attuali proteste. La stretta economica ha spinto una Cuba disperata a riaprire il paese al turismo a novembre, il che, combinato con la carenza di mascherine e di 20 milioni di siringhe, ha portato a un aumento delle infezioni. Tuttavia, è facile per i Rubio del mondo sostenere che «la disastrosa risposta al Covid del regime è il prevedibile risultato di un governo corrotto» mentre suonano i tamburi del cambio di regime, quando, anche con lo sforzo determinato di Washington per sabotare la ripresa dalla pandemia di Cuba, la sua risposta – con 1.608 morti al 12 luglio – non si avvicina nemmeno alla morte di massa di cittadini statunitensi progettata da Rubio e da quelli come lui durante la pandemia.
Naturalmente, niente di tutto questo è importante per i politici di Washington che non ci pensano due volte a far morire di fame e uccidere casualmente persone straniere, sia con bombe che con sanzioni economiche. Ma l’ironia è che il blocco ha avuto un effetto devastante sul settore privato di Cuba, che dipende fortemente dal turismo e dai viaggi negli Stati uniti per acquistare materiali. Ciò non è particolarmente positivo nemmeno per l’industria statunitense, visto che il blocco si stima costi alle imprese e agli agricoltori statunitensi quasi 6 miliardi di dollari l’anno in entrate dalle esportazioni. Né è popolare. Per anni, i sondaggi hanno mostrato che la maggioranza degli statunitensi, persino una maggioranza oscillante di cubani statunitensi nel sud della Florida, chiede la fine del blocco, probabilmente rendendosi conto che è sia disumano sia, dopo quasi sessant’anni, inefficace.
Sfortunatamente, fedele all’approccio alla politica estera di Trump, Biden ha tradito le promesse elettorali e sta continuando con fermezza la politica di Trump, allontanandosi dall’approccio di successo dell’amministrazione democratica di cui è stato parte. Nonostante si appelli «al regime cubano per ascoltare la loro gente e soddisfare i loro bisogni», Biden si rifiuta di revocare le restrizioni di Trump sulle rimesse da cui dipendono più che mai quei cubani.
Opera di Washington
I disordini della scorsa settimana a Cuba non possono essere compresi appieno al di fuori del contesto del blocco. Niente di tutto ciò assolve il governo cubano per la sua repressione dei dissidenti, o per gli errori commessi nel corso della gestione economica del paese. Ma mettere l’accento sulla sua «economia pianificata in stile sovietico e centralizzata» e sull’insufficiente zelo nelle riforme del mercato come causa dei mali del paese, e non sul più di mezzo secolo di guerra condotta dalla più grande potenza mondiale, è quantomeno fuorviante.
A parte il sadismo e l’arroganza imperiale, non c’è una buona ragione per continuare il blocco contro un paese che non rappresenta una minaccia per gli Stati uniti e che crea una miseria schiacciante per la gente comune che figure come Donald Trump e Joe Biden dicono di difendere. Anche se rimuoverlo completamente sarà un compito difficile, che richiede il voto del Congresso, il presidente da solo potrebbe almeno annullare le politiche di Trump che lui stesso una volta ha riconosciuto essere un fallimento abominevole. Non fare nulla servirà solo a dimostrare quanto siano vuote le parole dell’establishment in difesa dei diritti umani.
*Branko Marcetic è staff writer di JacobinMag. Vive a Toronto, in Canada. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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