
Laboratorio (No) Ponte
La grande opera sullo Stretto di Messina non si farà mai. Eppure produce effetti concreti: in termini economici, urbanistici e repressivi
Il dibattito sul ponte sullo Stretto è molto antico e fa talmente parte delle discussioni politiche degli ultimi trent’anni che si finisce per non prestarvi più alcuna attenzione. Ma come un fastidioso rumore persistente, che a tratti dà l’illusione di essere andato via e invece si ripresenta, il progetto del ponte è sempre lì.
Suggestione utile per sparigliare le carte, soprattutto in momenti di crisi politica (Berlusconi docet), in questi ultimi anni il ponte è divenuto il cavallo di battaglia di Matteo Salvini, alla ricerca di una nuova missione, dopo quella fallimentare dei «porti chiusi» durante il governo giallo-verde, e di un efficace diversivo rispetto al disastro dei trasporti italiani, ferrovie in primis. E, in seguito alla ripresa del progetto con il Decreto ponte (decreto legge n. 35 del marzo 2023), è ricominciato quel balletto di procedure, consulenze e adempimenti preliminari che ha da sempre accompagnato l’idea del collegamento stabile tra Sicilia e Calabria, e che attualmente vede il tutto fermo in attesa di nuove valutazioni di impatto ambientale, questa volta in sede europea.
A dispetto dei nuovi interpreti, non cambia, quindi, il teatrino del ponte, così come non cambia l’articolazione delle innumerevoli ragioni di opposizione all’opera. Restano tutti i grandi temi affrontati nel corso di anni di studi, dibattiti e convegni e poi raccontati, cantati e gridati in iniziative di piazza da migliaia di persone, da un lato all’altro dello Stretto: l’insostenibilità ambientale e paesaggistica, così come quella economico-finanziaria, i nodi infrastrutturali e l’aspetto delle infiltrazioni criminali, il grande tema delle altre priorità dei territori, a fronte di una spesa stimata di oltre tredici miliardi di euro, nonché l’approccio antimilitarista, più che mai attuale, non solo a causa dei tempi in cui viviamo, ma anche dell’inserimento del ponte nel sistema di corridoi europei Ten-T. Questi ultimi sono parte, infatti, del Piano di azione per la mobilità militare 2.0, messo a punto dalla Commissione europea per rafforzare i sistemi di mobilità a uso militare, sfruttando la rete infrastrutturale per uso civile (piano che ha permesso, nell’aprile 2024, la sigla di un contestato accordo tra Rfi e Leonardo Spa). Nell’epoca del ponte di Salvini, poi, si sono guadagnate la scena due ulteriori ragioni di opposizione, la prima legata agli innumerevoli espropri previsti (non solo per la costruzione dell’opera, ma anche per l’allestimento dei cantieri) in varie zone di Messina; la seconda – meno nobile e decisamente più ambigua da un punto di vista ambientale – inerente l’ampiezza del franco navigabile e la sua incompatibilità con il passaggio delle grandi navi.
Il ponte e la Fata Morgana
Eppure, se da un lato è vero che quello del ponte è un teatrino di annunci e provvedimenti che si inseguono e si susseguono, per un’opera che nessuno pensa vedrà mai la luce (o, quantomeno, non nella sua interezza), dall’altro è anche vero che, in un certo senso, il ponte lo si sta già costruendo.
È il laboratorio ponte, ovvero quel sistema che da decenni porta con sé un immobilismo strutturale negli investimenti e nello sviluppo di intere aree del paese. In attesa del collegamento stabile, gran parte delle ferrovie siciliane sono rimaste a binario unico, in tanti casi ancora senza elettrificazione e seguendo il tracciato di epoca borbonica, mentre il sistema di traghettamento dei treni nello Stretto utilizzava fino all’anno scorso tecnologie vecchie di decenni, e addirittura il comune di Messina non riesce ad aggiornare il proprio piano regolatore, perché… aspetta il ponte. Mancati investimenti e, nel frattempo, risorse sottratte a infrastrutture, messa in sicurezza dei territori, lotta alla siccità, sanità: da ultimo, un emendamento alla finanziaria 2025, che ha tolto 1,6 miliardi di fondi di coesione a Sicilia e Calabria per spostarli sul progetto del ponte.
Come una moderna Fata Morgana, fenomeno ottico dall’aura mitica indissolubilmente legato allo Stretto, il ponte resta, sì, un miraggio, in grado però, proprio come nel mito, di generare effetti concreti e devastanti. Non solo per quanto detto sopra, ma anche per due ulteriori aspetti che, in questi ultimi due anni più ancora che in passato, sono emersi con incontrovertibile chiarezza.
Il modello Webuild
Il primo di questi aspetti è un modello di gestione delle opere pubbliche, più o meno «grandi» incentrato sul totale disinteresse nei confronti delle popolazioni locali e dei territori. Nato, non a caso, con la Legge obiettivo di matrice berlusconiana (legge n. 443 del 2001), questo approccio ha da sempre accompagnato non solo l’idea del ponte, ma anche il Tav in Val di Susa e in Trentino (dove a essere protagonista è proprio Webuild) e tante altre opere ritenute strategiche in aree diverse del nostro paese.
Mentre il progetto del ponte targato Webuild riacquistava linfa, lo stesso colosso imprenditoriale iniziava i lavori per il raddoppio ferroviario tra Messina e Catania, offrendo una chiara dimostrazione del modo in cui governi e multinazionali del cemento intendono la costruzione di opere strategiche. Il punto, qui, non è tanto quello dell’utilità dell’opera, considerato che il raddoppio era ed è reclamato a gran voce da buona parte del territorio, e in particolare da chi quotidianamente si sposta tra le due città metropolitane della Sicilia orientale. Il punto è il metodo.
Tecniche di costruzione iper-invasive, cantierizzazione diffusa di aree densamente popolate, creazione di aree di deposito di materiali di risulta in centri abitati, traffico insostenibile di mezzi di cantiere, criticità legate allo smaltimento di materiali tossici (arsenico) e conseguente rischio di inquinamento di falde acquifere. Tutte questioni che riguardano in gran parte le stesse zone che sarebbero interessate da alcuni dei cantieri più importanti per la costruzione del ponte, primo fra tutti il quartiere di Contesse, alla periferia sud di Messina – distante una ventina di chilometri dall’area in cui insisterebbe il ponte vero e proprio, quella di Ganzirri e Torre Faro, all’estremo opposto della città (giusto per dare un’idea dell’impatto dell’opera sul tessuto urbano).
Come scritto dal movimento No Ponte in occasione di un’azione realizzata, lo scorso gennaio, presso l’area di stoccaggio di terra carica di arsenico a Contesse, «quelle che saranno aree che Webuild utilizzerà ai fini della costruzione [del ponte] si sono sovrapposte a quelle utilizzate per stoccare materiale inquinato. Se avessero voluto dircelo più chiaramente non ci sarebbero riusciti. Il modello è lo stesso: la presa di possesso del territorio al fine di estrarre profitti, nessuna cura per la popolazione che abita i territori, totale esautoramento delle autonomie locali».
In aggiunta a tutto questo non si può non notare come Webuild finisca con l’accreditarsi, in un contesto come quello siciliano, caratterizzato da forti criticità sociali e ritardi infrastrutturali, come il benefattore venuto da lontano in grado di risolvere quei problemi paradossalmente creati proprio dal modello di sviluppo che la vede come uno dei principali esecutori. Costruzione di infrastrutture utili, creazione di posti di lavoro, persino la proposta di una soluzione all’annoso problema della siccità. Ma a quale prezzo? Quello, appunto, della minaccia incombente del ponte che verrà, di cantieri iper-invasivi (responsabili, peraltro, dell’assorbimento di un enorme ammontare di risorse idriche, con buona pace della siccità), di un mancato coinvolgimento con i territori e, non da ultimo, stando a quanto riportato dalla trasmissione Report, di gravi inadempienze nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici.
In questo modello di costruzione delle grandi opere c’è così poco spazio e poca attenzione per i territori e per le conseguenze che le opere hanno su di essi che alla fine il governo ha deciso di mettere nero su bianco il fatto che l’importante è fare partire i cantieri, a qualunque costo. È il contenuto del Decreto spezzatino, ovvero il decreto legge n. 89 del 2024, che prevede la possibilità di approvare il progetto «anche per fasi costruttive», vale a dire, cantierizzare quel che si può, quando si può. E se poi le risorse finiscono o emergono criticità insanabili, amen, intanto magari al territorio resta un utilissimo pilastro nel bel mezzo di una riserva naturale.
Il modello repressivo
Il secondo modello che si sta sperimentando intorno alla questione ponte riguarda il fronte della repressione. Se anche qui, come per il modello Webuild, i precedenti sono notevoli e hanno investito movimenti in varie parti d’Italia (ancora una volta con un forte legame con il No Tav in Val di Susa e in Trentino), allo stesso modo sembra esserci un salto di qualità e di intensità in ciò a cui stiamo assistendo da qualche mese a questa parte.
Questa nuova stagione di (no) ponte si inserisce, infatti, in una congiuntura politica generale fortemente repressiva, in Italia e non solo (il pensiero va subito, ovviamente, agli Stati uniti). È in questo contesto che sono stateproposte norme repressive finalizzate a colpire uno specifico movimento, come quelle contenute nel famigerato Ddl ex 1660 e transitate, con un colpo di mano e lievi modifiche, nel Decreto sicurezza, approvato dal governo nei giorni scorsi, volte alla criminalizzazione di chi protesta contro la realizzazione di «infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o altri servizi pubblici». Non che l’emanazione di norme repressive ad hoc sia novità assoluta – si pensi, ad esempio, al caso peculiare delle organizzazioni del soccorso in mare – ma per la prima volta si vuole attuare questo sistema anche in relazione ai movimenti territoriali. E il movimento No Ponte diventa un interessante laboratorio per testarne l’efficacia dissuasiva e repressiva. In una certa misura, con l’approvazione del Decreto sicurezza si è chiuso il cerchio aperto dalla Legge obiettivo del 2001: le grandi infrastrutture non devono solo passare sulla testa di chi abita i territori, ma devono anche essere messe al riparo da qualsiasi forma di protesta.
Ben prima dell’approvazione di queste norme, le avvisaglie di un nuovo modello di repressione erano già emerse anche nella gestione della piazza, come nel caso del Carnevale No Ponte dello scorso primo marzo. Gran parte dell’attenzione di chi segue le vicende del ponte si è concentrata, nei giorni e nelle settimane successive, sulle tensioni emerse in seno al movimento rispetto alla linea politica e alle pratiche della manifestazione, da una parte, e ad alcune successive prese di distanza, dall’altra. Eppure il tema vero, passato incredibilmente in secondo piano, era quello della gestione dell’ordine pubblico, con uno schieramento di reparti mobili mai visto in occasione delle pluridecennali mobilitazioni in riva allo Stretto, diversi momenti di tensione (culminati in una carica inspiegabile), che hanno repentinamente soppiantato, senza soluzione di continuità, dinamiche negoziali, di contenimento e de-escalation, e, soprattutto, con una inquietante appendice post-manifestazione.
Come se questo non fosse già abbastanza, senza precedenti e fonte di ulteriore preoccupazione è anche la repressione legale che si sta abbattendo sul movimento No Ponte. A fronte di un’azione inibitoria intentata da 104 persone contro la Stretto di Messina Spa, il tribunale delle imprese di Roma ha deciso per la non ammissibilità del ricorso, in quanto prematuro, condannando le persone ricorrenti al pagamento delle spese per l’incredibile somma di 340 mila euro. Come rilevato dalla componente calabrese del movimento, si tratta di una somma «enorme e priva di trasparenza sui criteri di calcolo, sui parametri adottati o sulle attività legali rimborsabili», che sembra avere lo scopo di «intimidire, non solo chi ha intrapreso questa battaglia legale, ma tutte e tutti coloro che si oppongono a un’opera inutile, dannosa e priva di un progetto esecutivo credibile».
Verso un nuovo laboratorio
Se, nel corso dei decenni, si è consolidata l’immagine di una Sicilia laboratorio politico – dallo Statuto del 1948 all’exploit del M5S nel 2012, passando per il milazzismo e tanto altro – il (no) ponte non ha fatto eccezione. Dall’epoca berlusconiana in poi, il progetto del ponte è stato appunto laboratorio di un modello devastante di pianificazione di infrastrutture strategiche, spreco di denaro pubblico e abbandono dei territori, nel frattempo attuato, con danni incalcolabili, in altre aree del paese. Allo stesso modo, il movimento No Ponte è stato antesignano di una lunga stagione di mobilitazioni territoriali, in grado di andare molto oltre il nucleo dell’attivismo militante, coinvolgendo larghe fette di una popolazione spesso depoliticizzata e indifferente. Mai come in questa fase cruciale, in cui assistiamo a un tentativo di rilanciare il laboratorio ponte con la sperimentazione dei modelli raccontati in queste righe, è allora necessario che prosegua e venga a sua volta rilanciato il laboratorio No Ponte, con un’intensificazione e rafforzamento della mobilitazione e dei vari repertori della protesta, dalle piazze alle università alle aule di giustizia. Ne va del futuro dello Stretto, ma anche degli spazi di agibilità democratica, in un’epoca tutt’altro che felice (anche) da questo punto di vista.
NdA: Sono molto grato a Federica Frazzetta e Ivana Risitano per i preziosi spunti di riflessione che mi hanno offerto. La responsabilità di quanto scritto e sostenuto in questo articolo resta, però, solo ed esclusivamente mia. La foto è di Enzo Bertuccelli.
*Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del diritto alla città e delle migrazioni, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso e di Mediterranea – Saving Humans ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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