Il tuffo
Con la statua di Edward Colston, nel fiume di Bristol è caduta un’idea di città e un pezzo non irrilevante del suo passato. L'abbattimento ha posto, con una forza e un’efficacia di cui le istituzioni in decenni non sono state capaci, un problema storico
Urla, esultanze, balli, vandalismi, un ginocchio sul collo per 8 minuti e poi tra calci e sputi trascinato e gettato nel fiume. Le scene arrivano nel pomeriggio di domenica 7 giugno da Bristol, nel sud-ovest dell’Inghilterra. Durante una manifestazione Black Lives Matter è stata abbattuta la statua del mercante di schiavi Edward Colston, sembrano più attinenti a un regime da poco crollato che all’abbattimento dell’immagine di un individuo morto trecento anni fa.
Ma nulla, in questa storia, ha trecento anni. Non foss’altro per il fatto che la statua in questione fu eretta nel 1895, in piena età vittoriana. La statua fu eretta dalla Society of Merchant Venturers, attiva dal XVI secolo, cheoggi in città possiede immobili, scuole e imprese. Edward Colston, un uomo che ha costruito la sua fortuna commerciando decine di migliaia di schiavi, per poi riversarla su determinati settori della città di Bristol e non solo per essere ricordato come «benefattore», a Bristol è ovunque: pub, edifici pubblici, scuole, vie, e anche il più alto palazzo dell’intera città, costruito nel 1973, portano il nome di Edward Colston. La statua abbattuta si trova in Colston Avenue, esattamente di fronte alla Colston Hall, edificio pubblico sede di concerti e altri eventi culturali. Chiunque viva o transiti a Bristol deve fare i conti quotidianamente con quel nome, e solo i più attenti e curiosi scopriranno di chi si tratta: in nessuna delle (poche) lapidi più a vista viene descritto come uno schiavista. La statua che fino al pomeriggio del 7 giugno 2020 stagliava sull’Harbourside, l’area più frequentata e centrale della città, ritraendolo come un assorto pensatore, lo descriveva come «uno dei più saggi e virtuosi figli della città di Bristol».
Questo paesaggio urbano intriso di Edward Colston è premessa necessaria per capire gli eventi di domenica, e l’entusiasmo che ne è conseguito, che rischia di risultare poco comprensibile per i commentatori che non conoscono la città: per noi italiani, poi, il dibattito su monumenti e toponimi problematici riguarda soprattutto nomi di vie, o monumenti d’età fascista che hanno anche un valore architettonico o artistico, non statue erette ad acclarati schiavisti 170 anni dopo la loro morte. Ma per l’Inghilterra e per Bristol, città che deve il suo sviluppo in età moderna al commercio degli schiavi, tutto ciò è molto più problematico. Come dimostra la vicenda, per certi versi simile, della statua di Cecil Rhodes, altro spietato colonialista, all’Università di Oxford.
It is everywhere
Il punto può essere sintetizzato con un concetto che mi è capitato occasionalmente di ascoltare a Bristol: «si può cancellare Colston, ma non i suoi soldi. I soldi della schiavitù sono ovunque, in questa città, sono in questa Università, nei pub, negli ospedali, nelle scuole» un concetto che, quando era espresso in questo modo, sottendeva un «e dunque non c’è molto da fare».
In realtà c’è moltissimo da fare, e solo in pochi non lo riconoscono, ma non è così semplice. Il denaro della tratta degli schiavi ha permesso a Bristol di essere ciò che è oggi. L’eredità della schiavitù, il modo in cui è percepita (o non percepita) nel Paese e nelle città, è frutto dell’attivo impegno delle famiglie borghesi, ormai rispettabili, che dovevano la loro fortuna alla schiavitù, ma che nel corso dei secoli avevano spostato il loro business su altro. La statua abbattuta non racconta realmente Edward Colston, racconta quella parte di borghesia vittoriana che alla fine del diciannovesimo secolo vedeva in quell’individuo il proprio campione.
Negli ultimi due anni ho avuto la fortuna di discutere di come gestire questa problematica eredità materiale con diverse decine di studenti inglesi, facendo da assistente al corso di Cultura Materiale all’Università di Bristol. Parliamo di ragazzi di famiglie benestanti iscritti a un corso in antropologia, per cui lontanissimi dalla media del sentimento nazionale. Molti, la maggioranza, auspicavano la rimozione e ricontestualizzazione delle statue e nuove intitolazioni per gli edifici. Eppure anche in questo campione non erano poche le voci che vedevano come accettabile il fatto che statue ed edifici fossero intitolati a schiavisti, perché è la nostra storia spiegavano. E l’argomento non era affatto privo di fondamento.
L’Inghilterra contemporanea (e utilizzo volutamente Inghilterra e non Regno Unito) fonda buona parte della sua coesione nazionale sul fatto che impero, colonialismo e schiavismo siano qualcosa che appartiene al passato, che è finito, dato per assodato e rimosso, e che chiede di passare oltre. Eccezioni certo esistono: Liverpool, città industriale che ha perduto il suo ruolo, ha deciso di fare i conti con il suo passato legato al commercio di schiavi, rinominando vie e costruendo un Museo della Schiavitù. Ma Bristol dagli anni Ottanta ha conosciuto un boom culturale ed economico di enorme portata, con un caro affitti e una gentrificazione galoppante. Bristol doveva guardare avanti.
Ed è per questo che il dibattito crescente riguardo la rimozione e ricontestualizzazione dell’eredità di Edward Colston, che ha preso il via negli anni Novanta e si è fatto sempre più forte, con manifestazioni artistiche e proteste, in quasi trent’anni è riuscito a entrare nei corridoi del City Council e dell’Università per portare a strategie e pianificazioni volte a superare e riconsiderare un passato che s’era fatto visibilmente problematico per larga parte della popolazione cittadina. Nel 2017 s’era deciso di cambiare il nome a Colston Hall, una sala concerti pubblica in pieno centro, ma non se ne fece nulla per il disappunto di parte dei frequentatori; nel 2018 si era stabilito di cambiare la lapide sotto la statua ma non si era ancora giunti a un accordo sul nuovo testo da apporre. Come ben scritto da David Olusoga sul Guardian, una parte di popolazione «credeva che i neri che considerano Bristol la loro casa avrebbero tollerato per sempre il fatto di vivere all’ombra di un uomo che commerciò carne umana […]. Ed erano nel torto, a ogni livello».
Diventava sempre più strano, ogni giorno che passava, fino alla primavera del 2020, leggere quella descrizione, vedere quella statua nella piazza principale di una città che si dipingeva, e in effetti era ed è, multietnica e multiculturale.
Il bagno nel fiume della statua di domenica pomeriggio non ha risolto un problema, e per comprenderlo basta leggere i giornali locali, Twitter o la presa di posizione degli organizzatori della manifestazione che hanno preso le distanze dall’accaduto. Gli esecutori materiali del gesto saranno indagati per vandalismo su un bene culturale. Da domenica sera tutti stanno parlando dell’accaduto, la notizia ha fatto il giro del mondo e anche altre campagne simili in giro per l’Inghilterra hanno ripreso vigore. Si discute di quel passato, ma si discute soprattutto del futuro, di come fare in modo che la Storia non sia cancellata ma raccontata nella maniera più corretta e non più celebrata. Nel pomeriggio dell’8 giugno, meno di 24 ore dopo l’abbattimento della statua, è stato annunciato che Colston Hall cambierà nome entro l’autunno, e che l’insegna sarà temporaneamente rimossa. La sensazione diffusa è che i manifestanti abbiano fatto «ciò che il City Council (il Comune) di Bristol avrebbe dovuto fare molti anni fa»: non è un caso che la polizia non sia intervenuta, e che il sindaco abbia di fatto avallato l’accaduto.
Nel fiume, con Edward Colston, è volata un’idea di città e un pezzo, non irrilevante, del suo passato. Un’operazione non priva di rischi. L’abbattimento non ha affatto risolto un problema, lo ha posto, con una forza e un’efficacia di cui le istituzioni in decenni non sono state capaci. Una folla festante e arrabbiata ha deciso che non ci fosse più spazio per quella acritica memoria celebrativa. Come alla caduta di un regime.
*Leonardo Bison, archeologo e dottorando all’Università di Bristol (Regno Unito), è attivista del collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. Si è occupato soprattutto di migrazioni e interazioni culturali nel Mediterraneo antico.
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