La cura e lo sfruttamento
«La parte invisibile della città» è una campagna di mobilitazione che parte da Torino e racconta le condizioni delle lavoratrici del terzo settore
Negli ultimi vent’anni con l’avvio del processo di riforma ancora in corso, il terzo settore ha subito trasformazioni profonde, ma è stato il 2020 uno degli anni di maggiori cambiamenti.
Le necessità di tamponare un welfare estremamente carente attraverso il settore del privato sociale sono emerse in modo prepotente nel momento in cui, a causa della pandemia, moltissime persone hanno dovuto interrompere il lavoro e, nel contempo, molte famiglie si sono ritrovate prive dei servizi di assistenza necessari.
Dal 2020 in poi, il terzo settore vive un periodo di ebbrezza dovuto alla pioggia di finanziamenti per progetti legati al Recovery Plan for Europe e al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un flusso importante di fondi pubblici che le istituzioni stesse non riescono a gestire in un tempo congruo e con il personale a disposizione, di conseguenza anziché assumere il personale esternalizzano delegano la gestione di fondi e servizi. Le organizzazioni beneficiarie possono ottenere finanziamenti più abbondanti che in passato, dietro la promessa di interventi miracolosi e di ipotetiche trasformazioni sociali che non si vedono da decenni.
Il terzo settore si è sobbarcato, così, gran parte di quel welfare carente o assente nel corso dell’emergenza sanitaria e successivamente, facendo finta di non accorgersi che la disponibilità di accesso ai fondi si accompagna a condizioni molto stringenti: tempi rapidi di esecuzione, richieste di valutazione di impatto e monitoraggio costante del lavoro, percentuali minime dei budget dedicate o dedicabili alla retribuzione del lavoro. Lavoro che però nel frattempo aumenta, e richiede competenze molto specializzate e dedizione quasi assoluta: quel lavoro «motivato», insomma, che nasconde, dietro l’ideale di cura, lo sfruttamento. Come dice Daniela Ranieri: «è la parola magica, progetto: l’opera di bene che si trasforma in marketing, in start-up, nel generale passaggio dalla beneficenza all’industria della carità».
Nel dibattito pubblico lavorare nel terzo settore sembra qualcosa che si fa per «vocazione», in gran parte dei casi perché si è donna, o persona razzializzata, o magari entrambe, dato che il lavoro di cura è parte integrante della cultura sessista e in cui viviamo. Se invece si è di pelle bianca e magari persone non povere la vulgata vuole che lo si faccia perché è volontariato e fa curriculum per quando si cercherà un lavoro vero. E allora, se almeno coprono le spese vive o addirittura fanno un contratto sottoinquadrato, senza straordinari e trasferte, «si dovrebbe ringraziare! È grazie a loro che hai potuto fare esperienza, o farti un mutuo, o un viaggio, o costruirti un mestiere».
Se questo settore ha prevalentemente donne alla base, al vertice spesso troviamo gli uomini; oppure donne che mutuano il sistema verticista di potere, ben lontano dalla «vocazione» richiesta a chi il lavoro lo pratica.
Il numero di working poors nel nostro settore è tale da portare a situazioni paradossali come quella di confrontarti con persone beneficiarie in situazioni di fragilità che ricevono sussidi a cui tu non hai diritto, perché sulla carta hai un salario ma magari la tua cooperativa è in ritardo con gli stipendi o quel che ricevi è appena sopra la soglia Isee che ti esclude da benefici come i bonus sociali per i consumi, mentre il telelavoro e la flessibilità scaricano su di te anche le spese di una buona connessione internet o del piano telefonico che usi per lavorare. In una situazione che ha «cinquanta sfumature di perversione» tra le tipologie di contratti, cooperative, imprese sociali, bandi, affidamenti diretti o meno, gare, accreditamenti ecc., a cui si aggiunge la confusa fluidità tra l’associazione e l’impresa: da un lato, sulla carta, ci sono rapporti personali, valori, modelli e progetti, anche economici, che hanno potenziale per mostrare un modo diverso di intendere le relazioni professionali, dando grande spazio all’espressione individuale, alla creatività e alla partecipazione ai processi; dall’altro ci si muove in un equilibrio molto precario «in un meccanismo autoreferenziale, autoalimentante, autoriproduttivo, che in nome del bene chiede ai giovani di rinunciare a certi diritti. Un meccanismo che ha bisogno di personalità narcisistiche e di contiguità con il potere, e che sfocia in dinamiche da setta», scriveva Luca Rastello.
Rastello ha raccontato questi meccanismi nel suo romanzo I buoni, uscito esattamente dieci anni fa, e che oggi sembra più attuale che mai.
Fare le cose per il bene non vuol dire sempre fare le cose per bene
Tanto di quel che sta capitando a me e alle mie colleghe sembra riprendere gli archetipi descritti nel romanzo. Anche a noi è toccato diventare un po’ narratrici, schiacciate fra la consapevolezza crescente del voler essere protagoniste delle nostre esistenze, e lo sforzo quotidiano nel creare spazi sociali nei quali chi lavora con noi e le persone che beneficiano del nostro lavoro trovino luoghi di espressione e possibilità. I valori vestono una doppia funzione in questa vicenda: sono la bandiera che sventoli su formulari e application dei progetti che finanziano il tuo lavoro, ma restano utopia nella dimensione applicativa quotidiana e diventano una pericolosa trappola morale e un ricatto che ti porta a fare compromessi per la causa.
La parte invisibile della città è il titolo di una campagna di mobilitazione che da fine gennaio io e le mie colleghe, lavoratrici dell’Associazione Eufemia, un’Aps che lavora a Torino, provincia e a livello internazionale, abbiamo avviato per raccontare la nostra storia. Eufemia è una delle città invisibili dell’omonimo romanzo di Italo Calvino, città degli scambi in cui i mercanti scambiano storie e racconti, oltre che merci.
Lo storytelling è diventato sempre più cruciale nel nostro settore, per ottenere finanziamenti e per far arrivare al pubblico e a donors e stakeholders i tuoi valori. Ecco perché dare un titolo evocativo alla campagna in corso serve a cavalcare e ribaltare allo stesso tempo quella retorica: le città, come Eufemia, hanno una parte invisibile ed è arrivato il momento di raccontarla.
La nostra vicenda esplode a fine dicembre con il rinnovo dell’organo direttivo. Nonostante le nostre contestazioni e proteste sulla legittimità della procedura elettorale, il direttivo neoeletto ha approvato e sta portando avanti ad alta velocità un piano di sviluppo che ci vorrebbe private delle nostre mansioni, dell’autonomia decisionale, della possibilità di continuare a seguire progetti e persone. Ci siamo viste private della nostra dignità di lavoratrici da chi, in altre sedi, spende da sempre belle parole millantando la costruzione di società «eque, giuste e partecipate».
Dal 29 gennaio siamo in sciopero ed è in atto un processo di invisibilizzazione (se non addirittura intimidazione), che a tratti ci schiaccia. Continuiamo a chiedere il supporto di tutte le persone che non accettano che un’associazione venga piegata a logiche aziendaliste di efficienza e performance, a scapito di valori di orizzontalità decisionale, trasparenza e solidarietà. Desideriamo invece una solidarietà fatta di azione, ma anche solo di attenzione, ascolto e pensiero.
Sappiamo che la nostra non è la prima né l’ultima storia di un’organizzazione del terzo settore in crescita da anni e di conseguenza in preda alle ambiguità di un processo di standardizzazione per adeguarsi a criteri aziendali e rispondere alle esigenze di mercato.
Il termometro di questa tendenza sono bandi come Next Generation You finanziato da Fondazione Compagnia di San Paolo, che si pongono obiettivi come quello di
investire sulla robustezza organizzativa degli enti attraverso processi di razionalizzazione e crescita orientati alla loro innovazione, sostenibilità e autonomia e, conseguentemente, sulla loro capacità di essere leve di sviluppo per il territorio in cui operano.
Ci sembra chiaro che chi pensa in questa forma ha interiorizzato i princìpi dell’azienda e li applica con le migliori intenzioni al mondo del non profit, con risultati degni di Mary Shelley, di cui la nostra realtà è uno tra i tanti esempi. Ma ci sembra chiaro anche che continuare a non scioperare, sotto il ricatto morale della sottrazione di servizi essenziali, significa in realtà continuare ad alimentare la distruzione del welfare stesso.
Lo sciopero è stancante, più di quanto si possa pensare, specie quando si porta avanti in poche e alle prime armi: è un’esperienza di tensione e allerta costante, bisogna studiare e organizzarsi, superare paure, muri di carta e instabilità ancora più radicali del solito.
Il senso di colpa è una leva molto forte per spezzare e individualizzare la dimensione collettiva della protesta. Sai che i danni che puoi fare sono in prima battuta verso le persone che beneficiano del tuo lavoro, le persone più fragili. L’azienda soffre solo se sei in grado di resistere abbastanza a lungo, il che spesso non è umanamente sostenibile.
Spesso la lotta è impari: ti trovi a dover raccontare la tua storia mentre le figure carismatiche al centro del potere decisionale hanno la libertà assoluta di «fare e disfare» a loro piacimento, e godono di immunità davanti a qualsiasi scelta o errore. E se le cose si mettono male, c’è sempre una donna a disposizione da poter gettare dalla scogliera di cristallo.
L’8 marzo, a Torino e a livello nazionale, lo sciopero indetto da Non Una di Meno dedica grande attenzione al tema del lavoro sociale. Visto anche il recente rinnovo del contratto nazionale delle Cooperative, che non è stato trattato né discusso con chi (come noi) nel terzo settore ci lavora e ci investe la vita, crediamo sia un buon momento per provare a condividere riflessioni sullo stato dell’arte del Terzo Settore a Torino. Riflessioni che forse possono trovare terreno fertile per avviare un dibattito a livello nazionale, tornare a confrontarci nella fatica ma anche nella consapevolezza che, mutuando uno slogan proprio di non una di meno, «se ci fermiamo noi, si ferma il mondo».
*Ilaria Mardocco è youthworker e formatrice. È nel pool dei formatori dell’Agenzia italiana per la gioventù. Dal 2011 è dirigente Anpi in provincia di Torino.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.