L’Unione europea e i migranti sulla rotta balcanica
Ciò che accade in Bosnia, al confine orientale dell'Europa, è emblematico di come l'Ue gestisce la questione migratoria. Un reportage sulla desolante situazione in cui versa il campo di Velika Kladuša e quello di Bihać
«Ringraziamo chi ci aiuta, ma questa terra per noi è di passaggio». Faadi, 24 anni, capelli lunghi, fisico prestante e sorriso sorprendentemente stampato in volto, è partito a piedi dall’Iraq mesi fa. Oggi si ritrova ai confini est dell’Europa: la terra promessa. L’aveva raggiunta, riuscendo a superare in qualche modo la frontiera, ma è stato arrestato in Slovenia, non gli è stato permesso di richiedere asilo e protezione, e dopo due giorni di carcere è stato rimandato in Bosnia, a Velika Kladuša.
La città all’estremo nord-ovest della Bosnia Herzegovina è “terra di passaggio” sulla rotta balcanica. In migliaia, nei mesi scorsi, si sono accampati in condizioni igienico-sanitarie davvero precarie, tentando notte dopo notte l’attraversamento del confine bosniaco-croato, quello che dà l’accesso all’Unione Europea. A fine ottobre circa 200 migranti hanno organizzato una protesta al valico di Maljevac. Il risultato è stata la chiusura, perpetrata per alcuni giorni, del valico – importante per gli scambi commerciali tra la Bosnia nord-occidentale e la Croazia – e il trasferimento dei migranti in una fabbrica della prima periferia cittadina, in un accordo voluto dalla municipalità locale, che fino ad allora non aveva acconsentito all’installazione di un campo sul proprio territorio di competenza. Altre centinaia di persone, invece, si trovano ancora oggi in un campo profughi spontaneo, sorto in estate su un prato, non lontano dal terminal bus.
Nel campo, raggiungibile a piedi da un sentiero tra i campi e in auto da una strada sterrata, si dorme principalmente in tende fatte con teli. Fatta eccezione per alcuni volontari della Ong No Name Kitchen, per due poliziotti all’ingresso del prato e per l’Iom (l’Organizzazione internazionale dei migranti, che ha da poche settimane un maggiore controllo e comando dei campi nell’area) presente solo per la distribuzione dei pasti, è sorprendente constatare come il campo non abbia la minima attenzione nell’allestimento di strutture che possano migliorare le difficili condizioni quotidiane.
L’ipocrisia della diversità
La desolante situazione in cui versa il campo di Velika Kladuša è emblematica della volontà, da parte dell’Unione Europea, di non gestire la questione migratoria in Bosnia. Poche migliaia di persone potrebbero non rappresentare un problema per l’Ue: un’organizzazione di 28 nazioni, mezzo miliardo di abitanti, un motto che recita Uniti nella diversità e un premio Nobel per la Pace ricevuto appena sei anni fa. La realtà, però, è diversa: abbandonando al proprio destino Paesi di confine come la Croazia, l’Ue dimostra ogni giorno di voler lasciar morire persone, pur di non offrire rifugio. E tutto questo nonostante sulla rotta balcanica trovino la via principalmente migranti provenienti da Paesi in guerra – come la Siria – o dove il terrorismo islamista ogni giorno miete vittime, come l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan o nazioni nordafricane.
La situazione sembra essere persino più complessa a Bihać, altra cittadina di frontiera, 50 km a sud di Velika Kladuša. Buona parte del parco di Borici, alle porte del centro città, è diventato da mesi un campo profughi. Più di mille persone vivono tra tende piazzate all’aperto e un vecchio studentato abbandonato da anni. Sono quasi tutti giovani e uomini, mentre le famiglie sono state recentemente trasferite in un hotel poco lontano. L’intenzione della municipalità è trasferire parte dei migranti nella “Bira”, una ex fabbrica di frigoriferi, nella quale attualmente trovano alloggio altre famiglie, per un totale di circa 400 persone, che dovrebbero arrivare a 1.200 prima che arrivi il rigido inverno. La scelta della Bira non è stata affatto scontata, considerando le complessità nelle scelte politiche e amministrative in Bosnia. La Federazione, che compone il Paese insieme alla Repubblica Serba di Bosnia (Srpska) e al distretto autonomo di Brčko, ha una struttura amministrativa tra le più complesse al mondo. Qui ci sono tre presidenti per ognuna delle entità etniche presenti riconosciute (serbi, bosniacchi e croati), e il cantone dell’Una Sana, all’interno del quale insistono i comuni di Bihać e Velika Kladuša, è solo uno dei dieci della Federazione. Diverse anche le forze di sicurezza attive su differenti livelli, tra le quali l’Eufor europea, task force presente fin dalla guerra degli anni Novanta.
Agli occhi dei migranti, tuttavia, la Bosnia rappresenta “semplicemente” l’ultimo ostacolo per entrare in Europa. Ma sono in molti, di notte, a incrociare la polizia di frontiera croata: anche grazie a radar e droni, i migranti vengono identificati nei boschi, spesso maltrattati – quasi tutti riferiscono di violenze fisiche e telefoni volutamente spaccati – e rispediti in Bosnia. Questo si verifica anche molto più a ovest, quando i migranti riescono ad attraversare la Croazia, fino a spingersi in Slovenia, attraversando in certi casi persino il confine con l’Italia. Nonostante i principi sanciti dal Trattato di Schengen, infatti, alcune circolari dell’Ue – svelate recentemente da La Stampa – permettono la «riammissione» nel Paese di provenienza di ultimo passaggio, se il migrante viene fermato senza documenti su una «fascia frontaliera» di 150 metri da un lato o dall’altro del confine. Siamo di fronte a politiche di respingimento de facto, che smentiscono gli stessi principi fondativi che ispirarono il trattato. La maggior parte dei migranti arrivati attraverso la rotta balcanica rimangono bloccati in Bosnia, in una sorta di inter-vita in cui incrociano volti, persone e strade delle città di frontiera che cercano di attraversare.
La convivenza sul confine
La convivenza tra residenti e migranti a Bihać è tutto sommato pacifica. Nelle settimane scorse alcuni cittadini hanno organizzato una manifestazione di protesta contro il blocco dei migranti in città, alla quale hanno partecipato quasi cinquemila persone, un numero consistente considerando che l’agglomerato urbano centrale si aggira intorno ai 15mila abitanti e che tutta la municipalità supera di poco le 60mila unità. I cittadini hanno protestato contro le istituzioni centrali di Sarajevo, contro l’Iom e Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) perché la municipalità e il cantone vengono lasciati soli a gestire il gravoso problema della migrazione. In città non si parla mai di migranti in termini dalle venature razziste come spesso accade in Italia o in altri Paesi europei. I bosniaci sono stati profughi e rifugiati pochi anni fa, comprendono sinceramente e profondamente le ragioni dei migranti. È facile per loro immedesimarsi, e la sensazione è che ci si consideri persone alla pari.
Ma il tema della concentrazione in una piccola città di frontiera è reale, e dovrebbe essere affrontato nella sua complessità: «Fermo restando che la creazione di un campo non rappresenta mai una soluzione, bensì parte di un problema globale, una maggiore distribuzione di strutture con numeri inferiori che permettano di dare adeguata attenzione alle singole situazioni, insieme a condizioni di vita più degne e una gestione di cui tutta Europa deve prendersi carico, certamente sarebbe un buon punto di partenza – afferma Diego Saccora, attivista indipendente da anni sui luoghi della rotta balcanica – poco più di vent’anni fa, durante la guerra, Bihać è stata per tre anni sotto assedio. Lo stress post traumatico è forte, perché la guerra è una ferita collettiva ancora aperta. La situazione economica della Bosnia non è buona e la società ha i suoi tratti di instabilità. È impossibile non ammettere che ci sia un problema, che questa situazione rischia di amplificare».
Quella che per molti era considerata la “vera” rotta balcanica, è stata chiusa nel 2016, con il contestato accordo tra Ue e Turchia, dopo che centinaia di migliaia persone erano arrivate nel cuore dell’Europa, mentre tante altre erano addirittura tornate indietro, dopo aver vissuto sulla propria pelle le politiche sull’immigrazione a zero diritti, quelle che rendono persone schiavi o vulnerabili. Oggi, l’Europa chiude ancora le sue porte, abbandonando la giovane Bosnia alla gestione dei confini, relegando la Croazia a fare la parte del cattivo, diffondendo circolari che contraddicono suoi stessi trattati e dimostrando il suo lato spietato. Una morte umana, prima ancora che politica, sul confine orientale.
*Mattia Fonzi, giornalista freelance, è fondatore del quotidiano web indipendente NewsTown; si occupa di migrazioni, diritti dei migranti e di sport come strumento di integrazione sociale.
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