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La scomparsa di Navalny e la nuova fase del putinismo
Il dissidente russo prima avvelenato e poi morto in galera era ormai una figura politica a tutto tondo: puntava a coniugare nazionalismo, liberismo e democrazia
La morte di Alexeï Navalny è destinata a fare da spartiacque per il variegato, per quanto debole, movimento di opposizione russo. È noto ormai che il dissidente ucciso dal regime (al di là dei fatti più o meno accertati dalle autopsie preordinate, la sua prigionia nella colonia penale di artica IK-3 in Siberia a questo puntava) abbia rappresentato il maggior simbolo della contestazione a Vladimir Putin e che il suo nome lasci un vuoto che non è chiaro come e da chi verrà sostituito. La moglie si è candidata a una politica di continuità, ma certamente non sarà la stessa cosa anche perché l’efficacia dell’opposizione di Navalny dipende dal suo decorso politico e, particolare probabilmente decisivo, dall’uso del proprio corpo, e della vita, contro il regime. Prima tornando in Russia dopo l’avvelenamento subito dagli sgherri di Putin, poi scontando la pena e infine con la morte del 16 febbraio.
Ma chi è davvero Navalny e come il suo raggio d’azione potrà essere oggetto di movimenti politici analoghi non è del tutto chiaro al dibattito occidentale, in un senso o nell’altro. Da un lato, infatti, chi non sopporta la retorica delle celebrazioni filo-Nato tende a sottolineare come nel campo occidentale non si sia posta analoga attenzione al caso di Julian Assange, colpevole secondo gli Usa di aver divulgato documenti riservati con Wikileaks. Un rilievo corretto perché il silenzio attorno ad Assange da parte della maggior parte della stampa è indecente, ma che rischia di mettere la sordina alla rilevanza di un oppositore politico prima avvelenato e ora morto in una cella di regime. La differenza non è piccola. Dall’altra parte, si tende a esaltare il ruolo di Navalny senza conoscere il suo pensiero politico e senza dare conto della sua complessa traiettoria che, in ogni caso, nulla toglie al simbolo che la sua scomparsa rappresenta.
Morvan Lallouet, specialista della politica russa, che ha pubblicato con Jan-Matti Dollbaum and Ben Noble Navalny: Putin’s Nemesis, Russia’s Future?, (2021, Hurst Publishers & Oxford University Press), ha ben ricordato come la sua carriera politica sia cominciata all’interno di un partito politico liberale, Yabloko, per poi abbracciare, a partire dagli anni 2000, il nazionalismo russo.Non senza aver tentato, nel 2013, la corsa a sindaco di Mosca scommettendo sulla sottovalutazione del personaggio, all’epoca, da parte del Cremlino. Navalny invece, con il 27% ottenuto senza poter fare una vera campagna capillare, dimostra in quel caso di essere un politico temibile. E infatti inizia a essere temuto.
Forse perché, in fondo, è, come sostiene ancora Lallouet, un politico di destra. Aderente al liberismo prima, al nazionalismo russo poi, un mix particolarmente ruvido in cui non mancano dichiarazioni di xenofobia contro gli immigrati provenienti dall’Asia centrale e i cittadini del Caucaso. Nel corso di una intervista video con Sergei Guriev, già direttore della Scuola di economia di Mosca, amico di Navalny per il quale aveva contribuito alla redazione del programma per la campagna elettorale di Mosca, quest’ultimo chiede: «Come osseto, come posso sentirmi un cittadino di prima classe nel mio paese? Come osseto, dovrei temere che qualcuno come te diventi il leader politico della Russia?».
Navalny risponde minimizzando i problemi, siamo nel 2017, sostenendo che «il Daghestan, è l’etnia russa e tutti gli altri gruppi contribuiscono alla diversità della società. Che tutti siano pubblicamente orgogliosi della propria appartenenza. Nel nostro paese ci sarà sempre una questione nazionale poiché il nostro paese è grande e diversificato».
Ma dalla fine degli anni 2000, di fronte alla crisi del movimento liberal-democratico in Russia, Navalny, da abile osservatore della realtà sociale, vide un’opportunità politica nel movimento nazionalista. «Alexeï Navalny non è un teorico, né un intellettuale. È un vero politico, pragmatico, cerca l’appoggio della gente e crede nel suo destino», ha ricordato nel febbraio 2021 l’accademica Cécile Vaissié, specialista in Russia e docente all’Università di Rennes. Siamo nel periodo in cui Putin ha maturato la sua svolta anti-occidentale, volgendo lo sguardo verso l’eurasiatismo, sulla base delle ideologie di Alexandre Dugin come ha ricostruito il filosofo franco-russo Michel Eltchaninoff, nel saggio Nella testa di Vladimir Putin. Moltri altri movimenti nazionalisti si formano, compresi i nostalgici di Stalin e i rossobruni di Édouard Limonov, con il partito dei bolscevichi nazionali.
Marlène Laruelle, storica e specialista delle ideologie nazionaliste nel mondo russo, in uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista Post-Soviet Affairs scrive che il progetto di Navalny sarà quello di «conciliare nazionalismo, democrazia e liberalismo».
Natalia Moen-Larsen, ricercatrice norvegese, ha realizzato uno studio che integra il lavoro di Marlène Laruelle. «In tutto il suo blog, Navalny costruisce il nazionalismo in opposizione ad altre ‘ideologie marginali’, secondo le sue parole, come il nazionalismo estremista, il fascismo e il nazismo, che collega alla violenza, alla xenofobia e ai pogrom», osserva la ricercatrice nel suo testo del 2013.
Navalny vuole farsi portavoce del «nazionalismo normale», aggiungendo e collegando l’immigrazione clandestina alla corruzione delle élite. «Smettiamo di nutrire il Caucaso» sarà una sua campagna per denunciare la corruzione e i regimi dittatoriali istituiti o sostenuti dal Cremlino.
All’inizio degli anni 2010 Alexeï Navalny capisce però che la sua notorietà non viene dalle posizioni nazionalistiche, ma dal suo blog e dalla sua battaglia contro la corruzione. Navalny acquistava pacchetti azionari dei grandi gruppi per partecipare alle assemblee, chiedere documenti e rendiconti finanziari, a un certo punto si fa anche nominare amministratore di Aeroflot.
Karine Clément, sociologa affiliata al Cnrs, interna negli anni 2000 alle lotte sindacali e civiche in Russia, scriveva nel 2021 su Mediapart, che nonostante i numerosi disaccordi avuti con Nvalny egli comunque «sollevava regolarmente la questione delle disuguaglianze sociali, dei salari deplorevolmente bassi, dello stato di decadimento delle infrastrutture e dei servizi pubblici, cosa che era l’unico a fare nell’opposizione liberale».
Dal 2015, mentre la sua notorietà continua a crescere, Navalny elabora tre punti: la lotta alla corruzione, lo stato di diritto, la democrazia attraverso libere elezioni. La capacità di puntare dritto alla testa del regime, Putin, ne fa una figura politica a tutto tondo, il principale dissidente e il suo profilo politico tende a confondersi dietro alla simbologia dello scontro complessivo, quello che in fondo lo conduce alla morte. Scrive il Movimento socialista russo, piccolo gruppo che mantiene un’attività costante di opposizione, dall’interno e dall’esterno del paese, che «Navalny è stato uno degli attori del populismo russo» precisando che «nonostante le sue credenziali di destra tendeva a problematizzare il capitalismo oligarchico, attirando l’attenzione sulla povertà e sulla disuguaglianza in Russia, distinguendo tra i russi comuni e l’assurdamente ricca cricca dominante statale russa che traeva la sua enorme ricchezza da usurpazione del potere, corruzione, acquisizione di fondi e proprietà pubbliche, torture, omicidi e guerre». Un riconoscimento quindi anche da parte chi si dichiara distante dalle sue posizioni politiche.Per quanto riguarda il futuro, il Movimento socialista è convinto che questo assassinio «è un chiaro segnale politico del fatto che il putinismo sta entrando in una nuova fase, che consente l’eliminazione fisica degli oppositori politici e, forse, di chiunque sia considerato una minaccia alla sopravvivenza del regime. Ciò significa che la vita di tutti i prigionieri politici in Russia è a rischio […] Per porre fine alla dittatura dobbiamo rafforzare la nostra solidarietà e autorganizzazione». Non sarà facile, perché non è ancora chiaro se la morte di Navalny sia comunque un «incidente» subìto dal regime o una sua dichiarata volontà di passare all’offensiva ora che anche le sorti della guerra in Ucraina sembrano più favorevoli. In questo caso, la fase che si apre potrebbe essere contrassegnata da un «terrore» interno molto più drammatico di quanto lo sia stato quello passato. Nel momento in cui si lavora per contrastare l’estensione della guerra in Ucraina e si critica, giustamente, la strategia di espansione della Nato e la logica imperialista che la sottende, abbassare la guardia sui crimini di Mosca sarebbe un errore fatale.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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