Le cause perse di E. P. Thompson
Il grande storico che ha ricostruito il farsi della working class e delle sue forme organizzative ci aiuta a relativizzare la centralità del lavoro fordista e riscoprire lotte dimenticate
Nell’aprile del 1812, forse centocinquanta uomini armati di asce, martelli e moschetti presero d’assalto le officine Rawfold, nello Yorkshire, per distruggere i telai meccanici. Trovarono ad attenderli soldati e guardie private, accampati lì da settimane sotto il comando del proprietario, William Cartwright, in attesa che anche la sua fabbrica venisse coinvolta dall’ondata delle proteste e attacchi luddisti che percorrevano l’Inghilterra. Dopo ripetuti tentativi di forzare le porte della fabbrica, i luddisti si ritirarono, lasciando sul campo numerosi feriti; due morirono – dopo essere stati torturati per ottenere informazioni, si disse. Gli scontri dei Rawfold Mills entrarono subito nell’immaginario collettivo, che si divise tra considerare Cartwright come un eroe o un tiranno, e più tardi nella letteratura, finendo immortalati in Shirley di Charlotte Brontë (1849). Rimangono un episodio emblematico delle rivolte «luddiste» di inizio diciannovesimo secolo: emblematico cioè sia del loro alto grado di organizzazione e combattività, sia della durezza della repressione, sia, infine, del fallimento del movimento.
Tra i meriti del classico The Making of the English Working Class (1963) di Edward Palmer Thompson vi fu quello si sottrarre il luddismo allo stereotipo di moto spontaneo e incontrollato, di furia cieca contro il progresso, per restituirne un’immagine di movimento di lavoratori che si organizzavano, avanzavano rivendicazioni positive, creavano reti di solidarietà e attivavano repertori di conflitto. La battaglia dei Rawfold Mills fu allora non solo una sconfitta campale del luddismo, ma anche la dimostrazione della capacità di organizzazione di un movimento sociale in formazione. Attacchi e distruzioni di macchine si erano verificati lungo tutto il XVIII secolo, ma dal marzo 1811, a partire dall’area di Nottingham, non solo si erano intensificati ma si erano fatti più sistematici, preparati con cura e metodo, opera di bande armate che si muovevano tra i diversi centri e raccoglievano fondi. Tra febbraio e marzo 1812 il Parlamento varò come misura d’emergenza, con una larghissima maggioranza che abbracciava governo tory e opposizione whig, il Frame Breaking Bill, che dichiarava la distruzione dei telai meccanici crimine capitale punibile con la morte. Nel Nottinghamshire l’ondata luddista passò presto, placata al contempo dalla minaccia della repressione e dal conseguimento di risultati immediati e aumenti salariali; ma nel corso del 1812 continuò a diffondersi in altre aree industriali, ingaggiando vere e proprie battaglie con le truppe del governo e quelle degli imprenditori, fino appunto allo scontro dei Rawfold Mills. Solo intorno al 1816 il moto di rivolta sembrò esaurirsi.
Per Thompson, si trattava di rileggere la parabola del luddismo nella sua complessità ed esperienza concreta, fatta di uomini e donne che sperimentavano in prima persona il cambiamento tecnico e sociale e provavano a inventare risposte per difendersi, per difendere ciò che consideravano proprie usanze e diritti.
The Making of the English Working Class difende il suo status di classico della storiografia sulla rivoluzione industriale non solo per l’impatto che ebbe alla sua pubblicazione nel 1963 (in Italia uscì nel 1969 per il Saggiatore, tradotto da Bruno Maffi, come Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra) e per la sua duratura influenza (come interpretazione e come proposta di metodo), ma anche perché rimane ancora oggi una lettura coinvolgente e al contempo una sfida, politica e di metodo, al lettore. Nella volontà appassionata di restituire voce e dignità alle cause perse di chi aveva sofferto la rivoluzione industriale sulla propria pelle, la visione di Thompson non mancava di romanticismo – anzi esso ne era un tratto caratteristico, rivendicato, quasi come strumento euristico. Un tono romantico permeava del resto tutta la sua storia personale: familiare, accademica, militante.
Edward P. Thompson era nato a Oxford nel 1924, l’anno dopo che suo padre, missionario metodista e docente di letteratura, era rientrato dal servizio coloniale in India. Qui Edward senior si era appassionato alla letteratura indiana e, con un misto di ammirazione e persistente paternalismo (all’ipotesi dell’indipendenza preferiva quella dello status di dominion), si era avvicinato al movimento anticoloniale e aveva stretto amicizia con i suoi leader. Nell’infanzia a Oxford Thompson conobbe Gandhi, Nehru, Thomas Edward Lawrence. Nella guerra combatté carrista a Cassino, mentre suo fratello maggiore Frank era ufficiale di collegamento tra l’esercito britannico e i partigiani comunisti in Bulgaria e infine, dopo essersi coraggiosamente difeso in un processo farsa, cadeva nel giugno 1944 sotto un plotone di esecuzione. Frank era membro del Partito Comunista Britannico (Cpgb) dalla fine degli anni Trenta; nel dopoguerra Edward non tardò a emergere come uno dei principali intellettuali del Cpgb, ma lo lasciò all’indomani del 1956 per diventare un protagonista della nuova sinistra, lanciando prima la rivista The New Reasoner e poi nel 1960 la New Left Review (da cui si dimise nel 1963). Militante nella Campaign for Nuclear Disarmament dalla fine degli anni Cinquanta, si affermò come figura di spicco del movimento antinuclearista e pacifista negli anni Settanta, rimanendo devoto alla causa fino al 1993. Lo strappo del 1956 stimolò l’impegno a conciliare il marxismo con quello che definiva come «umanesimo socialista», che metteva l’accento su valori di liberazione radicali ma senza rotture rivoluzionarie; sul cambiamento sociale tramite azione diretta, più che sulla via parlamentare; su una concezione popolare e libertaria della democrazia, con una certa diffidenza verso lo stato.
Con Christopher Hill ed Eric Hobsbawm, tra gli altri, fu uno dei fondatori del gruppo di storici organizzati in seno al partito – il British Communist Party Historians Group – che contribuivano a forgiare la storia sociale «dal basso». L’impegno politico si intrecciava all’innovazione metodologica. Erano attenti ad ascoltare fonti e voci ignorate dalla tradizionale storiografia dei grandi uomini e più in generale dalla storia politica, ad auscultare le tensioni sociali che percorrevano la storia inglese in tutte le loro forme, anche le più sotterranee. Le ricerche di vari componenti del gruppo convergevano nella rilettura della storia britannica dal punto di vista delle classi popolari e nella riscoperta dei caratteri complessi e plurali del movimento operaio e della stessa classe operaia. Ciò significava non solo dare rilievo alle forme organizzative che avevano preceduto le associazioni sindacali e i partiti, ma anche attenzione a non considerarle meramente «preparatorie», non schiacciarle su una teleologia verso il movimento operaio «maturo» di fine diciannovesimo-inizio ventesimo secolo, comprenderne anzi il carattere fluido. Significava ammettere che alle origini del movimento operaio non vi erano solo operai, ma anche artigiani, ciabattini, i «calzolai radicali» che popolavano gli studi di Hobsbawm. In questa direzione andava anche Thompson: imponenti ricerche in archivi nazionali e locali, attraverso testi letterari, rapporti di polizia, canzoni, giornali e petizioni, gli permisero di prendere di petto il tema del farsi della classe operaia e delle sue forme organizzative.
Non si accontentava di descrivere un’evoluzione dal ribellismo alla coerenza, sindacale o rivoluzionaria che fosse, ma mostrava uno sviluppo complesso e fluido, attraverso tentativi diversi – dalle bande luddiste ai seguaci della profetessa Joanna Southcott, passando per la folla, la quale non poteva essere vista come soggetto meramente irrazionale. Thompson metteva a fuoco il paradosso di una cultura popolare al contempo tradizionale e ribelle: ribelle per difendere diritti e consuetudini, minacciate dal processo capitalistico in formazione, che è esperito dalle masse come sfruttamento, espropriazione, distruzione di equilibri (o di modi di vivere che, proprio in quanto minacciati, vengono guardati con nostalgia e considerati equilibri); e che spinge perciò a desiderare di conservare una società più paternalistica, anche più autoritaria, e a insorgere in suo nome. All’economia morale consuetudinaria delle classi popolari si contrapponeva l’economia di mercato in espansione – non un libero mercato, ma la creazione di nuove forme commerciali e diritti di proprietà e delle relazioni di potere che gli davano senso. Il concetto di esperienza mirava ad abbracciare sia gli oggetti più familiari alla storia economica e del movimento operaio, come salari e scioperi, sia una prospettiva originale incentrata sulle dinamiche, simboliche e materiali, della cultura e dell’egemonia. La sensibilità per la cultura delle classi popolari non comportava certo di ignorare la partecipazione degli intellettuali a queste vicende: sin dal suo primo libro (una biografia di William Morris, 1955), e poi anche contro altri esponenti della New Left, Thompson rivendicava il ruolo dell’intellettuale nel cambiamento storico, la sua missione radicale – un’immagine in cui è difficile non riconoscere l’ideale di una vita.
Lo stesso concetto di classe ne usciva chiaramente ripensato e arricchito. Non solo perché si dimostrava capace di includere dimensioni e culture diverse, si articolava in relazioni di genere (tra lavoratori e lavoratrici e nelle famiglie) e in divisioni etnico-religiose (con gli immigrati dall’Irlanda); ma anche appunto perché richiedeva l’analisi del suo concreto farsi. Era necessario risalire a un Settecento inglese segnato dalle enclosures, dalla diffusione di un’economia di mercato che nasceva all’interno delle vecchie relazioni di potere e ne creava di nuove e ibride. The Making of the English Working Class è solo il libro maggiore (anche per mole) all’interno di un percorso decennale di ricerca e riflessione. Nel saggio del 1978 La società inglese del secolo XVIII: lotta di classe senza classe? – con cui il curatore italiano Edoardo Grendi chiudeva la raccolta Società patrizia cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, uscita per Einaudi nel 1981 – Thompson scriveva: «La classe risulta dal modo in cui uomini e donne vivono le loro relazioni produttive e da come sperimentano le loro situazioni particolari entro l’insieme delle relazioni sociali, col loro patrimonio culturale e le loro speranze, e da come traducono queste esperienze in modi culturali». Affermava cioè una concezione della classe come categoria storica, piuttosto che statica.
Ciò non implicava semplicemente aderire alla coscienza dei contemporanei: era quindi legittimo parlare di lotta di classe anche per una società che si pensava – sia in alto che in basso – in termini di ceti e ordini, e al cui sistema concettuale la classe è del tutto sconosciuta. Ed era legittimo perché, per Thompson, la classe risulta da un processo di esperienza, di crescita di consapevolezza dello sfruttamento e di elaborazione di risposte, difese e alternative: la classe si forma quindi attraverso la lotta di classe, «la classe e la coscienza di classe sono sempre l’ultimo stadio – e non il primo – nel reale processo storico».
Sia in scritti metodologici come questo che nella pratica della ricerca, quello di Thompson era un marxismo empirista. Delineava un modello di notevole densità teorica – molto più ricca, probabilmente, di quanto lui stesso dimostrasse quando si cimentava direttamente nella critica alle teorie dei filosofi. Nelle polemiche con Foucault e, soprattutto, con Althusser emergeva però come la diffidenza di Thompson per lo stato fosse anche, senza soluzioni di continuità, rifiuto dell’ipostatizzione di un dominio sociale totalizzante, che tendeva a inghiottire sentimenti ed esperienze concrete degli individui in modelli di potere e di struttura. Se non esitava a incrociare le spade con il marxismo suo contemporaneo, d’altra parte, insisteva che la sua prospettiva era del tutto compatibile con quella del Capitale: la ricerca di Marx si era svolta su un piano logico, la sua su un piano storico fatto di persone che avevano animato – e plasmato – quelle relazioni. La classe si forma non come raggiungimento di un tipo ideale, ma attraverso la cultura e l’esperienza; ma è con la costruzione di relazioni di classe che acquisisce senso complessivo la formazione sociale prodotta dall’erosione di forme paternalistiche di controllo, dalla creazione dell’economia di mercato e dalla rivoluzione industriale.
Se stupisce – a maggior ragione dato che venne scritto negli anni più intensi della decolonizzazione – come The Making of the English Working Class escludesse completamente dal suo campo l’Impero (limitandosi a rilevare gli effetti delle guerre napoleoniche e del blocco continentale), d’altra parte esso ha potuto fornire un modello non rigido per indagini sulla formazione, la composizione, e il crepuscolo delle classi lavoratrici in tutto il mondo. Anche limitandosi a quello che Thompson ha scritto, ne emerge un concetto di classe come categoria storica che si propone, da un lato, come antidoto alle concezioni astratte che finiscono per trascurare o cancellare la sua concretezza, dall’altro come risposta anticipata a ogni ipotesi di decostruzione del concetto che ne contesti la capacità di comprensione.
Nella prefazione alla prima edizione, Thompson dichiarava di voler salvare dalla «terribile accondiscendenza dei posteri» il povero magliaio, il luddista, il tessitore manuale, l’artigiano utopista: i loro mestieri e tradizioni potevano essere destinati alla fine, le loro proteste disperate, ma essi vissero attraverso tempi di acute turbolenze sociali, «e noi no». Non sta forse alla ricerca storica spiegare in che misura la difesa delle consuetudini rappresentasse una ribellione ma non, in ultima istanza, un’alternativa all’altezza dei problemi posti dalla formazione del processo capitalistico: il «romanticismo» di Thompson e la sua allergia alle teleologie implicavano una certa reticenza a portare fino in fondo queste domande. Al contempo, le domande rivolte a quei tempi turbolenti potevano rivelarsi attuali anche per il 1963, e forse per oggi. Riscoprendo «alcune delle cause perse della gente della rivoluzione industriale, potremmo trovare nuovi modi di comprendere mali sociali che dobbiamo ancora sanare».
*Bruno Settis è autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (il Mulino 2016)
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