La nascita della classe operaia in Italia
Dopo aver partecipato ai Quaderni Rossi, Franco Ramella ricostruì la genesi del capitalismo italiano e della resistenza della classe operaia. Il suo lavoro ricorda quello di E. P. Thompson.
L’avvento del capitalismo è indissolubilmente legato all’inizio del colonialismo, dell’espropriazione e della schiavitù. I popoli dell’Asia, dell’Africa e delle Americhe hanno pagato il prezzo più alto per la crescita economica del mondo occidentale. Ma lo sfruttamento delle classi lavoratrici europee è stato comunque una parte cruciale del processo di industrializzazione.
Agli occhi della società europea, il capitalismo è ancora percepito principalmente come una forza liberatrice, che ha gettato le basi per l’odierno stile di vita. Eppure, anche nelle parti del mondo che hanno principalmente beneficiato del sistema, gli aspetti negativi del capitalismo traspaiono chiaramente. Anzi, a uno sguardo più attento, queste scomode verità diventano sempre più difficili da ignorare.
A questa denuncia ha dato un contributo importante il lavoro dello storico Franco Ramella. Il suo libro Terra e telai: sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento ribalta completamente la visione tradizionale della campagna italiana nell’Ottocento. Il suo approccio microstorico alle manifatture tessili rivela come il capitalismo industriale abbia imposto un regime di sfruttamento molto più duro e nuove forme di precarietà, portando miseria nella vita sia dei contadini che degli operai.
Il lavoro di Ramella ha forti echi dei saggi di Edward Palmer Thompson sulla storia delle origini del capitalismo in Inghilterra. Come Thompson, Ramella ha unito ricerca accademica e attivismo politico nel corso della sua carriera intellettuale. Terra e telai, uscito per la prima volta negli anni Ottanta, è stato recentemente ripubblicato, consentendoci di guardare da una nuova prospettiva a uno storico che merita di essere meglio conosciuto anche sul piano internazionale.
Dalla politica alla storia
Il lavoro di Ramella come studioso è profondamente intrecciato con le sue esperienze di vita e le sue affiliazioni politiche. Nato a Biella, città industriale del nord Italia, nel 1939, negli anni Sessanta come molti giovani della sua generazione si impegna in politica: prima nel Partito socialista italiano, e dal 1964 nel Partito socialista di unità proletaria (Psiup), che ruppe con il Psi dopo il suo ingresso in una coalizione di governo con la Democrazia cristiana.
In questi anni Ramella collabora strettamente con la rivista Quaderni Rossi, pubblicata tra il 1961 e il 1966, che annovera tra i suoi fondatori Raniero Panzieri, Danilo Montaldi, Romano Alquati e Mario Tronti. Questi intellettuali possono essere considerati a buon diritto come i pilastri della fase iniziale dell’operaismo, influente corrente della sinistra radicale italiana.
Il circolo dei Quaderni Rossi sosteneva che fabbrica, società e stato fossero diventati strettamente interconnessi. Fondamentalmente, l’industria era uno strumento politico utilizzato per controllare il lavoro e standardizzare la società. In questo nuovo contesto, i conflitti di classe non ruotavano più attorno all’opposizione tra lavoratori salariati e capitale. Da quando la presa del capitalismo sulla società si era fatta più stretta, la lotta del proletariato si era estesa fino a comprendere altre questioni, come la cultura, l’immaginazione, la lingua, le forme di vita e la riproduzione.
In un articolo pubblicato sui Quaderni Rossi nel 1964, Ramella e il suo concittadino Clemente Ciocchetti fanno luce su queste nuove forme di contesa nell’industria tessile biellese raccogliendo testimonianze orali e scritte dei lavoratori attraverso il metodo della ricerca collaborativa («conricerca»). Il loro obiettivo era di mostrare come l’automatizzazione del processo produttivo e la subordinazione dei lavoratori alla catena di montaggio influenzassero l’ambiente di lavoro. In questo mutato contesto emerge un nuovo paesaggio microfisico di resistenza. I lavoratori esercitano la loro volontà di trasformazione politica e sociale attraverso nuovi strumenti di lotta: rifiutano di lavorare, ricorrendo al sabotaggio e ad altri mezzi di resistenza sia individuale che collettiva alla disciplina di fabbrica.
Ovviamente, il sistema capitalista si trova a dover contrastare efficacemente queste forme proattive di resistenza. Dal momento che i lavoratori non agiscono più come vittime passive, il capitale non può più fare affidamento solo sulla sua dinamica intrinseca di subordinazione del lavoro, ma deve resistere inventando nuove forme di sfruttamento. Per contenere l’opposizione dei lavoratori, le fabbriche implementano regimi lavorativi diversi e più duri.
Marxismo e microstoria
All’inizio degli anni Settanta, l’agenda degli operaisti è oramai impraticabile. Con lo scioglimento del Psiup e la crisi dell’operaismo, Ramella lascia la politica e si trasferisce da Biella a Torino. In un’intervista del 2014 con Serena La Malfa, lo storico spiega di aver abbandonato l’attivismo politico una volta resosi conto che il capitalismo aveva vinto.
Tuttavia, l’accettazione della sconfitta si trasforma presto in uno stimolo per un nuovo inizio. Nel 1971, sua moglie Luciana Benigno si laurea presso l’Università degli Studi di Torino sotto la guida di Giovanni Levi con una tesi intitolata L’introduzione del telaio meccanico nell’industria laniera biellese e la formazione della classe operaia. Nelle parole di Ramella, sia la ricerca di Luciana sulla trasformazione della manifattura nel biellese che l’incontro e la successiva collaborazione con Levi costituiscono uno spartiacque nella sua biografia intellettuale. Dall’inizio degli anni Settanta in poi Ramella si è posto all’intersezione tra due tradizioni storiografiche: il marxismo e la microstoria.
Ramella si avvicina alla storiografia marxista attraverso il lavoro di Thompson sulla società inglese del XVIII secolo. Da Thompson, Ramella deriva l’idea che l’avvento del capitalismo è il risultato di un susseguirsi di scontri tra due forze principali: da un lato, un’economia di mercato innovativa basata sullo scambio monetario e sul conflitto di classe, che ruota principalmente attorno alla questione dei salari; dall’altro l’economia morale consuetudinaria delle classi lavoratrici, i cui usi e costumi economici tradizionali trasgrediscono i principi del «libero mercato» e quindi operano in diretto conflitto.
La microstoria, soprattutto per come era stata sviluppata nelle opere di Levi e Edoardo Grendi, è il secondo approccio storiografico che ha influenzato la traiettoria intellettuale di Ramella. Come Thompson, questi due studiosi indirizzano le loro indagini lontano da ciò che definiscono il «centro del potere» e dai grandi personaggi che hanno scritto la storia dell’umanità. Il loro nuovo obiettivo è esplorare il dimenticato mondo dei margini e dei «molti».
In quest’ottica essere uno tra tanti significa anche essere tra gli svantaggiati e gli sfruttati, senza però che le identità delle persone «inferiori» e la loro esistenza come individui in carne e ossa vadano perdute nel flusso della storia mondiale. Le loro vite non possono e non devono essere ridotte al loro ruolo sociale, come volti senza nome in una folla omogenea e ben organizzata di lavoratori.
I microstorici non considerano lo sviluppo storico come un processo unificato e lineare, che può essere racchiuso in una grande narrazione del mondo in cui vengono ricordati solo pochi nomi, mentre la maggior parte viene cancellata dalle onde del tempo. Piuttosto, la storia è un flusso multiforme costituito da molti centri distinti. Questi centri sono individui, e gli individui non vivono la «storia» in senso congetturale, ma le storie. O meglio ancora, vicende: ciò che conta sono le loro vicende.
In Terra e telai, pubblicato per la prima volta nel 1984, Ramella ricombina elementi di entrambe queste tradizioni storiografiche, costruendo così una prospettiva originale. A suo avviso, la creazione della classe operaia è ben lungi dall’essere un processo semplice, lineare e inevitabile che trasforma una classe monolitica di contadini in una classe monolitica di lavoratori dell’industria.
Al contrario, la storia di Ramella è composta di tante storie diverse, dove i protagonisti sono uomini, donne, e le loro famiglie. In questo quadro, i contadini e gli operai sono visti come individui, non come categorie sociali o semplici ingranaggi della grande macchina storica. Sono persone e gruppi che tracciano attivamente il percorso della propria vita, indipendentemente dal fatto che la loro esistenza sia ritenuta degna di essere ricordata o meno.
Un posto tranquillo
La storia di Terra e telai inizia nel luogo più improbabile: la tranquilla valle di Mosso, tra le alture che circondano Biella. Come molti villaggi europei nel periodo compreso tra la fine del XVII secolo e la rivoluzione industriale, le piccole comunità rurali di Mosso sono caratterizzate da redditi agricoli ridotti e da un ampio bacino di manodopera a buon mercato.
Di conseguenza, i coltivatori hanno un forte incentivo a dedicarsi al settore manifatturiero per aumentare i guadagni. Uomini, donne e bambini dividono il tempo tra agricoltura e industria tra le mura delle proprie case rurali, dove lavorano per produrre beni da vendere sul mercato.
In questa attività, i lavoratori figurano sia come produttori autonomi oppure dipendenti da piccoli imprenditori con sede nelle città. In entrambi i casi, la casa è il laboratorio e la famiglia una singola cellula di produzione indipendente. La maggior parte di questi beni consistono in prodotti tessili. I contadini si dedicano a questa produzione solo nei periodi di calma, non in modo costante ma intermittente e su base stagionale.
Questi prodotti artigianali sono destinati non solo al consumo locale, ma anche ai mercati nazionali e internazionali. Senza lo stimolo di mercati ampi e competitivi, la produzione rurale è confinata nelle campagne a soddisfare i bisogni familiari e locali, ma nel complesso rimane estranea alle pressioni del capitalismo commerciale. Il collegamento tra contadini-produttori e il resto del mondo è costituito dai mercanti che visitano le città mercato nelle regioni rinomate per la produzione artigianale allo scopo di acquistare i prodotti.
Le città non sono ancora i centri principali della produzione industriale. Piuttosto, sono luoghi in cui i lavoratori proto-industriali smaltiscono i loro beni o acquistano materie prime e beni che non possono produrre o coltivare da soli, siano essi prodotti alimentari o agricoli.
Nelle campagne biellesi le richieste di mercato diventano così forti che l’attività manifatturiera supera la manodopera disponibile. Ciò porta questa forma embrionale di organizzazione industriale a modificare le proprie tecnologie produttive. L’industria rurale si trasformò così gradualmente in industria di fabbrica.
Dalla terra alla fabbrica
Il XIX secolo vede quindi una transizione difficile e disomogenea dal vecchio mondo dell’industria domestica (discontinua, multifocale e orizzontale) al mondo integrato, centralizzato e gerarchico del capitalismo industriale.
Nel mondo dell’industria rurale, i contadini-produttori riescono in qualche modo a mantenere i ritmi di lavoro delle fattorie, dei piccoli laboratori o delle corporazioni artigiane da cui provengono, e sono allo stesso tempo in grado di preservare un adeguato livello di differenziazione tra loro sia per sesso che per età, assicurando così una divisione del lavoro sufficiente a garantire il corretto funzionamento della tradizionale industria rurale domestica.
Tuttavia, quando la manifattura industriale prende il sopravvento muta in vari modi la natura e la funzione delle famiglie contadine. I salari monetari sostituiscono gradualmente il tradizionale reddito familiare, mentre i tessitori diventano sempre meno dipendenti dai redditi fondiari e dal sostegno degli altri membri della famiglia. In questo nuovo contesto, sia gli uomini che le donne hanno maggiori probabilità di sposarsi più tardi, intorno ai trent’anni: tuttavia, l’età dei primi rapporti sessuali non aumenta di conseguenza. Dunque, cresce il numero dei bambini nati al di fuori del matrimonio, mentre i casi di abbandono sono sempre più frequenti.
La produzione si sposta fuori dall’ambiente domestico. Una quantità sempre maggiore di lavoratori si concentra in nuovi stabilimenti dedicati: le moderne fabbriche. L’impatto sulla produttività è enorme: il lavoro umano diviene più veloce, dal momento che si assoggetta progressivamente al ritmo della produzione con un’alterazione sia della natura del processo manifatturiero tradizionale che del lavoro stesso.
La vita dei nuovi operai cambia drasticamente: essi sono periodicamente spinti nella precarietà dalla natura instabile della produzione industriale e dalle rapide e imprevedibili oscillazioni dei mercati. Ogni volta che lo scambio commerciale crolla e la produzione industriale si ferma, i contadini-produttori vengono licenziati dai datori di lavoro. Senza un impiego nell’industria, gli agricoltori e le loro famiglie tornano alla tradizionale occupazione agricola, da cui ricavano il reddito di base per la sopravvivenza.
Trasformazione culturale
Purtroppo, questa alternanza tra industria e agricoltura non funziona particolarmente bene. La produzione industriale intacca i periodi dell’anno in cui la richiesta di manodopera agricola è più intensa, quando i contadini sono impegnati con il raccolto. I lavoratori vengono quindi sovrasfruttati sia nell’industria che nell’agricoltura durante l’estate, mentre rimangono inattivi (e privi di reddito) per il resto dell’anno.
Anche la natura dei conflitti sociali cambia. Nel mondo dell’industria rurale, le classi lavoratrici sono più facilmente incitate all’azione dall’aumento dei prezzi – quello che Thompson definisce come «bread-nexus», ovvero la correlazione tra prezzo del pane e rivolte. Al contrario, il conflitto di classe nell’Italia del XIX secolo, come altrove nel mondo industriale, trova la sua espressione più caratteristica nella questione dei salari.
Man mano che i lavoratori salariati crescono in numero diventano sempre più dipendenti dai salari e dai datori di lavoro, perdendo contemporaneamente la propria autonomia come lavoratori rurali. Sven Beckert ci ha recentemente ricordato che il controllo totalizzante dei lavoratori (che è caratteristica fondamentale del capitalismo) sperimenta il suo primo grande successo nella fabbrica tessile.
Il passaggio dalla manifattura contadina al lavoro industriale pone fine a quella che gli studiosi definiscono come la «cultura plebea» dell’economia familiare proto-industriale. Tutte le consuetudini di questa organizzazione del lavoro ormai superata si estinguono, insieme alla mentalità e ai diritti a essa associati. Ciò include anche il diritto di lavorare secondo un programma autodeterminato e di impegnarsi in «rituali tradizionali del tempo libero», così come il senso di appartenenza a una comunità di villaggio locale e la possibilità di godere di modelli di consumo consolidati.
Un nuovo regime di lavoro
La vita degli operai diviene significativamente diversa dall’esperienza manifatturiera degli artigiani rurali. Le fabbriche impongono il proprio regime lavorativo e i nuovi ritmi frenetici di lavoro spingono molti lavoratori a insorgere contro i propri padroni.
Resistenza è la parola che unifica il movimento proletario. Tuttavia, la sua natura composita e la diversità degli obiettivi (e nemici) danno origine a una moltitudine di linguaggi, atteggiamenti e gesti concepiti per colpire un destinatario specifico.
Nel suo lavoro, Ramella sottolinea l’importanza di questo gergo di protesta modellato sulle prassi quotidiane. Man mano che il capitalismo sviluppa forme di oppressione più severe, i lavoratori adottano in opposizione i propri strumenti per contrastarle.
Le aziende produttrici cercano di sfruttare i rapporti di lunga data tra i nuclei sociali contadini per impedire la concentrazione dei lavoratori nelle fabbriche. Tuttavia, sia la famiglia contadina che la fabbrica moderna fanno affidamento su un sistema organizzativo rigido e gerarchico: all’interno di entrambe queste strutture, i lavoratori stabiliscono forti legami di solidarietà. Ciò li rende alleati nella stessa battaglia e la solidarietà permette loro di ottenere un controllo parziale sui ritmi di produzione.
In termini pratici, i lavoratori stabiliscono tacitamente un livello standard di produzione: chi riesce ad aumentare la propria produzione individuale di tessuti al di sopra di quel livello si trova isolato e ostacolato dagli altri. I lavoratori più produttivi diventano il bersaglio di quelli che si mantengono nella media stabilita e che si rifiutano di collaborare con loro, addirittura fino a danneggiare i loro telai per fermare comportamenti individuali ritenuti lesivi dell’interesse collettivo del gruppo.
Anche gli scioperi costituiscono un momento cruciale: in essi ogni lavoratore è tenuto a mostrare solidarietà alla causa comune. Come forma di resistenza, gli scioperi sono rivolti principalmente contro il proprietario della fabbrica e contro i suoi tentativi di imporre una disciplina del lavoro più rigorosa. Tuttavia, scioperi e proteste possono colpire anche altri obiettivi: ad esempio, i lavoratori che non partecipano allo sciopero rischiano di subire pesanti conseguenze.
Gli scioperanti diventano soliti etichettare coloro che si rifiutano di unirsi all’azione di protesta con il nome offensivo di «beduino». Così marchiati, i «beduini» sono tagliati fuori da ogni tipo di rapporto sociale con i colleghi di lavoro e con i membri dell’intera comunità, tenuta insieme da una complessa rete di solidarietà e di sostegno reciproco. Ciò include anche la perdita dell’accesso all’acqua, al credito e a qualsiasi altra risorsa o forma di assistenza per i «beduini». Tale isolamento alla fine li costringe a lasciare sia la fabbrica che il villaggio.
Spesso i proprietari tentano di sostituire gli scioperanti con lavoratori esterni reclutati da aree di disoccupazione strutturale o periodica come la Lombardia o la Toscana. Naturalmente rientra nell’interesse dei lavoratori locali scacciare gli esterni. Dalla fabbrica alla taverna, i lavoratori locali circondano aggressivamente gli operai forestieri, spingendoli a consegnare una parte del loro salario come rimborso per quello che, nella loro mente, è considerato un puro furto. Se questi ultimi resistono vengono presi a pugni o a pietrate. Ogni volta che i proprietari tentano di sostituire la forza lavoro residente in sciopero, i nuovi arrivati decidono di lasciare la fabbrica subito dopo il loro arrivo, e in questa scelta giocano un ruolo importante le manovre intimidatorie dei lavoratori locali e delle loro famiglie.
Centri di solidarietà
Poiché il processo di specializzazione del lavoro rescinde i legami tra lavoratori e comunità contadina tradizionale, i primi devono trovare nuovi luoghi in cui riunirsi e stabilire legami di solidarietà su basi diverse. In questo nuovo contesto l’osteria diventa il luogo di ritrovo più importante per la comunità operaia dell’industria. Nelle taverne gli operai tessili discutono i problemi legati alla loro nuova condizione sociale e nascono nuove forme di solidarietà.
L’osteria è anche il luogo che ospita le prime riunioni della nuova società di Croce Mosso. Formalmente quella di Croce Mosso è una società di mutuo soccorso: nella sostanza il suo scopo è quello di raccogliere fondi per assistere i lavoratori nei momenti di difficoltà (malattia, disoccupazione, ecc.). In realtà, però, diviene molto più di questo. Riuniti insieme, i membri di questa associazione decidono l’orientamento politico e le linee generali del movimento operaio. È, a tutti gli effetti, uno strumento di resistenza.
Per contro, i rappresentanti dello Stato e i proprietari delle fabbriche vedono le taverne come focolai di dissolutezza e corruzione morale. Secondo loro, i lavoratori richiedono salari più alti al solo scopo di spendere il loro reddito aggiuntivo ubriacandosi. Un po’ come i politici e i datori di lavoro italiani contemporanei che sostengono che la gente preferisce oziare a casa piuttosto che lavorare per un salario miserabile, i proprietari delle fabbriche tessili alla fine del XIX secolo giustificano la loro brama di profitto denigrando l’osteria e tutte le strategie anti-sfruttamento che vengono concepite tra le sue mura.
La verità è ovviamente molto diversa. I lavoratori risparmiano parte dei loro salari per integrare i magri redditi agrari, ma investono un’altra quota del loro stipendio per autofinanziare le strategie di resistenza allo sfruttamento industriale. Un funzionario statale alle prese con indagini sugli scioperi del 1870 riferisce che i lavoratori usano i pochi soldi che ricevono dal loro datore di lavoro per sostenere il movimento degli scioperi. La loro motivazione è piuttosto semplice: «Non può esserci risparmio se non finalizzato alla lotta contro il padrone».
In reazione alla resistenza dei lavoratori, i proprietari delle fabbriche adottano il telaio meccanico e sostituiscono la forza lavoro maschile con lavoratrici. Queste ultime sono molto più economiche e (almeno in teoria) più facili da tenere sotto controllo. A differenza delle strategie precedenti, che preservano ancora una sorta di continuità tra il funzionamento della famiglia e il sistema di fabbrica, questa nuova politica disgrega la famiglia tradizionale, portando a bambini che abbandonano la scuola in giovane età, a matrimoni tardivi, al declino demografico e financo a lavoratori maschi disoccupati che emigrano per fare fortuna altrove.
Modelli di migrazione
In Terra e telai, Ramella dimostra la stretta correlazione tra cambiamenti nel regime del lavoro, alterazioni nella struttura demografica e cicli migratori. Non sorprende quindi se negli anni successivi alla pubblicazione del suo capolavoro si interessa sempre più alla vita e ai sentimenti delle persone che lasciano l’Italia alla comparsa del capitalismo industriale.
In questo particolare campo, Ramella cura con Samuel L. Baily una raccolta di lettere scritte dai membri della famiglia Sola: One Family, Two Worlds: An Italian Family’s Correspondence across the Atlantic, 1901–1922 (1988). La corrispondenza della famiglia Sola è un insieme ricco e dettagliato di documenti che fornisce una visione unica del processo soggettivo della migrazione. Il libro potrebbe essere considerato un complemento di Terra e telai, poiché descrive le vicissitudini delle persone che lasciano la propria casa per un altro paese, piuttosto che di quelle che lasciano la campagna per le fabbriche nelle aree urbane.
Nei suoi studi successivi, Ramella analizza le traiettorie delle migrazioni interne e internazionali, indagando le reti di assistenza che facilitano l’integrazione dei nuovi arrivati nella città o paese adottivo, nonché i molti modi in cui i migranti rimodellano la società di approdo. Durante il primo anno della pandemia di Covid-19, Ramella ha indagato instancabilmente anche il nesso causale tra mobilità umana e diffusione del virus. Ciò ha reso la sua morte a causa del virus il 25 novembre 2020 ancora più tragica.
Recuperare Ramella
Perché Terra e telai è stato ristampato quasi quattro decenni dopo la sua pubblicazione originale? Dal 1984 in poi, gli storici hanno migliorato enormemente la nostra comprensione del capitalismo, o meglio dei molti capitalismi esistenti. Hanno proposto nuove definizioni di cosa sia il capitalismo e delle diverse cronologie e traiettorie multilineari che portano alla formazione della moderna economia globale. Hanno anche riorientato l’attenzione degli studiosi verso argomenti come il colonialismo, la razza e la violenza, e hanno dimostrato fino a che punto l’affermazione violenta del capitalismo sia dipesa dall’intersezione di diversi meccanismi di oppressione come razza, genere ed etnia.
Nella prefazione all’edizione del 2022, Maurizio Gribaudi fornisce una motivazione convincente per il recupero dell’opera di Ramella. Nonostante il passare del tempo, Terra e telai si distingue ancora per la capacità di descrivere con accuratezza come il capitalismo industriale modificò il vivere sociale della gente comune della valle biellese nel corso del XIX secolo.
I racconti di Ramella sulla comunità agricola di Mosso dimostrano che non c’è motivo per cui un approccio all’indagine storica che si occupa di vaste trasformazioni sociali e uno centrato sulla vita e sull’esistenza delle persone comuni non possano coesistere e integrarsi a vicenda. Il compito dello storico è esplorare le connessioni tra questi due livelli di esperienza storica. L’opera di Franco Ramella è testimonianza dell’efficacia di questo approccio.
*Paolo Tedesco insegna storia all’Università di Tübingen. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia economica e sociale dalla tarda antichità all’avvento del capitalismo, e la storia agraria comparata. Scrive regolarmente su Jacobin, La Pensée, e Commons. Questo articolo, originariamente pubblicato su JacobinMag, è stato revisionato sulla base delle informazioni che Luciana Benigno ha voluto gentilmente condividere sulla biografia intellettuale di Franco Ramella, e dal lavoro editoriale di Eugenia Vitello. La traduzione è a cura della redazione.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.