La frontiera rimossa
Il confine tra Bulgaria e Turchia è uno dei meno raccontati ma tra i più violenti lungo le rotte che le persone compiono nel tentativo di entrare in Europa. Anche qui agiscono movimenti solidali e antirazzisti
Come scriveva Gloria Anzaldúa, ogni confine, ogni frontiera, è una ferita aperta. È un luogo dove abusi e violazioni si susseguono, dove le vite di certe persone vengono continuamente messe a rischio, distrutte, svalorizzate, deprivate, dove il potere istituzionale si manifesta e si impone in tutta la sua violenza. Eppure, al confine possono anche emergere nuove possibilità e incontri significativi e si possono aprire spazi di lotta e resistenza, dove alla violenza si oppone un’azione collettiva e solidale, decisa a rifiutare l’esclusione come norma.
Il confine tra Bulgaria e Turchia è uno dei meno raccontati, ma tra i più violenti lungo le rotte che le persone compiono nel tentativo di entrare in Europa. Da quando il passaggio tra Grecia e Turchia – sia via terra che via mare – è diventato più difficile e letale, la Bulgaria rappresenta una delle poche alternative per cercare di raggiungere paesi come Germania, Italia, Francia. Secondo quanto riportato nelle statistiche pubblicate dalla polizia bulgara, tra giugno e luglio 2023 è stato registrato un aumento del 73% nei tentativi di attraversamento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tra questi dati emergono anche i quasi 180 mila tentativi di ingresso illegale impediti, una cifra che sicuramente rappresenta soltanto una parte dei respingimenti totali effettuati. L’incremento dei tentativi di attraversamento ha portato con sé una crescita di episodi di violenza e abusi da parte delle autorità di frontiera, che si sono manifestate – e continuano a manifestarsi – in respingimenti forzati, pestaggi, omissioni di soccorso e altri maltrattamenti sistematici. Le persone che tentano di entrare in Bulgaria e attraversare questo territorio provengono principalmente dalla Siria. Fuggono da un paese in guerra da 13 anni, ma anche da una crescente ostilità che colpisce i 3 milioni di persone che sono rimaste bloccate in Turchia dal 2016. Per molti di loro, la Bulgaria rappresenta solo una tappa temporanea nel percorso verso altri paesi dell’Unione europea. Tuttavia, a causa del regolamento di Dublino, si trovano spesso costretti a presentare domanda di asilo nel paese Ue di primo arrivo e a rimanere nei campi per rifugiati bulgari per lunghi mesi, intrappolati in un sistema che complica ulteriormente le loro possibilità di proseguire.
Nell’ambito di queste dinamiche, non è da dimenticare né da sottovalutare il ruolo dell’Unione europea e delle politiche migratorie in vigore a livello comunitario. Dall’entrata parziale della Bulgaria nello spazio Schengen nel 2024, infatti, il confine turco-bulgaro ha rappresentato una priorità per la Commissione europea, che tramite Frontex ha stanziato 600 milioni di euro per il monitoraggio dei confini, per il rafforzamento delle infrastrutture e delle tecnologie di sorveglianza. Come per altri confini situati nelle zone periferiche europee, questa strategia securitaria unita a una violenza istituzionale sempre più sistematizzata ha trasformato questa frontiera e le aree circostanti in una delle zone più mortali della rotta balcanica. Secondo un’inchiesta condotta da Ard Studio di Vienna in collaborazione con Lighthouse Reports, Der Spiegel e Solomon e pubblicata all’inizio di dicembre 2023, circa 100 persone sono morte nel tentativo di attraversare la Bulgaria negli ultimi due anni, una stima sicuramente al ribasso, considerata la pericolosità del contesto. Nell’inchiesta emerge come in alcune città, come Burgas e Yambol, le camere mortuarie sono da tempo al collasso, incapaci di gestire l’alto numero di corpi di persone decedute cercando di attraversare questo territorio. Tale situazione porta spesso a sepolture rapide in tombe senza nome, spezzando definitivamente il legame tra i corpi e le loro famiglie, che restano senza la possibilità di identificare e piangere i propri cari. Le tombe «No Name», sempre più presenti nei cimiteri di molte città lungo le rotte, diventano così un ulteriore simbolo della disumanizzazione che permea il sistema di controllo delle frontiere e delle necropolitiche ormai centrali nella gestione delle migrazioni in Europa.
In risposta a questo scenario, negli ultimi anni diverse organizzazioni e gruppi di solidarietà internazionali hanno scelto di attivarsi per supportare le persone in movimento presenti sul territorio bulgaro. Grazie a una stretta e partecipata collaborazione con alcune organizzazioni locali, come Mission Wings e Voice in Bulgaria, dall’estate 2023 il Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen portano un aiuto pratico nell’area vicina al confine con la Turchia. «Ci siamo avvicinati a questo confine perché moltissime delle persone che incontravamo in Serbia e in Bosnia-Herzegovina continuavano a raccontarci delle violenze subite in Bulgaria come le peggiori vissute lungo il percorso», riportano alcune attiviste. Le loro attività si concentrano ad Harmanli, sede di uno dei campi per richiedenti asilo presenti sul territorio, aperto nel 2013 e attualmente abitato da circa mille persone, tra cui molte famiglie. Come denunciato in molte occasioni, le condizioni di vita all’interno del campo sono al limite del sostenibile: acqua contaminata, condizioni igieniche scarse, che contribuiscono al propagarsi di infezioni e malattie, riscaldamento assente durante l’inverno, cibo scarso e scadente, totale carenza di assistenza medica. Di fronte a questo scenario desolante, le volontarie e attiviste delle due organizzazioni intervengono con distribuzioni di beni essenziali – cibo, vestiti, prodotti per l’igiene – e un presidio sanitario quotidiano.
I momenti di distribuzione e supporto medico non sono solamente occasioni per distribuire aiuti, ma rappresentano opportunità di socialità e incontro. In questi spazi i vari gruppi solidali mirano a trasformare la consueta dinamica del «dare» e del «ricevere», in cui i rapporti di potere squilibrati si fortificano e amplificano. Nella quotidianità delle attività del Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, quindi, spesso le donne presenti si uniscono per sostenersi a vicenda, organizzandosi per prendersi cura dei bambini. Chi possiede competenze linguistiche, come l’inglese, si mette a disposizione per facilitare la comunicazione, e similmente altre persone si offrono per aiutare nelle distribuzioni o imparano a trattare piccole ferite, condividendo poi queste abilità con il gruppo. Tale modello di interazione contribuisce a costruire una socialità e una comunità più coesa, in cui l’aiuto e la cura diventano un processo collettivo e non un gesto isolato e unidirezionale.
Parallelamente alle attività di distribuzione e assistenza medica, l’azione del Collettivo Rotte Balcaniche e di No Name Kitchen ha visto anche l’attivazione di quella che viene chiamata «safe line», una linea d’emergenza grazie alla quale, solo da luglio a fine ottobre 2024, sono stati soccorse 227 persone. Come scrivono nel report Torchlight pubblicato a gennaio 2024, «dall’inizio della nostra presenza in Bulgaria, il contesto in continua evoluzione ci ha posto di fronte alla necessità di cambiare i modi e le forme del nostro essere solidali in base alle necessità delle persone in movimento e alle pressioni di cittadinanza e forze dell’ordine. Nel concreto, abbiamo inizialmente instaurato delle modalità di distribuzione di acqua potabile, cibo, medicinali che si sono mantenute nel corso della nostra presenza. Inoltre, dopo aver assistito alle sistematiche omissioni di soccorso attuate dalle autorità bulgare, abbiamo organizzato una safe line con l’obiettivo di rispondere alle richieste di aiuto provenienti da persone in movimento che si trovassero in situazioni di difficoltà durante l’attraversamento del confine turco-bulgaro».
Lo scopo non è solo quello di garantire un primo soccorso a chi è bloccato nei boschi o lungo la frontiera, ma anche di contrastare le pratiche di respingimento violento operate sistematicamente dalla polizia di frontiera bulgara. Colpi d’arma da fuoco, cani, percosse, furti e privazioni forzate: questi sono solo alcuni degli strumenti di una repressione metodica contro chi cerca di attraversare il confine. La presenza delle attiviste, però, sta costringendo le autorità a seguire almeno parzialmente le norme internazionali, registrando le richieste d’asilo e riducendo, in parte, gli abusi. Ed è proprio questo ruolo di testimonianza, l’essere presenti, a osservare e testimoniare quanto accade, che ha reso sempre più scomodo il lavoro di queste reti solidali.
Ma cercare di combattere l’impunità che circonda le pratiche di controllo e gestione dei confini ha delle conseguenze. In un primo momento, le autorità avevano risposto intensificando controlli e presenza, ma ad oggi la situazione è precipitata in una repressione sempre più intensa e aggressiva. Negli ultimi mesi la polizia di frontiera ha infatti intensificato gli attacchi intimidatori e le pressioni su volontari e attivisti, in una chiara strategia di dissuasione atta a scoraggiare ogni forma di supporto e documentazione delle violenze subite dalle persone in movimento. Tra settembre e ottobre 2024 dodici attiviste internazionali sono state arrestate e detenute, dopo aver aiutato persone in difficoltà nelle foreste della Bulgaria al confine con la Turchia, più specificatamente nelle zone di Elhovo e Malko Tarnovo. Il comunicato relativo agli arresti e alle detenzioni – recentemente pubblicato dal Collettivo Rotte Balcaniche e dall’organizzazione No Name Kitchen sulle loro pagine –, sottolinea che non si tratta di un evento isolato, ma di una pratica che sta diventando sempre più frequente. Fermare e detenere per impedire i soccorsi. Intimidire e bloccare ogni possibilità di aiuto, ogni possibile testimonianza dei respingimenti e delle violenze.
Nonostante questa sempre più pressante criminalizzazione, la solidarietà e le azioni di questa rete di gruppi e organizzazioni solidali non si è fermata (e, si spera, non si fermerà). Di fronte alla crescente repressione e in netto contrasto con le pratiche escludenti e violente delle istituzioni, l’aiuto e il supporto concreto, pratico, che avviene durante le distribuzioni di cibo e beni di prima necessità, negli interventi di assistenza medica, nei soccorsi nei boschi, assume un carattere fortemente politico. Come molte delle attiviste presenti ci tengono ad affermare, «non si tratta di azioni umanitarie, non è carità intrisa di paternalismo mascherato dalle buone intenzioni. Queste pratiche di cura sono un atto politico, una scelta politica, che spesso diventa necessaria». Questi gesti di aiuto e supporto alle persone in movimento sfidano infatti l’ordine escludente imposto dalle istituzioni, rivendicando il valore della solidarietà come risposta collettiva alle politiche di controllo, marginalizzazione e repressione.
Questo tipo di solidarietà non si limita quindi a sostenere chi è in transito o bloccato in uno specifico territorio, ma si collega a una concezione più ampia, che cerca di smantellare le logiche di criminalizzazione razziale che lasciano le persone in movimento in una condizione di abbandono. Questo abbandono – che la studiosa abolizionista Ruth Wilson Gilmore ha chiamato «abbandono strategico e organizzato» – è un meccanismo che attribuisce minor valore alla vita di determinate persone, rendendole «sacrificabili» proprio per il loro status marginalizzato, criminalizzato e razzializzato. L’abbandono strategico di cui parla Wilson Gilmore è perfettamente ascrivibile alle strategie utilizzate dalle politiche di confine europee, che producono vulnerabilità e morte come condizione stessa del loro funzionamento. In questo contesto, le pratiche di cura, soccorso e assistenza messe in atto dalle persone solidali vanno oltre la risposta a un’emergenza immediata, ma mirano ad abbattere le gerarchie di valore umano e le logiche escludenti che portano alla marginalizzazione e alla morte di sempre più persone sui confini europei.
*Chiara Martini è attivista e ricercatrice, impegnata in iniziative lungo le rotte balcaniche, tra Grecia, Bulgaria e Bosnia-Herzegovina. Si occupa di confini e solidarietà dal basso in supporto alle persone in movimento. Attualmente sta completando un dottorato in sociologia e metodologia della ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Milano.
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