![](https://jacobinitalia.it/wp-content/uploads/2021/10/michetti_jacobin_italia-990x361.jpg)
La campagna elettorale dei peggiori
Quando Bertolaso, Angeli e altri immaginifici commissari torneranno nell’oblio, o Michetti tornerà a essere un personaggio dell’etere, bisognerà ricordare che senza antifascismo il dibattito diventa spregevole
Negli ultimi giorni la campagna elettorale di Enrico Michetti sta diventando involontariamente oscena. I giornalisti prima e i suoi potenziali elettori poi stanno venendo a conoscenza più approfonditamente delle sue dichiarazioni spericolatamente filonaziste o antisemite pronunciate in tempi non sospetti dai microfoni di Radio Radio.
Chiunque avesse ascoltato Radio Radio per dieci minuti sapeva già quale repertorio di banalità e retoriche populiste venga trasmesso a ogni ora. Ed era abbastanza singolare che per tutta la campagna elettorale la filiazione diretta di Michetti da questo brodo culturale sembrasse consegnargli la wild card da politico fuori dagli schemi.
Dall’altra parte il paradigma antifascista era rimasto fuori dalla contesa elettorale romana. La cosa chiaramente ha dell’incredibile tenendo conto di quanto il voto fascista, fascistoide, criptofascista pesi a Roma, che è il luogo dove nel 1993 si battezza con la candidatura di Gianfranco Fini, allora Msi, sostenuta da un Silvio Berlusconi non ancora sceso in campo, l’alleanza tra eredi del fascismo e i sedicenti liberali; e che nel 2008 elegge sindaco Gianni Alemanno, uno dei protagonisti più rappresentativi del neofascismo italiano.
Il 6 ottobre, due giorni dopo il primo turno, riposto sui miei account social l’immagine di Rachele Mussolini che si vantava di non festeggiare il 25 aprile, e mi metto a analizzare le registrazioni di Enrico Michetti su Radio Radio. Non mi è stato difficile trovare tra scemenze e trivialità la sua disinvolta dichiarazione sulla Shoah, in una trasmissione di inizio 2020:
Ogni anno si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah, viaggi della memoria, iniziative culturali di ogni genere nel ricordo di quell’orrenda persecuzione… e sin qui nulla quaestio, ci mancherebbe.
Massimo rispetto per chi è stato trucidato da barbari assassini senza scrupoli per la sola «colpa» di appartenere a un’etnia o a una confessione religiosa, ma mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta? Perché in questi casi c’è una tendenza a dimenticare? Perché il buonista prova un senso di fastidio, quasi di insofferenza al ricordo di morti ammazzati magari soltanto perché ITALIANI? Forse perché non possedevano banche, forse perché non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta, forse perché si doveva nascondere qualche scomoda compromissione.
Mi sembra una cosa enorme, anche nel degradato contesto del discorso pubblico a cui siamo abituati. Ci scrivo un post linkando la trasmissione (oggi è stata cancellata per la vergogna) che viene letto da Andrea Carugati del manifesto, che giustamente riconosce la notiziabilità e ci scrive un pezzo.
Quella frase sta inchiodando da una settimana Michetti e i suoi sostenitori a un’immagine che era davanti gli occhi di tutti: la classe dirigente di destra esprime senza pudori posizioni grossolanamente revisioniste, neofasciste, antisemite.
Perché tutto questo non è diventato prima un tema del dibattito? Perché le forze democratiche che hanno scelto di candidarsi in città hanno rimosso l’antifascismo dalla loro campagna elettorale? Per cinque anni Virginia Raggi ha evocato ripetutamente uno sgombero di Casa Pound mai nemmeno calendarizzato; nell’ultima settimana di campagna elettorale Carlo Calenda ha scelto di accompagnarsi a Osho, noto satirico con simpatie di destra, e di tatuarsi Spqr sul polso; Roberto Gualtieri non ha insistito sulla qualità antifascista del suo voto.
E poi? In pochi giorni tutto sembra cambiato. Gli esponenti di Fratelli d’Italia e Lega si affannano a dichiarare che non occorre pensare all’elefante anche quando occupa tutta la stanza e che i problemi sono altri; oppure – come Fabio Rampelli – provano a giustificare le frasi di Michetti come non effettivamente antisemite. Michetti si vede costretto a prendere le distanze dalle cose che ha detto, poi a correggere ancora il tiro, poi a ritirarle, poi a provare a cambiare discorso; Radio Radio rivendica il suo ruolo di informazione libera mettendo in difficoltà il centrodestra. Il risultato visibile agli occhi di tutti è che non se ne esce. Il centrodestra ha un candidato di cui non si ricorderà una proposta o una dichiarazione se non quella sugli ebrei storicamente ammanicati con le lobby mondiali. Come è potuto succedere?
Non è tanto la coincidenza con gli arresti dei militanti di Forza nuova ad aver generato questa rilettura della campagna elettorale in chiave di contrapposizione tra filofascismo e antifascismo, ma un principio di realtà.
Le polarità che hanno tenuto banco nella campagna elettorale sono state quelle del decoro e del degrado, del controllo e della sicurezza, della legalità e della corruzione, del nuovo e del vecchio, della competenza e del populismo. Sono tutte false contrapposizioni: alle volte vengono sbugiardate il modo plateale (è il caso emblematico di Roman Pastore che ha rivelato in un istante quanto il brandwashing del prodotto Calenda competenza+periferia fosse farlocco; è il caso penoso dell’omaggio anticipato di un mese di Matteo Salvini alla lapide per Giovanna Reggiani, il cui omicidio fu al centro delle strumentalizzazioni di Fini ma anche Veltroni, che portarono all’affermazione di Alemanno nel 2008), alle volte rivelano le contraddizioni interne di retoriche biecamente evocatrici («occorre ripulire la città dal degrado», «sarò un sindaco manager», «abbiamo combattuto le mafie a mani nude», «votate un sindaco non un partito») che si sono sostituite a un discorso pubblico chiaro nelle proposte, nella loro realizzabilità, ma soprattutto capace di coinvolgere nella politica gli abitanti non solo al momento di un voto spesso espresso spesso senza convinzione.
Il sintomo peggiore di questa tornata elettorale romana è stato un astensionismo di massa che vorrà dire l’elezione di un sindaco con un mandato popolare azzoppato, e il disinteresse per le sorti politiche di intere parti di città – vedi il ballottaggio al sesto municipio, che fino all’altroieri era in bilico tra Centrodestra vs M5S o Centrodestra vs Centrosinistra per pochi voti, senza che questo fosse minimamente una notizia. Ma altrettanto inquietante è stato il protagonismo dei «commissari», figure trasversali, tecniche, apparentemente buone per ogni consenso e uso politico.
Personaggio fantasma di un dramma in minore, Guido Bertolaso è stato evocato per mesi come candidato sindaco in pectore, poi estratto come asso nella manica prima da Carlo Calenda nelle cartucce finali della sua campagna elettorale, poi negli ultimissimi giorni da Michetti che ormai annaspa nelle sabbie mobili della non credibilità. Prima di lui, nei mesi antecedenti alla campagna elettorale, la stessa sorte era toccata a Federica Angeli, giornalista di Repubblica autoassegnatasi il ruolo di eroina delle periferie, corteggiata politicamente prima dal Partito democratico, poi da Calenda e infine nominata nell’ottobre 2020 delegata alle periferie della sindaca Virginia Raggi.
Occorrerà ricordarsi di questi pochi giorni pre-elettorali nei prossimi cinque anni di amministrazione, quando Bertolaso, Angeli e altri immaginifici commissari torneranno nell’oblio, o quando – speriamo – Michetti tornerà a essere al massimo un personaggio dell’etere. Perché lasciare il dibattito pubblico svuotato di un’educazione all’antifascismo rischia da una parte di far emergere questioni fasulle come l’emergenza sicurezza, il decoro, o un fantomatico tema periferie, dall’altra parte di edulcorare quei conflitti sociali e culturali che saranno il vero nodo su cui la prossima giunta dovrà decidere da che parte stare.
*Christian Raimo è nato a Roma, dove vive. Assessore alla cultura nel III municipio di Roma, scrive per diverse testate, tra cui Internazionale, il manifesto, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è Riparare il mondo (Laterza, 2020).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.