In bilico tra formazione e lavoro
Le scuole devono svincolarsi del tutto dalla sfera della produzione, anche quelle con un indirizzo apertamente professionalizzante? Una riflessione da dentro, nei giorni della rabbia per la morte di Lorenzo Parelli
La scuola dovrebbe consentire agli studenti e alle studentesse lo sviluppo del pensiero critico, di una visione ampia del mondo. Dovrebbe essere un luogo e un tempo di studio e di passione, di crescita umana e intellettuale, per prepararsi alle sfide e alle scelte della vita senza angoscia, con gli strumenti opportuni. Sull’onda di queste indiscutibili verità sta montando in questi giorni la protesta contro il sistema di alternanza scuola-lavoro, tema tornato agli onori delle cronache a causa dell’orribile morte del giovane Lorenzo Parelli, ucciso da una barra d’acciaio l’ultimo giorno di stage. Di fronte a una simile tragedia, occorre senz’altro che tutti coloro che a vario titolo sono interessati dal tema prendano parola, per denunciare ciò che non va in questo sistema di alternanza. Lo hanno già fatto centinaia di studenti e studentesse in piazza, duramente repressi più volte dalla polizia. Lo hanno fatto molti intellettuali, che con articoli e appelli stanno cercando di scuotere l’opinione pubblica e il governo su un tema che rischia di essere presto dimenticato, se non si interviene subito. Ma credo che innanzitutto occorra anche raccontare alcune realtà della scuola italiana, quelle che più di tutte sono immerse nell’alternanza scuola-lavoro, negli stage, nel sistema duale. MI riferisco ai cfp, i centri di formazione professionale, a cui era iscritto Lorenzo. Scuole sempre citate negli appelli, ma a mio avviso poco conosciute.
L’impressione che ho avuto, leggendo i tanti articoli di questi giorni, è che la protesta e l’immaginario a essa collegato siano riferiti soprattutto ai licei, quei luoghi dove appunto si forgia il sapere critico, e che sono ben diversi, per programmi, progetti e aspirazioni degli studenti, dai centri di formazione professionale. L’obiettivo che mi prefiggo dunque è quello di provare a parlarne un po’, lavorandoci da quasi 15 anni, per cercare di contestualizzare la protesta contro il sistema di alternanza scuola-lavoro.
Partirei innanzitutto dal nome, che esplicita chiaramente l’orientamento di queste scuole, ovvero preparare gli studenti al lavoro. I cfp ospitano corsi triennali, che assolvono l’obbligo scolastico e rilasciano un diploma di qualifica professionale, che consente sia di andare a lavorare, sia eventualmente di proseguire nelle scuole di stato, per frequentare gli ultimi due anni e diplomarsi. Nel perseguire l’obiettivo della qualifica professionale, i cfp sono tenuti a proporre nei propri corsi tutte le competenze di base e comuni, le materie teoriche per intenderci; ma nel fare ciò, c’è grande difformità di metodi, programmi, monte ore dedicato a ciascuna materia. Negli ultimi anni la mia scuola, un cfp Alberghiero, ha subito numerose modifiche, a volte anche incomprensibili; a titolo d’esempio, la lingua francese è passata da 30 a 90 ore, l’educazione fisica da 25 a 50, la storia da 60 a 25, la cultura religiosa da 6 a 25, il laboratorio di cucina da 260 a 150. Revisioni continue di piani e programmi di cui spesso si fatica a comprendere l’impianto pedagogico. Rimane solo una certezza, che accomuna studenti, famiglie, professori: lo stage. L’approdo ultimo di ogni sforzo scolastico, la speranza e l’ambizione della quasi totalità della popolazione studentesca, che sceglie le nostre scuole proprio perché vuole misurarsi col mondo del lavoro, e lasciarsi alle spalle una volta per tutte banchi, lavagne e interrogazioni.
Perché questo desiderio? Perché quest’urgenza di approdare in un mondo certamente più complesso e severo della scuola? Le ragioni sono molte, e sarebbe necessario uno spazio e un esame diverso da quello che cerco in questa riflessione; certamente però posso affermare che, a prescindere dalle tante ragioni che motivano questa scelta, negli studenti e nelle studentesse dei cfp c’è una tensione verso il mondo del lavoro molto presente ed evidente. Un desiderio spesso indotto, poco compreso e consapevole, figlio non solo di passioni genuine o oggettive necessità, ma anche di una distanza e una fatica nei confronti della scuola accumulata negli anni precedenti, un fastidio per lo studio e per le materie teoriche, che si rinnova ogni volta che uno studente che vuole fare il cuoco si ritrova a studiare Pascoli, la Mesopotamia, le parabole. Ma perché? A che serve? Ci chiedono. Ecco, che ci piaccia o meno, questa è la situazione di partenza.
Mi preme sottolineare questo aspetto perché se riteniamo che nella popolazione studentesca dei cfp alberghi il desiderio di vivere la scuola come momento di formazione dello spirito critico, come luogo per vivere il piacere del sapere e della conoscenza, siamo profondamente fuori strada. Si fa una fatica incredibile a rendere le lezioni teoriche accattivanti, motivanti, comprensibili, e anzi molti professori cadono nella tentazione di giustificare la propria materia con qualche improbabile motivazione tecnico-professionale. Ecco dunque emergere un primo punto, a mio avviso dirimente: se non si dotano tutti i cfp degli strumenti e delle professionalità adeguate per costruire consapevolezza, sapere critico e piacere nello studio, posti accanto e come necessario sostegno di qualunque percorso professionalizzante, sarà difficile discutere di qualsiasi cosa. Fino a quando schiere di insegnanti precari si alterneranno di anno in anno all’interno di strutture spesso fatiscenti, con programmi e ore sempre diversi, con pochi strumenti e nessuna certezza nel futuro, sarà davvero arduo quantomeno ridurre quella distanza, quella fatica che tanti studenti e tante studentesse dei cfp vivono nei confronti della scuola e dello studio.
Tornerò più avanti su questa condizione di partenza, che di sicuro non amo e certamente andrebbe affrontata radicalmente, ma ora vorrei provare a raccontare come funziona uno stage, quali sono i limiti e le opportunità. Cominciamo col dire che collocare gli studenti e le studentesse in stage non è affatto semplice. Per chi come noi ne deve avviare circa 80, significa disporre di almeno 40 strutture disponibili a firmare una convenzione con la scuola, ad assegnare un tutor per ogni studente, e a rispettare degli impegni. Quante sono le aziende (nel mio caso le imprese ristorative) in grado di onorare davvero gli impegni presi? Quante davvero dedicheranno il proprio personale per formare uno studente spesso molto giovane (si va a stage a partire dai 15 anni)? Quante imprese gli offriranno davvero un’opportunità formativa progressiva e ragionata, evitando di usare i giovani stagisti per settimane o mesi in attività sempre uguali, noiose e prive di senso didattico e pedagogico? Perché uno stage sensato e utile dovrebbe prevedere una struttura ospitante perfettamente in regola, con un proprio dipendente con competenze relazionali e professionali tali da renderlo adatto a essere tutor di un giovane in formazione, che dovrà seguire sempre (gli stagisti non dovrebbero mai essere messi in turno da soli, ma sempre in affiancamento) nelle varie mansioni progressivamente affidategli, per approdare alla fine all’aver maturato buone competenze professionali, e auspicabilmente avviato un contratto di apprendistato che gli consenta di inserirsi progressivamente nella struttura ospitante. Tutto questo, ahimè, non sempre accade. Non mancano gli esempi di successo, ne ho visti diversi in questi anni: studenti e assunte regolarmente nei locali che li avevano ospitati, o che hanno aperto una propria attività, altre ancora che hanno scelto di andare all’estero, con ottimi risultati. Ma quanti sono? Quante sono le aziende ospitanti che intendano davvero investire, insieme alla scuola, nella formazione di un giovane professionista? Perché la definizione di sistema duale dovrebbe alludere proprio a questo, la condivisione di una responsabilità formativa che la maggior parte delle aziende non è in grado di assumersi, e non intende farlo.
La rete di contatti con le aziende, che ogni scuola costruisce sul proprio territorio, è spesso costituita da poche realtà di punta, serie e affidabili sia sul piano della capacità di tutoring sia per le prospettive occupazionali, e una costellazione di aziende disponibili a prendersi un paio di stagisti senza troppo impegno; qualcuno lo fa con un po’ più di attenzione, pur non avendo esperienza o possibilità di assunzione, qualcun altro accetta senza neanche sapere bene di cosa si tratta, e l’esperienza di stage diventa mortificante, ripetitiva, noiosa; in una parola, inutile, e accade non di rado di dover interrompere lo stage e trovare un’altra collocazione.
Si pone poi il problema del ruolo dell’istituzione scolastica; quali forze e competenze è in grado di mettere in campo? Che tipo di monitoraggio è in grado di effettuare durante le attività di stage? I programmi che la scuola consegna, quanto vengono davvero rispettati? E hanno davvero senso quei programmi, sono adatti a ogni azienda ospitante, o andrebbero diversificati di volta in volta? Non si tratta a mio avviso di aggiungere regole, ma di avere la capacità di farle rispettare puntualmente. E spesso i cfp faticano non poco a seguire davvero gli studenti. Si pone peraltro il problema di chi dovrebbe seguirli; chi dovrebbe essere il tutor scolastico di un giovane in stage? Un professionista del settore, come potrebbe essere ad esempio il docente di pratica? O una figura professionale diversa? Si potrebbe pensare che un tecnico del mestiere potrebbe avere gli strumenti più adatti per valutare il buon andamento di un percorso, ma esiste ahimè il rischio che chi fa parte di un determinato mondo, e che lavori anche come professionista al di fuori della scuola, possa avere qualche interesse nel gestire studenti e studentesse come manovalanza a costo zero, da collocare magari in un’azienda amica. Gli esempi in tal senso purtroppo non mancano, e da parte dell’istituzione scolastica occorre grande vigilanza per evitare che ciò accada.
L’esame fatto finora non lascerebbe dunque molti dubbi. In presenza di un sistema scolastico in grande sofferenza sul piano strutturale, programmatico e dell’organico, con un tessuto produttivo spesso inadeguato e disinteressato ad accogliere gli studenti e studentesse in formazione, che senso ha continuare con l’alternanza scuola-lavoro? I pochi esempi di successo, bastano a giustificare la prosecuzione degli stage in modo così estensivo? Una domanda di fondo, peraltro, è impossibile da ignorare, e si pone al centro della riflessione politica e culturale sulla scuola e la formazione professionale: ma ha senso vincolare i percorsi scolastici al mondo del lavoro? La risposta, per me, sarebbe allora ancor più radicale: se riteniamo che la scuola debba essere completamente indipendente dal mondo del lavoro, allora non si tratta di eliminare gli stage, si tratta di chiudere del tutto i cfp. Perché queste scuole nascono con una finalità precisa, che è proprio l’avvicinamento al mondo del lavoro. Peraltro da pochi anni, al modello classico dell’istruzione e formazione professionale (IeFP) si è aggiunto quello definito duale, messo a bando ogni anno dalla regione, che eleva il numero di ore di stage a 400 per il secondo anno e 500 per il terzo; in pratica, tre giorni a scuola e tre in azienda.
Ecco, la risposta non è semplice né innocua. Appare del tutto ovvio che le numerose professioni a cui ci si prepara nei cfp siano assolutamente indispensabili. Gli operatori della ristorazione, le estetiste, i manutentori di impianti, i meccanici, gli elettricisti, i parrucchieri, e molti altri… la società ne può fare a meno? Ovviamente no. Forse si tratta di capire come un giovane in formazione possa diventare un giovane professionista, e quando, se il raggiungimento del diploma a 16 anni è prematuro. Si potrebbe pensare di eliminare l’alternanza e fare tutto nei laboratori scolastici. Le scuole sono in grado di offrire le stesse attrezzature, sarebbero in grado di riprodurre davvero un ambiente di lavoro? Esiste da anni una metodologia che si chiama «impresa formativa simulata», che in teoria consentirebbe tutto questo. Si può fare davvero? È uguale preparare un pranzo per i propri compagni di classe o per dei veri clienti?
Sono tante le domande a cui onestamente non so dare una risposta, tanti i dubbi e i limiti con cui mi scontro ogni giorno. Vorrei che questo grande dibattito venisse affrontato con calma e lucidità, partendo però da alcuni elementi di conoscenza reale del mondo della formazione professionale spesso evocato. E ammettendo che voler fare il cuoco, l’estetista o il meccanico sia un’aspirazione assolutamente legittima, alla quale si dovrebbe approdare con le stesse opportunità di chi vorrebbe fare lo storico, o l’architetto. E ritengo altrettanto legittimo che l’amore per una professione possa essere pari a quello per lo studio. Compito dell’istituzione formativa è offrire il massimo della qualità possibile ai percorsi di istruzione, percorsi che devono necessariamente contemplare, sempre e in ogni indirizzo, quel sapere e quella conoscenza che rendano gli studenti e studentesse innanzitutto persone consapevoli dei propri diritti e del proprio essere parte di una società, capaci di scegliere, sognare, opporsi quando necessario. Se le scuole siano in grado e debbano svincolarsi del tutto dal mondo del lavoro, anche quelle scuole con un indirizzo apertamente professionalizzante, credo a questo punto di non saperlo più. Ma penso anche che il lavoro, quello vissuto nel pieno dei propri diritti e al momento giusto della vita possa essere una grande opportunità non solo di crescita e di dignità, ma anche di riscatto, di emersione dalle paludi del degrado sociale in cui spesso incappano tanti giovani che bussano alla porta dei cfp.
Vorrei quindi che la discussione potesse svolgersi anche considerando quanto detto finora; vorrei che gli studenti e le studentesse dei licei romani manifestassero fianco a fianco con i ragazzi dei cfp. Mi auguro che ciò accada e che stia già accadendo, mi auguro che i movimenti studenteschi abbiano la forza e la consapevolezza di entrare in queste scuole per coinvolgerle in una lotta per la scuola e il futuro che è uguale per tutti, ma non tutti partono dalla stessa posizione, né si condividono obiettivi e aspirazioni. Ma credo che le risposte, in questo caso, debbano giungere innanzitutto proprio dagli studenti, da coloro che questa realtà la vivono ogni giorno, e rappresenta la loro quotidianità e il loro futuro.
*Livio Ciappetta è uno storico dell’età moderna, con interesse in particolare per il Tribunale dell’Inquisizione e per la didattica della storia. È Coordinatore didattico di un centro di formazione professionale con indirizzo alberghiero, dove precedentemente ha insegnato storia
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