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La lezione cilena

Marco Morra 6 Dicembre 2022

In Cile negli anni scorsi un movimento radicale ed esteso ha ribaltato l'ordine neoliberale e avviato un processo costituente. La sinistra però non riesce a cogliere la dialettica tra governo dall'alto e mobilitazione dal basso

Il 18 ottobre 2019, in Cile iniziava un’ondata di violente proteste di massa conosciuta come l’estallido social. In appena sei mesi, il paese che fu laboratorio, prima, del socialismo democratico di Salvador Allende, poi, del dottrine della Scuola di Chicago, precipitava in una situazione insurrezionale, che produceva organismi di democrazia diretta e otteneva l’elezione di una Convenzione costituente il cui mandato era la transizione a un regime post-neoliberale.

«Non sono trenta pesos, sono trent’anni»

Nei mesi che precedettero il 18 ottobre, più di sessanta organizzazioni sociali, tra collettivi, associazioni, movimenti e sindacati di categoria, creavano un coordinamento, la Unidad Social, che avrebbe permesso loro di mobilitare le forze sociali del paese in opposizione alle politiche regressive e liberticide del governo di Sebastián Piñera, ricco uomo d’affari ed esponente della destra conservatrice: «Unite e uniti – scrivevano nel loro manifesto – per fermare la voracità del capitale in tutti i settori della società». Durante la lunga dittatura di Augusto Pinochet, il paese andino fu il primo terreno di sperimentazione delle dottrine neoliberali. La Costituzione del 1980, promulgata dal regime e tuttora vigente, sancisce la subordinazione dello Stato al mercato e la privatizzazione di beni, servizi e risorse del paese. Tornata la democrazia, il Cile è rimasto il paradiso della deregulation e delle privatizzazioni, le cui conseguenze ne fanno il paese più diseguale dell’America Latina, a fronte di un tasso di crescita tra i più alti della regione, dove il 50% della popolazione guadagna un salario pari o inferiore a 470 euro mensili, malgrado lavori quarantasei ore alla settimana, un pensionato su quattro è costretto a vivere al di sotto della soglia di povertà a causa delle speculazioni dei fondi pensione e il consumo di beni e servizi – anche essenziali – si regge sull’accesso al credito e il conseguente indebitamento del 25% più povero della popolazione.

Il malcontento già diffuso tra la popolazione doveva esplodere in occasione dell’aumento del costo dei trasporti di 30 pesos cileni, deliberato il 6 ottobre 2019. Il giorno dopo, gli studenti delle scuole secondarie si organizzavano per evadere il pagamento dei trasporti e occupare le stazioni della metropolitana di Santiago del Cile, mentre la Unidad Social rilanciava il loro appello a mobilitarsi per il 18 ottobre. La risposta del governo, che inviò le forze dell’ordine a reprimere gli studenti molto duramente, suscitò l’indignazione generale, che si espresse sin dai giorni successivi con manifestazioni in tutto il territorio nazionale. Piñera dispiegava l’esercito e dichiarava lo stato di emergenza, con il coprifuoco in diverse città: «Siamo in guerra contro un nemico poderoso e implacabile», sosteneva il 20 ottobre, di fronte a milioni di cittadini increduli. In risposta all’atteggiamento del governo, Unidad Social proclamava lo sciopero generale per il 23 e il 24 ottobre con manifestazioni nelle principali città del paese, esigendo le dimissioni del Presidente, il ritiro dello stato di emergenza, la definizione di un pacchetto di aiuti economici per la popolazione e la creazione di un’Assemblea Costituente che elaborasse in maniera partecipativa «un nuovo modello di sviluppo nazionale, che metta fine all’attuale modello neoliberale». Il 25 ottobre una marcia pacifica di un milione e duecento mila manifestanti attraversava la capitale, dando inizio alla consuetudine di ritrovarsi ogni venerdì nella centralissima piazza Italia, al grido emblematico di «non sono 30 pesos, sono 30 anni».

Nonostante l’utilizzo sistematico di migliaia di carabineros per reprimere le manifestazioni, con arresti di massa e tiri di armi a piombo e lacrimogeni ad altezza del volto, le agitazioni restarono massicce, in un’escalation di violenze, incendi, saccheggi, roghi di merci e scontri con le forze dell’ordine che proseguì per diversi mesi. I partiti della sinistra restarono disorientati di fronte all’esplodere della rivolta, impreparati a seguire l’iniziativa di una molteplicità eterogenea di attori sociali che molto rapidamente conversero nelle città e si organizzarono dal basso. Si trattava, inizialmente, di collettivi studenteschi, comitati di quartiere, lavoratori dei gremios, movimenti femministi e ambientalisti, a cui si aggiunsero, in un secondo momento, gruppi anarchici e libertari e perfino di tifoseria organizzata. Questa moltitudine non riconobbe legittimità alla direzione dei partiti, i cui sforzi per controllare la situazione furono costantemente sopraffatti dalle agitazioni. Dopo trent’anni di politiche neoliberali nell’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra, la diffidenza maturata dalle masse verso la politica si proiettava, senza distinzione alcuna, su tutta la sinistra vecchia e nuova. Nelle piazze si respingevano le bandiere delle organizzazioni politiche formali, sventolavano, invece, quelle del popolo Mapuche, in lotta per la riappropriazione delle terre dell’Araucanía, espropriate dalle grandi imprese forestiere. Di fronte a questo rifiuto viscerale, vani furono gli sforzi del Partito Comunista e del Frente Amplio (sinistra radicale) per riaccreditarsi agli occhi dei rivoltosi.

Il rifiuto della pratica partitaria, tuttavia, non significava rifiuto dell’organizzazione tout court. Se il 18 ottobre e le settimane successive sembravano caratterizzate dall’assenza di coordinamento formale, la valanga di attori sociali che manifestarono nelle strade di quasi tutte le città del paese, la convergenza di richieste vecchie e nuove, locali e nazionali, specifiche e universali, la necessità di difendersi nel confronto prolungato prima con le forze dell’ordine e poi con i militari, la realizzazione di saccheggi da parte delle folle nei grandi supermercati e nelle farmacie per settimane e settimane, fecero emergere le prime forme di organizzazione popolare. Il boicottaggio del pagamento del trasporto pubblico, promosso dagli studenti all’inizio della rivolta, come pratica di riappropriazione diretta di beni e servizi essenziali, si estese all’intera economia attraverso l’attuazione di saccheggi di massa. I rivoltosi si resero disponibili fin dalle prime settimane a questo tipo di pratiche illegali, coordinando la loro azione dal basso. L’esempio più emblematico, tuttavia, resta l’organizzazione di un servizio d’ordine, che difendeva i raduni dall’impatto delle forze di polizia, e di gruppi di pronto soccorso popolare che assistevano i feriti sul campo. Con piazza Italia come epicentro – e le piazze principali di tutte le città del paese – ogni venerdì si assisteva a una protesta sempre più festosa e carnevalesca, che manteneva un fianco di confronto con la polizia nella cosiddetta «prima linea». In altre parole, il movimento produsse forme di organizzazione, comunicazione e azione politica decentrate, convergenti nella loro orizzontalità e generalmente caratterizzate da una diffidenza verso ogni tipo di piattaforme centralizzanti, formali e istituzionalizzate.

Messo alle strette, il governo proponeva un accordo di pacificazione, che pattuisse le condizioni di un processo costituente per sostituire la Carta Magna del 1980, in cambio dell’impegno di tutti i partiti a porre fine alle mobilitazioni. Mentre le piazze respingevano la proposta, la sinistra si divideva. Alcuni temevano un intervento delle Forza Armate, previsto dalla Ley organica constitucional de los estados de excepción del 1985, tuttora vigente, ai fini della salvaguardia della sicurezza nazionale. La mattina del 15 novembre, tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, a eccezione del Partito Comunista, firmavano l’Acuerdo por la Paz y la Nueva Constitución. Esso prevedeva un referendum per l’aprile 2020 (poi rinviato all’ottobre successivo) che chiamasse gli elettori a decidere in favore o contro una nuova costituzione e scegliere quale organo avrebbe dovuto redigerla, se una Convenzione costituzionale eletta a suffragio diretto o una Convenzione mista formata, in parti uguali, da membri eletti e da parlamentari.

Anche su questo piano, l’iniziativa popolare superava di gran lunga quella delle organizzazioni politiche. Sin dai primi mesi della rivolta, i settori più avanzati si organizzarono per far arrivare al governo le loro richieste, riunendosi in assemblee territoriali, i cabildos. Questi organismi furono, inizialmente, un’esperienza favorita dal governo di centro-sinistra di Michelle Bachelet (2014-2018), che s’impegnò nella produzione di una nuova costituzione, favorendo la partecipazione della società civile nella stesura del testo, poi rifiutato dal successivo governo di Piñera. Durante l’estallido, l’esperimento istituzionale si trasformò in patrimonio di massa, dimostrando la capacità d’iniziativa che il popolo può dispiegare in fasi di mobilitazione sociale. A inizio dicembre 2019, la Unidad social teneva una conferenza per esporre un pliego di novantotto rivendicazioni che raccoglieva tra le più sentite dalla cittadinanza, invitando il popolo a riunirsi per inviare le proprie richieste. In poco tempo, in ogni angolo del paese, persone, comunità, organizzazioni si autoconvocarono per raccogliere e formalizzare le proprie istanze, producendo un tessuto capillare di coordinamento e di comunicazione sociale orizzontali. La redazione dei pliegos de reivendicación divenne una pratica di molte assemblee, insieme all’organizzazione di momenti di autoformazione, di mutuo soccorso e di agitazione di piazza. I cabildos diventano in poco tempo spazi di elaborazione collettiva e di dibattito sulla società da costruire, sul modello economico, ma anche su come proteggersi di fronte alla repressione dello Stato, o ancora di fronte al saccheggio dei negozi. Solo Unidad social registrò le discussioni di ben 1.663 cabildos in 211 comunas tra l’ottobre 2019 e il marzo 2020, con una partecipazione di diverse decine di migliaia di persone. Circa il 70% di queste assemblee considerava come prioritari i temi relativi a educazione (73%) e salute (68%), di cui si chiedeva universalità, gratuità e qualità; nuova costituzione (70%); pensioni (69%); lavoro (47%), come aumenti salariali, riduzione dell’orario e garanzie contrattuali; difesa dell’ambiente e gestione delle risorse naturali (47%); cambio di modello produttivo (38%), in cui prevalevano la fine del modello estrattivista, la statalizzazione dei servizi pubblici e l’accesso universale a essi. Soltanto un quarto delle assemblee espresse interesse per una maggiore partecipazione alla vita politica del paese (28%). Le richieste dei cabildos erano legate principalmente a garanzie di universalità, protezione sociale ed equità nei diritti fondamentali come l’istruzione, la salute, il lavoro, la giustizia, e più in generale alle condizioni percepite come indispensabili alla conduzione di una vita dignitosa. Hasta que la dignidad se haga costumbre, si poteva leggere sui muri della capitale. Analogamente, il rafforzamento del ruolo dello Stato fu una richiesta trasversale, al contrario della rivendicazione di una maggiore partecipazione dal basso alla vita politica, che coinvolse significativamente soltanto una minoranza della popolazione attiva nella rivolta.

Il processo costituente

La richiesta di una nuova costituzione fu il vero punto di rottura dell’estallido social. Nei termini in cui si provò a farne il fondamento giuridico, legittimo e legale, della transizione a un modello sociale e politico differente, l’Acuerdo por la Paz y la Nueva Constitución fornì un sbocco politico-istituzionale alla rivolta. Esso, benché nell’immediato depotenziasse la mobilitazione popolare e salvasse il governo di Piñera, negli anni successivi, avrebbe costituito un terreno su cui dare continuità alla mobilitazione dal basso e alla contestazione dell’ordine costituito. La prima fase della rivolta, infatti, si sarebbe conclusa il 12 marzo 2020, con l’inizio del confinamento per l’epidemia di Covid-19, dopo l’oceanica manifestazione femminista dell’8 marzo nelle strade della capitale. Alla fine dell’estallido social si conteranno 34 morti, 460 mutilazioni oculari, 1.200 vittime di tortura o trattamento crudele, 3.219 feriti da arma da fuoco (dati dell’Instiuto Nacional Derechos Humanos), a cui bisogna aggiungere migliaia di persone incarcerate. Solo tra il 18 ottobre e il 18 dicembre 2019, i carabinieri imprigionarono 18.686 manifestanti, tra cui il 64,59% di età compresa tra i 18 e i 30 anni (dati dello Heinrich Böll Stiftung).

Sei mesi di confinamento ininterrotto non solo determinarono l’impossibilità di consolidare le forme di lotta e di organizzazione che aveva prodotto la rivolta, bensì causarono l’aggravamento delle condizioni di esistenza di ampie fasce della popolazione, condizionando un ripiegamento sulle questioni più urgenti della salvaguardia della vita individuale e del focolare domestico. Nonostante questo, e con la pandemia ancora in corso, la mobilitazione ricominciò in occasione del primo referendum popolare. Il 25 ottobre 2020, il 78.27% degli elettori votò a favore di una nuova costituzione e attribuì il mandato di elaborarla a una Convenzione eletta integralmente dal popolo. I 155 membri convenzionali, eletti il 15 e il 16 maggio 2021, furono ampiamente rappresentativi della società civile (le liste indipendenti ottennero 48 seggi), dei partiti (con 28 seggi ottenuti dalla sinistra radicale, 25 dal centro-sinistra e 37 da destra e centro-destra), e dei popoli originari (a cui furono destinati 17 seggi), con 78 uomini, 77 donne e 8 appartenenti alla comunità Lgbt+.

I lavori per l’elaborazione di una nuova costituzione si svolsero tra il 4 luglio 2021 e il 4 luglio 2022. Nel tentativo d’integrare le regioni nei lavori della Convenzione, si organizzarono audizioni pubbliche in diverse parti del paese. Dall’8 novembre al primo febbraio si ricevettero le proposte d’iniziativa popolare da parte dei cabildos comunali e delle assemblee autoconvocate. Parallelamente si svolse l’attività delle commissioni tematiche, con audizioni in diverse città nei mesi di novembre e di febbraio. Tutto questo, tuttavia, risultò largamente insufficiente. La Convenzione produsse uno dei testi costituzionali più avanzati di tutti i tempi, ma non ottenne l’appoggio popolare sperato. Il 4 settembre 2022, il voto obbligatorio chiamava alle urne più di tredici milioni di elettori, che si esprimevano in larga maggioranza per il rifiuto, con 7.868.295 di voti contrari (61,86%) e 4.859.103 di voti (38,14%) a favore del testo proposto. L’obbligatorietà del voto portava il tasso di partecipazione all’85,7%, con quattro milioni e mezzo di elettori in più rispetto al referendum dell’ottobre 2020. Poiché le schede bianche furono soltanto 77.340, pari allo 0,59% degli elettori, possiamo affermare che coloro che raggiunsero gli scrutini per obbligo di legge espressero un voto consapevole e intenzionale rispetto alla domanda referendaria. Inoltre, il progetto di costituzione fu rifiutato da una parte degli stessi elettori che appena due anni prima aveva approvato l’inizio del processo costituente con 5.892.832 voti a favore.

Molto è stato scritto sulle ragioni di questa pesante sconfitta, a partire dalla constatazione che la campagna per il «No» è stata ben più efficace e meglio finanziata di quella per il «Si». L’aggressiva campagna di disinformazione condotta dalle forze conservatrici e dai think-thank neoliberali su giornali, televisioni e reti sociali ha puntato sistematicamente a screditare dapprima i membri della Convenzione, poi il testo proposto. La sinistra, al contrario, si è rivelata timorosa, inefficace sul piano mediatico, divisa. Mentre una parte del centro-sinistra opponeva un rifiuto elitario nei confronti delle proposte dei convenzionali, nella sinistra radicale c’era chi non considerava il testo proposto sufficientemente avanzato. Il fattore principale da comprendere, tuttavia, restano le ragioni del distacco del popolo dalla Convenzione e dallo spirito radicale che essa incarnava.

Una volta eletti, i convenzionali non riuscirono a rappresentare le istanze di cabildos, assemblee, gremios e comunità che pretendevano di rappresentare. Il coinvolgimento dei territori restava parziale, occasionale e, la maggior parte delle volte, mediato dalle istituzioni locali. Le proposte d’iniziativa popolare erano vincolate al raggiungimento di almeno 15.000 firme di appoggio, peraltro non vincolanti per la Convenzione. Le audizioni delle commissioni tematiche raggiunsero solo un numero limitato di organizzazioni sociali per gli scarsi tempi a disposizione. Quando, il 27 aprile, l’Ufficio di Presidenza diffondeva la bozza della nuova costituzione, il processo costituente non aveva suscitato una reale partecipazione nel paese. Il testo proposto esprimeva lo spirito radicale dei due terzi della Convenzione, ma si scontrava con le preoccupazioni, i pregiudizi e i sospetti maturati nella maggioranza della popolazione.

La sinistra a un punto morto?

L’estallido social ha trovato uno sbocco politico, dapprima, nella Convenzione costituente, poi, nell’elezione di Gabriel Boric, nel dicembre 2021. Il giovane candidato della sinistra radicale ha assunto l’incarico presidenziale l’11 marzo 2022, formando un governo con la partecipazione dei comunisti e delle componenti del centro-sinistra. Se la possibilità di superare il modello neoliberale sembra essersi chiusa con il referendum del 4 settembre, per una parte del suo elettorato sarebbe già sufficiente che il nuovo governo riuscisse a realizzare le riforme richieste, come l’aumento delle pensioni e del salario minimo, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico, la riforma del sistema tributario in senso progressivo, il condono dei debiti contratti da oltre un milione di studenti. Questo tuttavia non è affatto scontato, nella misura in cui i conservatori mantengono il controllo del Parlamento, ponendo il veto alla realizzazione delle riforme più osteggiate.

D’altra parte, Boric non ha mai nascosto che la Costituzione del 1980 fosse un ostacolo all’attuazione del programma proposto. E tuttavia il governo ha esitato a dare battaglia, dapprima in Parlamento, aspettando l’esito del referendum, poi, in occasione di quest’ultimo, evitando di intervenire direttamente nella contesa referendaria, per salvaguardarsi dalle accuse di mancata neutralità istituzionale. Adesso, con il trionfo del «No», la moderazione ha vinto. Boric e i suoi sono costretti a negoziare un nuovo processo costituente in Parlamento non solo con l’opposizione, ma anche con l’ala moderata del centro-sinistra, che hanno dovuto integrare nell’area governativa per vincere il ballottaggio contro José Antonio Kast, il candidato dell’estrema destra. Il risultato è il ripiegamento dell’azione governativa nel quadro delle compatibilità sistemiche e del consociativismo istituzionale, con la conseguente delusione di una parte dei settori popolari, che, in prospettiva, potrebbero privare i partiti al governo del proprio sostegno. Intanto le lotte sociali che avevano costituito il motore propulsivo del cambiamento negli scorsi anni si sono esaurite tra le misure pubbliche restrittive, l’impatto sociale della pandemia e le esitazioni della sinistra. Il governo, se vorrà cambiare qualcosa, potrà farlo solo con un rilancio della mobilitazione popolare, che tuttavia non è del tutto in suo potere di decidere.

Gli avvenimenti cileni degli ultimi tre anni forniscono una lezione interessante anche per coloro che, in Europa, si confrontano con le conseguenze politiche e sociali del processo di ristrutturazione neoliberale che attraversa il vecchio continente dalla crisi del 2008. L’estallido social ha dimostrato che istanze largamente condivisibili di dignità, benessere e democrazia possono diventare antagoniste con l’organizzazione neoliberale della produzione e della circolazione del valore. La richiesta di una vita dignitosa è diventata, nel corso della rivolta, contestazione globale a un sistema politico classista e autoritario, infine aspirazione al superamento dell’ordine neoliberale nella lotta per lo stato sociale. La difesa ostinata e brutale dello status quo da parte delle classi dirigenti, con la proclamazione dello stato d’emergenza e il dispiegamento dei militari, ha radicalizzato la rivolta e proiettato il processo in una direzione insurrezionale. In queste circostanze, i partiti della sinistra hanno dimostrato l’inadeguatezza di una pratica politica intesa come direzione delle lotte dall’esterno, attività di propaganda-agitazione e partecipazione alla dialettica istituzionale, da cui deriverebbe il loro scarso radicamento sociale. Arroccandosi nella loro identità, essi non si sono immischiati, se non superficialmente, nella rivolta; hanno cercato di controllarla attraverso la Central Unidaria de Trabajadores (Cut); non hanno potuto e, forse, neanche voluto sviluppare gli embrioni di autorganizzazione che stavano emergendo nelle mobilitazioni. I loro rappresentanti ufficiali sono stati talvolta espulsi dalle piazze, talaltra insultati, come l’amarillo Boric (il crumiro), dopo la firma dell’Acuerdo por la Paz. Finché i principali partiti politici erano discreditati, si operò una forte politicizzazione dal basso, in particolare dove nascevano nuove organizzazioni sociali e cittadine e si organizzavano assemblee e cabildos. Essi compensarono le debolezze strutturali dei sindacati, senza, tuttavia, riuscire a produrre strutture permanenti di potere popolare.

Nel lungo ciclo di resistenza anti-neoliberale che caratterizzò l’America Latina tra gli anni Novanta e gli anni Dieci, i movimenti sociali hanno dimostrato spesso una capacità d’articolazione che ha permesso di suscitare delle mobilitazioni su scala nazionale. Espropriati o minacciati di espulsione dalla loro terra, dal loro lavoro o di fronte al deterioramento delle condizioni di vita, la maggior parte di questi attori contestatari è sorta da un’identificazione politica intorno a una comune condizione di privazione. Ne sono un esempio le occupazioni del Movimento dei Senza Terra in Brasile, le comunità indigene in Ecuador e Bolivia, le municipalità autonome zapatiste in Messico, la comune autonoma di Oaxaca, il recupero di centinaia di aziende autogestite in Argentina. In questo ciclo di resistenza al neoliberismo, questi movimenti conversero con altri attori urbani come i lavoratori precari, gli studenti e le classi medie impoverite, imponendosi nello spazio pubblico con mobilitazioni che rivendicavano le dimissioni dei governi e il riconoscimento della sovranità popolare. Le caratteristiche principali di queste mobilitazioni furono le pratiche collettive di azione diretta, le forme di organizzazione partecipative e finalizzate a mitigare i pericoli della burocratizzazione e della manipolazione, le richieste programmatiche impegnate nella costruzione politica multisettoriale, l’appropriazione sociale del territorio. Talvolta esse hanno prodotto una dialettica positiva tra lotte sociali e governi progressisti, contribuendo al rinnovamento delle classi dirigenti e dando vita a nuovi processi costituenti, come nel caso delle Assemblee costituenti in Bolivia ed Ecuador.

Analogamente, tra l’ottobre 2019 e il marzo 2020 in Cile, la mobilitazione sociale è stata una forza dirompente che ha permesso alla sinistra cilena di ribaltare i rapporti di forza e di iniziare un processo costituente. D’altra parte, trascendendo il controllo dei partiti, essa è stata per questi ultimi anche una minaccia, superando continuamente i limiti istituzionali e aprendo processi che hanno polarizzato la società e aperto una congiuntura potenzialmente rivoluzionaria. Al contrario, nel corso degli ultimi tre anni si può constatare l’impreparazione, l’incapacità o il rifiuto della sinistra di approfondire questa dialettica tra processo dall’alto e mobilitazione dal basso fino al superamento del modello economico e sociale vigente. L’alternativa che si è posta, in ultima istanza, è stata tra il cambiare tutto e il non cambiare nulla. Questo perché nel quadro della crisi strutturale del capitalismo su scala mondiale e dell’inasprimento delle contraddizioni inter-imperialiste, il neoliberalismo è l’unica forma che possa assumere il capitalismo occidentale. Dal 2008 in poi, la crisi è permanente e la speculazione finanziaria non è sufficiente a sostenere i profitti. Le élite liberali sono costrette a imporre dall’alto e, talvolta, in maniera autoritaria le riforme necessarie per la sopravvivenza del sistema. In questo contesto, anche una piattaforma riformista in senso sociale diventa immediatamente motivo di rottura rivoluzionaria.

*Marco Morra è dottorando in Studi Internazionali all’Università di Napoli “L’Orientale”. Si occupa di storia della sinistra e dei movimenti sociali tra l’America Latina e l’Europa Occidentale.

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3h

Se pensate che in nome della fantomatica «cancel culture» qualcuno stia manipolando i libri dovreste leggere quanto scrive l'Associazione dei bibliotecari americani sulla campagna oscurantista in atto. Spoiler: non c'entra la sinistra
https://jacobinitalia.it/la-censura-viene-da-destra/

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30 Mar

Nel solo 2021 negli Stati uniti le macchine hanno causato circa quarantatremila morti per incidenti. Ma ormai le accettiamo in quanto sfortunato ma inevitabile costo della vita moderna
https://jacobinitalia.it/le-auto-distruggono-la-citta/

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29 Mar

Grazie anche a @JacobinItalia per la ripresa dell'intervista con @PabloIglesias per la rivista @ctxt_es su "Questa guerra non finisce in Ukraina", che per l'appunto è in corso di traduzione all'italiano. https://twitter.com/JacobinItalia/status/1641011347340025858

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29 Mar

La guerra definisce l'ambiente ideale per produrre nuovi fascismi e per cancellare ogni istanza di liberazione. Basterebbe questo per lottare per la «pace costituente» di cui parla Raúl Sánchez Cedillo con Pablo Iglesias
https://jacobinitalia.it/senza-rivolta-il-pacifismo-e-sconfitto/

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