La produzione inarrestabile
Analizzando i dati sui settori rimasti in attività con il decreto del governo si scopre che almeno il 40.3% di chi lavora oggi non sarebbe necessario. Ma per fermarli serve un controllo pubblico non solo su cosa produrre ma anche su come si produce
A prescindere dal come la si pensi, il Decreto del 22 Marzo è un evento storico. Dalla sua costruzione, alle modalità di diffusione, fino alla sua effettiva efficacia, si tratta di un atto eccezionale che conferma la particolarità del tempo che stiamo vivendo. La stretta, l’ennesima in poche settimane, arriva nella tarda serata del 21 dalla viva voce del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, via Facebook. Stavolta però non si guarda alle attività dei singoli, ma a quelle produttive: la chiusura di tutto ciò che non è «rilevante». Stiamo rallentando il motore – spiega Conte – non lo stiamo fermando.
Il principio sembra andare incontro a quanto richiesto espressamente e unitariamente da Cgil Cisl e Uil nella stessa giornata: chiudere le produzioni non cruciali onde evitare ulteriori contagi. Nonostante le rassicurazioni da parte di Confindustria, infatti, gli scioperi dovuti al mancato rispetto delle norme sanitarie nei luoghi di lavoro e le denunce di abusi hanno evidenziato un problema concreto sia per quanto riguarda il rischio di contagio, sia per il contemporaneo spostamento di migliaia di persone che rischia di vanificare gli sforzi psicologici ed economici richiesti fin qui alla popolazione. Tuttavia, molta è stata la confusione di queste ore, tra il lobbismo di Confindustria e le minacce di sciopero dei sindacati. Confusione generata soprattutto dall’impiego degli ormai celebri codici Ateco – uno dei principali strumenti di analisi statistica, economica e fiscale del mondo produttivo, che però in questi giorni mostra tutti i suoi limiti nel fotografare in modo affidabile la nostra economia. Viene però da chiedersi: sono i limiti di questo strumento ad aver determinato le oscillazioni di questi giorni o, piuttosto, il modo in cui esso è stato impiegato?
Una delle ambiguità decisive emerse dal discorso di Conte è cosa debba intendersi per attività «essenziali» e quanti lavoratori sarebbero coinvolti dal blocco, che era poi la vera questione «essenziale». Mentre sul primo punto, sin da subito e per tutta la giornata successiva, sono circolate liste più o meno estese con l’elenco delle attività incluse nel provvedimento, sul secondo, ossia quante persone saranno al sicuro nelle loro case, ben pochi dati sono stati diffusi dai media ufficiali o dalle parti coinvolte. Per questo, al di là dello sforzo per individuare le dimensioni della platea che non potrà aderire al martellante invito a stare a casa, la domanda a cui provare a dare risposta non è soltanto in che modo si è giunti a questa decisione, ma anche «che cosa si sta effettivamente decidendo?».
Cosa ci dicono i dati?
Negli ultimi anni la volontà di quantificare ogni aspetto della realtà è diventata un’ossessione tanto degli scienziati quanto dei legislatori. Spesso – basti pensare al decennio dell’austerità – i numeri sono stati un vero e proprio strumento di governo, volto tanto a rassicurare la popolazione quanto a spoliticizzare ogni questione di natura economica. Eppure, mai come durante la pandemia l’informazione numerica è stata sottoposta a un tale sovraccarico di significati. I contagi, le vittime, i tamponi, le vittime, i fondi stanziati, le vittime, i letti in terapia intensiva, le vittime, le offerte, le vittime: un flusso di valori assoluti che invece di avvicinarci alla dimensione umana dei fenomeni descritti, ha finito per allontanarcene. Un’astrazione che ci spinge ad andare oltre la scala dell’umanità, come ha ben colto Fred Uhlman nel suo romanzo L’amico ritrovato. Quelli che non fanno narrativa, e con i numeri decidono e lavorano, sanno però che il valore assoluto di un fenomeno rischia di non dire molto rispetto al suo significato sociale. È forse anche per questo che sin dalle prime ore del 22 marzo diversi sono stati i tentativi per rispondere alla questione lasciata inevasa dallo stesso Conte: quante persone saranno messe in condizione di #stareacasa?
In realtà, la domanda è tutt’altro che semplice. Nonostante la produzione di dati sia diventata una costante dell’agire umano, il loro utilizzo ai fini conoscitivi dipende da coloro che determinano sia la struttura della raccolta sia quella dell’accesso ai dati stessi. Il loro utilizzo, infatti, presuppone una sequenza di azioni specifica determinata dagli scopi e dagli obiettivi che la animano. Nel quadro della ricerca pubblica, quella serie di azioni permette di comprendere la logica di un intervento normativo e prevederne gli effetti immediati. È questo, in primo luogo, a rendere la mancata individuazione della platea dei lavoratori coinvolti dal Dpcm del 22 Marzo una questione politica.
Quanti sono i lavoratori delle attività essenziali?
L’obiettivo di ridurre l’esposizione al contagio non ha nulla a che vedere con il tipo di attività svolta, piuttosto con le sue caratteristiche di svolgimento. Il punto non è l’attività in sé ma la possibilità di ridurre i contatti con altre persone durante il suo svolgimento nonché gli spostamenti necessari per compierla. In questo senso l’essenzialità di un’attività è meno interessante della possibilità di una sua realizzazione in remoto, ad esempio. Ci sono poi altri aspetti da considerare, non da ultimo il rischio fisico che l’attività comporta, che incide anche sull’esposizione dovuta a eventuali interventi di soccorso. Tali complessità spiegano in parte perché molti imprenditori avessero già optato per una riduzione della produzione, sfruttando a questo fine gli ammortizzatori sociali di sostegno al reddito messi a disposizione con il decreto «Cura Italia». L’intervento del 22 Marzo arriva invece come un’approssimazione successiva alle iniziative spontaneamente già prese. Con la continua crescita esponenziale dei contagi, le misure adottate sin qui risultano insufficienti, motivando il governo a estendere il blocco della produzione su tutte le attività non essenziali. La complessità del compito di individuare quali esse siano è stato risolto dall’ormai noto «allegato 1» comprendente 75 voci.
L’elenco è una parte del complesso sistema di codifica merceologiche delle attività produttive che conosciamo come Ateco. Più avanti si avrà modo di entrare nel dettaglio della sua origine e struttura. Per ora basti sottolineare che la classificazione merceologica riguarda le imprese e non il lavoro che si svolge al loro interno. Il codice Ateco non spiega, quasi mai, che lavoro si svolge. Può dare una mano a identificare il tipo di azienda o a individuare il campo in cui si è occupati. Per questo anche i più informati scorrendo la lista delle attività hanno incontrato difficoltà a comprendere se dovevano restare a casa o meno.
Il codice Ateco è strutturato come un albero, in cui ogni cifra indica l’ambito produttivo generale rispetto a quello più specifico individuato con le cifre successive. Questa informazione è importante perché maggiore è il numero delle cifre più è specifica l’attività da misurare, e più è difficile tradurre quell’attività in una quantificazione certa. Da un lato, infatti, anche ove disponibile, un’eccessiva puntualità nelle rilevazioni potrebbe essere lesiva della privacy dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte, dall’altro, però, la progressiva riduzione dei campioni di rilevazione nelle indagini che raccontano il lavoro in Italia espongono la misura a errori, detti campionari, che rendono sconsigliabile avventurarsi in considerazioni al di là di un certo limite.
Nei file diffusi trimestralmente per la rilevazione continua sulle forze di lavoro, l’Istat mette a disposizione tre diversi livelli di specificità delle attività merceologiche: a una e a due cifre nei file resi pubblici e a quattro cifre in quelli destinati agli enti di ricerca che, in altri termini, dovrebbero sapere come usarla al meglio. Ora, il dettaglio specificato dal Dpcm è misto. Si passa da alcune aree identificate con una sola cifra (J o K), fino ad attività identificate alla sesta. Questo basta a far comprendere come l’utilizzo della banca dati fornita dall’Istat sia un’approssimazione dell’approssimazione del numero che cerchiamo. In primo luogo, infatti, non è possibile arrivare alla specificità richiesta da una misura di contenimento dell’epidemia come questa; in secondo, per quanto solida e affidabile, quella che abbiamo resta un’indagine campionaria e non la rilevazione dell’intero universo delle imprese effettivamente esistenti. Questa strada è quella che ha portato la Fondazione Di Vittorio (istituto afferente alla Cgil) a individuare in 15 milioni i lavoratori impiegati in attività essenziali secondo la definizione adottata dal Dpcm in questione e gli interventi precedenti, in special modo quello dell’11 marzo dedicato alle attività di commercio e servizi al dettaglio di determinati prodotti.
Un tentativo diverso è stato quello svolto da Davide Dazzi, ricercatore dell’Ires Emilia-Romagna (istituto anch’esso affiliato alla Cgil), che ha scelto la via dei bilanci depositati dalle imprese, raccolti in una banca dati privata, per allestire una mappa dell’essenzialità. Nel caso specifico, questo approccio coglie la questione di fondo: se il codice Ateco descrive le imprese, allora è dall’impresa che si deve partire. La difficoltà per questa strategia è che in Italia i bilanci delle imprese sono soggetti a pubblicazione solo in determinati casi, e tanto la loro raccolta quanto la loro standardizzazione costituisce un passaggio ulteriore che non va dato per scontato.
A fare questo lavoro è la rete delle Camere di Commercio e viene reso disponibile dal sistema del Registro Imprese. Nel sito, però, solo la ricerca puntuale sull’impresa è in parte accessibile. Il microdato, invece, quello che permette di fare delle elaborazioni ad hoc aggregando le informazioni di più imprese, è soggetto a pagamenti differenziati per tipologia di informazione richiesta e numero di record estratti. Lo stesso vale per le altre banche dati che si rifanno a quella delle Camere di Commercio. Di tutt’altra origine è invece la banca dati Aida, utilizzata da Davide Dazzi nel’ambito del progetto Open Corporation e resa disponibile da Bureau van Dijk – società afferente a Moody’s – nel listino dei suoi prodotti nazionali e globali.
La scelta dell’utilizzo di questa banca dati pone non poche difficoltà relative alla sua struttura e natura. In primo luogo è uno strumento che nasce per soddisfare i bisogni conoscitivi a fini di mercato e di marketing, rivolgendosi a tipologie di utenti diverse con varie possibilità di abbonamento che ammettono gradi di copertura diversi e quindi risultati variabili. In secondo luogo, la banca dati è soggetta a due limitazioni significative: la parzialità delle imprese censite e l’aggiornamento delle informazioni contenute. Da un lato, infatti, il grado di copertura è differenziato per la tipologia d’impresa; dall’altro, l’aggiornamento incostante dei bilanci fa sì che l’informazione controllata oggi non sia più verificabile domani. Inoltre, come specifica lo stesso ricercatore, l’estrazione è fatta per «ultimo bilancio disponibile» dell’azienda e quindi tiene insieme dati riferiti a momenti diversi. Per questo, nel ragionamento che fa Dazzi, i valori assoluti sono lasciati in secondo piano rispetto ai valori percentuali.
A partire da queste limitazioni, Dazzi specifica che le imprese coinvolte nelle attività essenziali sono il 39,9% di quelle presenti nel database a cui corrispondono circa il 56,6% dei lavoratori dipendenti rilevati nei bilanci, quindi 7,5 milioni di persone. Tenendo presente che nei bilanci il lavoro considerato è solo quello dipendente – mentre quello autonomo è parte dei costi per l’acquisto di beni e servizi – il calcolo fatto dal ricercatore non può che essere parziale. Il focus del suo ragionamento, infatti, non è tanto quello di individuare il numero esatto dei lavoratori coinvolti, quanto mostrare la territorializzazione del tessuto produttivo e, quindi, la differenziazione territoriale dell’impatto del Decreto, riportandoci alle ragioni alla base dell’intervento normativo e mostrando la debolezza delle fondamenta su cui poggia.
Nel tentare di rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti, ossia il numero dei lavoratori coinvolti dal decreto del 22 Marzo, si potrebbe dire che, prendendo per buona approssimazione dell’esistente il campione presente in Aida e quindi la percentuale dei lavoratori dipendenti essenziali fornita da Dazzi (56,6%) e applicandola al numero totale dei dipendenti conteggiati nella Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro per il 2019 (18,048 milioni), il provvedimento permetterebbe di stare a casa a 10,215 milioni di dipendenti, lavoratori autonomi esclusi. Si tratta di condizioni, insomma, che rendono qualsiasi sforzo conoscitivo un esercizio di stile tardivo nei tempi, fine a sé stesso nei contenuti e inutile rispetto agli obiettivi che ci premono. D’altra parte, è speranza di chi scrive, questa approssimazione delle decisioni, e ancor più la carenza delle informazioni a disposizione dei ricercatori e dei decisori politici, è una delle tante cose che non potrà tornare a essere come prima.
Quanti sarebbero invece dovuti restare a casa?
Per poter comprendere la difficoltà di avere un chiaro metro con cui orientarsi all’interno dell’attuale economia, basta guardare alla complessità del processo che ha portato alla costruzione dei codici Ateco, coinvolgendo enti che vanno dall’Agenzia delle Entrate alle Camere di Commercio, Ministeri e persino associazioni imprenditoriali, con l’obiettivo di: «adottare la stessa classificazione delle attività economiche per fini statistici, fiscali e contributivi, in un processo di semplificazione delle informazioni gestite da pubbliche amministrazioni e istituzioni». Una tecnologia vera e propria che però incide in maniera decisiva sulla vita economica di molte imprese. Basti pensare che la stessa macchina che taglia e lucida il legno serve sia per fare le porte che i mobili; ma mentre nel primo caso il premio Inail sale perchè le porte nel sistema Ateco sono considerate «Edilizia» – un settore più a rischio – nel secondo scende. Non sorprende, dunque, che la sua stesura abbia richiesto diversi decenni di raffinazione. L’attuale versione, infatti, è datata Gennaio 2008 e va a sostituire quella del 2002, che a sua volta ha preso il posto di quella del 1991 – per non parlare degli interventi minori, anche più frequenti. Le ragioni di questo continuo aggiornamento riguardano le profonde trasformazioni che la produzione ha avuto nell’ultimo ventennio. L’innovazione tecnologica, la nascita di nuovi settori, l’ibridazione degli altri, oltre che una progressiva tendenza alla frantumazione della produzione, non potevano dunque che implicare un continuo sforzo di adattamento della classificazione.
Nonostante lo sforzo, la dinamicità delle trasformazioni sembra destinare il tentativo di fotografare l’economia compiuto da questi codici a un costante fallimento. Si pensi ad aziende come Deliveroo, che sono configurate come servizi informatici, ma anche al fatto che, nell’attuale modello produttivo basato su una rete di inter-scambi di fornitura tra le aziende, l’appartenenza a una di queste categorie non è indicativa della filiera in cui è inserita. Da un lato l’ascesa della globalizzazione neoliberista, dall’altro l’affermarsi dei modelli produttivi del just-in-time, con politiche di esternalizzazione e riduzione dei costi, hanno letteralmente stravolto il sistema produttivo, e così la capacità descrittiva del codice Ateco è oggi fortemente ridotta.
È questa complessità, secondo lo studio fatto da Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Sabattini, ad aver tratto in inganno il governo nell’arduo compito di definire le imprese essenziali. Invece «di partire dai settori fondamentali – ossia Agricoltura e agroindustria, Sanità e assistenza sociale, Ricerca scientifica e istruzione, Pubblica amministrazione, Telecomunicazioni, Servizi pubblici – e, a cascata, individuare con puntualità tutti i loro fornitori diretti ed indiretti, indipendentemente dalla branca di afferenza […] hanno incluso attività fondamentali più altre attività al loro servizio facente parti della filiera a loro associata». Se a ciò si aggiunge il lavoro di lobbying di Confindustria che ha esteso le maglie dell’elenco, ciò che si è venuto a determinare è il coinvolgimento di un numero ben maggiore di persone. Ragionando sulla base delle ore lavorative necessarie a far funzionare i settori fondamentali – non quelli che il governo definisce come essenziali – viene fuori che a una larga parte di lavoratori è stato chiesto di andare a lavorare quando non necessario. Pur con i limiti già indicati relativi all’utilizzo delle banche dati disponibili, le ore necessarie a far funzionare i settori fondamentali sarebbero appena il 31,8% del totale, mentre, quelle svolte ammesse dal decreto rappresentate dalla somma di quelle blu e rosse del grafico seguente, sono ben il 46,5%: «In pratica – concludono gli autori – ben il 40.3% di chi lavora oggi dovrebbe in realtà essere a casa». E si tratta di una sottostima, perché anche nei settori fondamentali sono compresi una serie di sottocodici che attività fondamentali non sono, oltre a non includere settori come aerospazio, petrolchimico e siderurgia che non sono inclusi nel decreto ma restano comunque attivi secondo il Dpcm.
Con tutti i limiti dell’aggregazione nazionale che non risponde alla questione del «rischio contagio», è quest’ultimo il ragionamento che ci si sarebbe aspettati per garantire il governo dell’emergenza e scongiurare la sventura di un Governo in emergenza.
Tab. 1 – Composizione degli scambi inter-industriali per filiere e attività fornitrici (ore lavorate)
Che cosa si sta effettivamente decidendo?
L’errore compiuto dal governo non è solo di natura metodologica. L’ultimo Dpcm, infatti, consente alle imprese che partecipano alle filiere produttive di quelle che il governo definisce come attività essenziali, la possibilità di continuare la propria produzione previa segnalazione al Prefetto. Un meccanismo farraginoso rispetto agli obiettivi tanto più che, nella frammentazione produttiva di oggi, consente virtualmente a chiunque di millantare una qualsiasi connessione con i settori elencati nel celebre Allegato 1. Inoltre, tale formula ricalca ancora una volta il principio secondo cui le aziende pensano di godere della più assoluta libertà nel decidere l’organizzazione del lavoro e della produzione. Ossia, il principio che sino a oggi ha guidato tanto molte delle trasformazioni nei processi produttivi, quanto le riforme del mercato del lavoro nel nome della «flessibilità» e persino le riforme fiscali che in questi anni hanno sottratto risorse preziose alla stessa salute pubblica. Non sorprende, dunque, che oltre al numero delle imprese coinvolte, questo sia stato uno dei punti di maggiore controversia per i sindacati che, nella trattativa che ha seguito la minaccia di convocazione dello sciopero da parte delle sigle confederali, sono riusciti a mitigare la questione con un ruolo consultivo.
In questo senso, il governo non ha solo sbagliato le risposte, ma anche le domande. La domanda giusta, in un momento come questo, non era se intervenire o meno nel limitare una parte della produzione, o come farlo, ma se questa dovesse temporaneamente passare sotto un controllo pubblico della sua organizzazione e destinazione o meno. L’unico modo per riuscire a rallentare la produzione, garantendo la fornitura dei servizi essenziali alla popolazione prevenendo allo stesso tempo la diffusione del contagio, è infatti programmare almeno temporaneamente l’economia: definire quantità e tipologie di prodotti necessari e da lì individuare le filiere necessarie alla sua produzione.
In altre parole, non è possibile effettuare un passaggio di questo genere rimettendo in discussione soltanto cosa produrre, ma anche come produrre, a partire da quella frammentazione creata in questi anni che ha letteralmente fatto «spiccare il volo» all’economia, rendendola imperscrutabile con le vecchie mappe a disposizione dei governi. Tra le contraddizioni che il Covid-19 sta facendo esplodere c’è anche quella di un sistema produttivo reso sempre più fragile dalla ricerca del profitto e del consenso tra gli azionisti. La scelta di tagliare stock e magazzini e di spingere verso una produzione sempre più globalizzata ha reso la produzione contemporanea «inarrestabile», perché immersa in reciproci legami di interdipendenza, ma anche ingestibile.
Per poter rallentare il motore, come dice Giuseppe Conte, è dunque necessario rimettere in discussione non solo i settori essenziali, ma anche i modelli di organizzazione della produzione e del lavoro, rendendoli non più funzionali al profitto, quindi all’impresa, ma al bene collettivo. Invece di rendere i lavoratori protagonisti di questa emergenza, impiegando le loro competenze nel ridefinire nel più breve tempo possibile una produzione al servizio della società, sono stati invece posti al margine dal governo chiedendogli solo di accettare passivamente le loro condizioni, «sacrificandosi» per il paese. Ma la romanticizzazione della quarantena è una questione di classe: non ci sono angeli o eroi, ma lavoratori e lavoratrici e come tali vanno rispettati, non sacrificati.
*Gianluca De Angelis, ricercatore sociale, è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. Marco Marrone, sociologo e attivista, è assegnista in sociologia presso l’Università di Bologna. Gli autori ci tengono a ringraziare Davide Dazzi di Ires Emilia-Romagna, i ricercatori della Fondazione Di Vittorio e Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Sabattini per i preziosi studi che hanno ispirato questo articolo.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.