
Le prove generali dell’utopia
Nel tentativo di combinare le espressioni collettive di libertà alla coercizione di massa, i festival della Francia rivoluzionaria misero in scena le contraddizioni del progetto nato il 14 luglio 1789
Durante gli sconvolgimenti legati alla presa della Bastiglia nel 1789 e alla reazione termidoriana nel 1794, la Francia ospitò centinaia di feste rivoluzionarie. Questi eventi, che vanno dalle celebrazioni nei piccoli villaggi alle mobilitazioni urbane di massa, hanno costituito senza dubbio le espressioni collettive più significative dell’era rivoluzionaria.
Storicamente senza precedenti per dimensioni e portata, il più grande di questi festival – il Festival della Federazione nel 1790, il Festival dell’Indivisibilità e dell’Unità nel 1793 e il Festival dell’Essere Supremo nel 1794 – portò a radunarsi fino a mezzo milione di uomini, donne e bambini in spettacolari performance collettive. Nella convergenza di processioni, giuramenti di massa e tableau umani, si trovò il modo di tenere insieme in un nuovo corpo politico le forze diffuse del cambiamento rivoluzionario.
L’importanza di queste mobilitazioni per i dirigenti dell’epoca emerge sia dai discorsi che pronunciarono alla Convenzione nazionale e nei comitati rivoluzionari, sia nei progetti e nelle direttive per la loro organizzazione. Di fronte a una lotta per la vita o la morte contro la reazione interna e gli eserciti stranieri, lo stato rivoluzionario schierò una quantità sbalorditiva di risorse e forze per organizzare queste celebrazioni della volonté générale. Ciò includeva l’impegno di importanti drammaturghi, compositori e artisti, in particolare il pittore neoclassico e statista rivoluzionario per eccellenza Jacques-Louis David, che fu il principale direttore creativo dei più grandi e audaci festival del periodo giacobino.
Combinando le espressioni collettive di libertà con la coercizione di massa, questi eventi sono la più chiara dimostrazione delle contraddizioni del progetto rivoluzionario. Mettevano in scena gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, ma al tempo stesso servivano anche a ordinare e disciplinare la folla. Diedero espressione simbolica ai desideri di giustizia contro le iniquità dell’ancien régime, ma erano utilizzati per contenere e dirigere le espressioni spontanee di lotta. Inoltre, rappresentarono i primi tentativi di creare una forma d’arte partecipativa liberata, che prefigurava l’uso moderno dell’arte come propaganda.
Il mondo rinato
La legittimità della leadership rivoluzionaria dipendeva dalla sua capacità di realizzare le richieste di trasformazione che erano sorte dall’insurrezione popolare. Nel perseguire questi obiettivi, i dirigenti della rivoluzione coniugarono alla preoccupazione illuminista di stabilire regole il desiderio millenarista di ricominciare il mondo. Ciò comportò non solo l’eliminazione dei diritti e dei privilegi della nobiltà e l’emancipazione dei servi e degli schiavi, ma la revisione dei concetti di tempo e spazio.
La mappa francese venne ridisegnata, divisa in una scacchiera di dipartimenti geograficamente uguali, privi di considerazione per l’identità culturale o la topografia fisica. I vecchi pesi e misure furono sostituiti dal sistema metrico di nuova concezione, e questa logica di uguaglianza matematica fu estesa al tempo: i giorni furono divisi in dieci ore di cento minuti, le settimane in dieci giorni e i mesi – a loro volta ribattezzati poeticamente – in blocchi di trenta giorni.
Il mondo stesso rinacque; dopo il rovesciamento della monarchia nell’agosto 1792, il calendario ricominciò con l’anno 1 della nuova era. Erano finiti i giorni dei santi cattolici e le feste e i rituali di accompagnamento che in precedenza avevano scandito l’anno; le lacune furono colmate con mobilitazioni laiche in onore dei nuovi ideali rivoluzionari.
Icone rivoluzionarie
I partecipanti a questi festival si trovarono in un ambiente completamente nuovo. Uomini e donne si incontravano come citoyen e citoyenne, le distinzioni di ricchezza erano oscurate da nuovi ornamenti – pantaloni lunghi, berretto frigio, grembiule greco-romano – e le strade e le piazze che attraversavano ricevettero nuove denominazioni. Tuttavia, queste mobilitazioni non erano senza precedenti: gli organizzatori si ispirarono esplicitamente all’idealizzazione delle rievocazioni civiche svizzere di Jean-Jacques Rousseau nella sua Lettera a d’Alembert del 1758. In quel testo Rousseau inveiva contro la «prigione» del teatro, e celebrava il popolo libero che si univa comunitariamente all’aria aperta: «Pianta un ramo coronato di fiori in mezzo a una piazza, raduna lì il popolo, e avrai un festival. Ancora meglio: rendi gli spettatori uno spettacolo; trasforma in attori loro stessi; fa’ che ciascuno veda e ami sé stesso negli altri».
Spinti dal desiderio di trascendere l’instabilità e il periodo rivoluzionario, pur propagandando i suoi ideali, gli organizzatori guardavano anche alle tradizioni dell’arte religiosa. Come ha sostenuto la storica Mona Ozouf, in queste feste la nozione di «sacro» era centrale. Riflettevano il tentativo di trasferire l’esperienza della catarsi religiosa nel nuovo contesto laico e politico. In nessun luogo ciò era più evidente che nelle feste in onore dei martiri rivoluzionari, sulle quali esercitava il controllo il pittore David. Nel festival in onore del politico giacobino assassinato Louis-Michel le Peletier, David impiegò una piattaforma a struttura piramidale per elevare il corpo del deputato in una composizione che evocava chiaramente la posizione di Cristo nella Pietà di Michelangelo.

Vizille, Musée de la Révolution française.
David recuperò questo motivo con effetto sorprendente nel suo dipinto del 1793 di Jean-Paul Marat. Qui la pelle del giornalista radicale assassinato, in realtà afflitto da psoriasi cronica, diventava bianca d’alabastro: un santo laico che sale attraverso le tenebre al pantheon degli eroi caduti. Il dipinto venne svelato cerimonialmente come un’icona religiosa al culmine della festa commemorativa per Marat, con i partecipanti che giuravano all’unisono di combattere per la repubblica, anche fino alla morte. In questo modo le feste dei martiri rimodellarono le metafore dell’iconografia religiosa per trasfigurare i luminari della rivoluzione morti in astrazioni universalizzate, incarnazione dell’ideale del sacrificio pubblico.
Ordine e carnevale

Al centro delle feste rivoluzionarie c’era questa tensione tra l’ideale rousseauiano di una cittadinanza liberata che ballava in un ambiente pastorale e la spinta didattica a educare e organizzare le masse. Per l’orchestrazione di questi eventi servirono livelli di coordinamento sbalorditivi; furono inviate commissioni ai distretti delle maggiori città e dei paesi di provincia con calendari dettagliati degli eventi previsti e ordini precisi su tutto; dai vestiti indossati dai partecipanti alle canzoni da intonare. Furono costruiti altari temporanei, statue e anfiteatri, mentre gruppi di cittadini furono organizzati in colonne in marcia, spettacoli teatrali e cori di massa.
Ciò non dovrebbe suggerire, tuttavia, che nei festival mancasse il lato spontaneo. In effetti, l’impulso originale per le feste rivoluzionarie venne dall’emergere di celebrazioni civiche ad hoc in tutta la campagna dopo la presa della Bastiglia. Queste feste campestri, che si svolgevano al di là dell’occhio vigile della capitale accentratrice, conservarono il loro carattere più satirico e carnevalesco per tutto il periodo rivoluzionario.
Una di queste feste rurali era guidata da un maiale che i contadini avevano vestito con abiti reali con Bibbie e crocifissi legati alla coda. In altre feste campestri le effigi di nobili e chierici venivano sfilate a rovescio a dorso di asini o bruciate o decapitate nella piazza del paese. Le feste urbane fornivano altre occasioni di iniziativa spontanea, anche se solo per gli uomini. In nome dello spirito di «fratellanza», gli abitanti delle città pubblicarono opuscoli che elencavano i migliori bordelli di Parigi, inclusi indirizzi, prezzi e servizi offerti.
Lo spettacolo della storia
Se studiate cronologicamente, le grandi feste urbane sembrano, in un primo momento, mostrare una graduale eliminazione della spontaneità popolare, stabilendo al suo posto un modello di unità nazionale fortemente irreggimentata. Ma un’interpretazione del genere è troppo semplicistica, perché non coglie la complessità della radicalizzazione del progetto rivoluzionario tra il 1790 e il 1794 e il ruolo mutevole svolto dalle feste in questo processo.
Il primo grande festival, il Festival della Federazione il 14 luglio 1790, tenutosi per commemorare l’anniversario della presa della Bastiglia e l’istituzione di una monarchia costituzionale, registrò oltre 350 mila partecipanti. Incentrato su un vasto anfiteatro sul Champ de Mars, la cui rapida costruzione venne resa possibile dal lavoro volontario di migliaia di parigini, il festival consentì l’espressione collettiva della gioia e della speranza scatenate dalla prima ondata del periodo rivoluzionario.

Dall’Altare della Patria al centro dell’anfiteatro le parole di un giuramento alla nuova Francia vennero innalzate per mezzo di un microfono umano, con file e file di partecipanti che facevano eco alle parole di quelli che stavano dietro di loro. Quando le nubi temporalesche si addensarono sulla città e la pioggia cominciò a scrosciare, i servitori iniziarono a danze vigorose, la danza al suono della giga si diffuse rapidamente tra la folla fino a coinvolgere una folla di circa sessantamila persone.
Il Festival della Federazione era stato un affare relativamente ad hoc: la sua teatralità si basava in gran parte sullo spettacolo di riunire le persone in un raduno di massa, molti dei quali si incontravano faccia a faccia per la prima volta nella loro vita. In apparente contrasto c’era il Festival dell’Indivisibilità e dell’Unità del 1793. Qui, i partecipanti vennero guidati attraverso stazioni simboliche posizionate in tutta Parigi nel corso una processione della durata di un giorno, in onore dell’istituzione della Repubblica francese e della ratifica della Costituzione radicale del 1793, scritta principalmente da Robespierre e Louis Antoine de Saint-Just.

David aveva pianificato meticolosamente lo scorrere di quella giornata. Un programma di dieci pagine venne pubblicato e distribuito all’esercito e alle autorità locali per guidare la folla attraverso la città. Ogni stazione del percorso della processione era sovraccarica di simboli e gli eventi della giornata erano animati da canti, musica e fuochi d’artificio.
La giornata cominciò all’alba tra le macerie della Bastiglia, dove era stata eretta una statua a somiglianza della dea egizia Iside. Al suono di un coro di fanciulle vestite di bianco e di una raffica di colpi di arma da fuoco, 86 commissari delle assemblee regionali bevvero a turno l’acqua che usciva dai seni della dea, prima di salutarsi con un bacio fraterno. Nella seconda stazione le attrici rievocarono la Marcia delle donne a Versailles dell’ottobre 1789 e posero allori sulle teste delle partecipanti reali a quell’evento.
La folla avanzò poi verso il luogo dell’esecuzione del re Luigi XVI, Place de la Révolution. Qui c’era una statua della Marianne, signora della libertà, accanto a un tumulo di simboli della monarchia deposta. I commissari diedero fuoco ai simboli della tirannia mentre migliaia di colombe che trascinavano nastri venivano lanciate in aria. Nella quarta tappa venne eretta una grande statua di Ercole che sconfigge un’idra – la patria francese che sconfigge il federalismo – al posto di una statua al re Luigi XV. Aveva in mano un fascio di picche, l’arma preferita dei sanculotti, i fanti della rivoluzione delle classi inferiori.
I festeggiamenti raggiunsero il culmine al Campo di Marte, dove gli inservienti lasciarono offerte all’Altare della Patria, e la nuova Costituzione, scolpita su tavolette, venne innalzata in mezzo ai colpi di cannone. Secondo quanto riferito, l’effetto sulle folle presenti fu elettrizzante e festival simili basati sui progetti elaborati da David furono organizzati in tutta la Francia.
Nuova fede
L’evento più grande e stravagante del periodo rivoluzionario ebbe luogo l’8 giugno 1794: il Festival dell’Essere Supremo. Qui la gente non veniva semplicemente condotta in processione in mezzo a una serie di spettacoli partecipativi. Piuttosto, attraverso uno sforzo senza precedenti di organizzazione di massa, i cittadini stessi diventarono lo spettacolo: un coro di cinquecentomila persone. Piuttosto che commemorare gli sviluppi passati come avevano fatto i suoi predecessori, questo festival servì invece a inaugurare una nuova religione, la rivoluzione fatta-fede, il Culto dell’Essere Supremo.
Il festival si svolse tra le Tuileries e l’ex sito del Champ de Mars, ribattezzato Champ de la Réunion. Alle Tuileries, Robespierre tenne un discorso lodando la rivoluzione con toni da Antico Testamento, prima di dare fuoco a una statua infiammabile che simboleggiava l’ateismo, l’egoismo e altri vizi. Qui venne posta una statua colossale della Ragione.

La cittadinanza si riunì poi al Champ de la Réunion, dove un pilastro di cinquanta piedi sormontato da una statua di Ercole si ergeva accanto a una vasta montagna artificiale coronata dall’albero della libertà. In ognuno di questi luoghi le folle si univano al canto: alle Tuileries, in un nuovo inno all’Essere Supremo, e al Champ de la Réunion con una versione riformulata de La Marsigliese.
Il festival simboleggiava il tentativo dello stato guidato dai giacobini di tracciare una via di mezzo tra un ritorno al cristianesimo e il vero e proprio ateismo delle fazioni più fanatiche della Convenzione Nazionale. Il clericalismo fu esplicitamente respinto e il dio della dottrina cattolica fu sostituito con il dio dell’Illuminismo. La nuova divinità era, a quanto pare, un repubblicano il cui culto poteva essere intrapreso attraverso feste e guerre rivoluzionarie, come disse Robespierre nel suo comizio alla festa: «O Popolo, consegniamoci oggi, sotto i Suoi auspici, ai giusti trasporti della festa. Domani ritorneremo al combattimento contro il vizio e i tiranni. Daremo al mondo l’esempio delle virtù repubblicane. E questo sarà un modo di onorarLo ancora».
Organizzare mezzo milione di persone che cantano una canzone non fu un’impresa da poco. Per affrontare questa sfida, David scrisse un piano dettagliato per il luogo in cui diverse sezioni del pubblico sarebbero rimaste in piedi e avrebbero cantato. Il coro era guidato da un gruppo di 2.400 cittadini, uomini e donne, composto da cinquanta cantanti provenienti da ciascuno dei quarantotto distretti di Parigi. Questi cori, posizionati di fronte alle rispettive folle, cantavano una strofa al suono di una tromba, prima che il pubblico addetto riprendesse a cantare la strofa. La fine di ogni canzone era segnata dal fuoco dei cannoni, a quel punto l’intera canzone veniva recitata di nuovo all’unisono. In preparazione del festival, il piano venne stampato e consegnato agli amministratori locali e alle rispettive compagnie di cantanti. Copie dei testi delle nuove canzoni furono distribuite in luoghi pubblici in cambio di un piccolo compenso.
Utopia sotto tiro
Sarebbe fin troppo facile leggere questi sviluppi, in linea con la più suscettibile storiografia liberale della rivoluzione, come un riflesso del progressivo tradimento degli ideali del 1789: un tempo le folle si radunavano in spontanee celebrazioni, poi sorsero invece colossali comizi politici dove tutti (letterati o altro) dovevano leggere dallo stesso libro di canzoni.
Ma un’interpretazione del genere ignora che la situazione fosse completamente cambiata tra il 1790 e il 1794. Il re Luigi XVI, che aveva giurato solennemente al Festival della Federazione di onorare la nuova Costituzione, si rimangiò la promessa e nel 1791 cospirò con potenze straniere ed emigrati nobili per rovesciare la rivoluzione. La libertà fu attaccata dalle truppe monarchiche straniere: tra il 1792 e il 1794 la Francia repubblicana dovette affrontare una guerra crescente su tutti i fronti mentre Prussia, Austria, Portogallo, Spagna, Russia, Paesi Bassi e Gran Bretagna entrarono nel conflitto. Scoppiò la guerra civile, con una rivolta monarchica nella regione della Vandea e una serie di omicidi contro la leadership rivoluzionaria.
Sebbene il Festival della Federazione avesse ospitato autentiche espressioni di sentimento pubblico, venne orchestrato anche come conclusione simbolica del processo rivoluzionario. Eppure la pace sociale che cercava di presentare era solo di facciata. Il governo aveva ordinato che i partecipanti si recassero all’evento a piedi, piuttosto che a cavallo e in carrozza, nel tentativo di oscurare le differenze di ricchezza e potere. Ma le disuguaglianze c’erano ancora; per un giorno la nazione sembrava unita e alla pari, ma si svegliava la mattina dopo per scoprire che le relazioni sociali del vecchio ordine erano ancora intatte.
Gli osservatori moderni potrebbero vedere il simbolismo del Festival dell’Indivisibilità e dell’Unità come esagerato, ma serviva a uno scopo chiaro; magnificando le realizzazioni della folla rivoluzionaria e poi consentendo che ci si potesse rivedere. Le stazioni della processione onoravano coloro le cui azioni avevano reso possibile la rivoluzione, le marciatrici della reggia di Versailles e le militanti operaie dei sanculotti.
Sebbene altamente irreggimentato, il corteo era organizzato in maniera radicalmente egualitaria; mentre i deputati della Convenzione nazionale marciavano insieme, uguale spazio era dato alle falangi di orfani, bambini ciechi e veterani. Tra questi diversi gruppi erano organizzate folle diverse tra cui funzionari locali, artigiani, contadini e africani neri, la cui libertà dalla schiavitù era sancita dalla nuova Costituzione.
Sollevare le persone
Nuove realtà comportarono nuove necessità. Le conquiste della rivoluzione non potevano essere protette solo da belle parole. Le guerre rivoluzionarie contro le monarchie straniere esigevano che l’apparato statale venisse trasformato in una forza in grado di sostenere guerre prolungate su più fronti, gli eserciti popolari si costituivano attraverso la coscrizione di massa (levée en masse) e l’emanazione della democrazia radicale prevista dalla Costituzione del 1793 messa in attesa fino al conseguimento della vittoria.
La rivoluzione propose l’ideale utopico di una società armoniosa in cui la vita buona può essere raggiunta da tutti, ma la realtà che i rivoluzionari dovettero affrontare fu quella delle privazioni materiali, dell’instabilità politica e dei conflitti armati. Le feste servivano alla mobilitazione necessaria per difendere la rivoluzione, perché consentivano una prova generale del tipo di società per cui si batteva contro ostacoli insormontabili.
Mentre è facile lodare le celebrazioni spontanee e contrapporle a una maggiore organizzazione statale della popolazione, il pubblico rivoluzionario si era dimostrato capace di molto più che pittoresche danze popolari. I moti spontanei che avevano segnato le congiunture della rivoluzione furono caratterizzati dalla violenza popolare contro coloro che venivano percepiti come ostacoli alla rivoluzione: nelle campagne i contadini si vendicarono dei proprietari terrieri e nel settembre 1792 folle armate invasero le carceri, giustiziando oltre mille detenuti ritenuti colpevoli di attività controrivoluzionaria. Come ha sostenuto la storica Sophie Wahnich, questi eventi fornirono il pretesto al terrore giacobino, con i tribunali rivoluzionari che fungevano da valvola di pressione su scoppi spontanei di violenza rivoluzionaria, saziando la richiesta popolare di punizioni e fornendo protezione contro coloro che, si presumeva, si sarebbero vendicati in maniera ugualmente violenta se la rivoluzione avesse dovuto fallire.
Eppure il Terrore ha anche fornito allo stato giacobino l’opportunità di combattere le rivendicazioni più radicali lanciate dalla rivoluzione francese. Gli Hébertisti e gli Enragés, che chiedevano entrambi una radicale redistribuzione della ricchezza e l’eliminazione della religione, furono epurati e la Società proto-femminista delle donne repubblicane rivoluzionarie fu sciolta, con tutti i club politici femminili dichiarati illegali. In questo contesto, il Festival dell’Essere Supremo può essere visto sia come un tentativo di dare una rappresentazione simbolica alla richiesta popolare di uguaglianza radicale, sia come tentativo di legare le masse al progetto giacobino e precludere le richieste più radicali.
Nel suo conciso congedo del festival, lo storico inglese Simon Schama paragona questa messa in scena di massa di inni alla giustizia e alla sovranità popolare, alla suprema espressione del nazismo, scrivendo che Albert Speer, colui il quale lavorava per Hitler, «non fu il primo a progettare un’ideologia architettonica attorno al colossale collettivismo». Tuttavia, questo sentimento non sembra essere stato condiviso dai presenti. Tra i resoconti al festival il sentimento prevalente era quello dell’empowerment collettivo, come ha affermato un giovane lavoratore parigino, il coro del festival «sembrava sollevare le persone fino alla vera altezza del loro potere».
Le strade svuotate
Questa vetta di potere popolare non sarebbe mai più stata raggiunta. Il 27 luglio 1794 Robespierre e gli altri principali rivoluzionari furono arrestati e condannati a morte, e il potere politico passò nelle mani del Direttorio. La tensione tra agenzia popolare e mobilitazione statale si era sciolta saldamente a favore di quest’ultima. Quando il terrore giacobino lasciò il posto al terrore bianco, la reazione termidoriana condannò a morte i capi della Comune di Parigi e dissolse violentemente i club e le associazioni rivoluzionarie.

Il nuovo governo cercò ardentemente di utilizzare le feste per sostenere la propria autorità, istituendo un comitato permanente per la loro organizzazione e tentando di imporre un estenuante ciclo annuale di festività annuali e settimanali. Tuttavia, mentre le feste rivoluzionarie avevano attinto agli elementi più estatici e trascendenti dell’iconografia religiosa, le nuove feste attingevano agli elementi più tetri di un piovoso servizio domenicale. Furono diffusi libri con inni civici e ai partecipanti vennero offerte lunghe lezioni moralizzanti sulle virtù dell’amministrazione in carica. Le nuove feste suscitarono poco entusiasmo, come afferma un rapporto del Dipartimento della Senna, le nuove celebrazioni non offrivano «né grandiosità né interesse né utilità».
Questo crollo dell’impegno popolare per i festival ha coinciso con la fine della partecipazione popolare alla rivoluzione. La promessa del suffragio universale (maschile) sancita dalla Costituzione del 1793 fu scalfita; rimpiazzata da un sistema che limitava i diritti di voto a coloro che possedevano proprietà e un reddito considerevole; l’impennata dei prezzi dei generi alimentari generò impoverimento diffuso mentre gli speculatori si assicuravano profitti cospicui; e i sanculotti, strenui difensori dei poveri, vennero ignobilmente disarmati.
Le feste rivoluzionarie del 1790-94 avevano celebrato il popolo come artefice della rivoluzione, invogliandolo a progredire, ma anche limitando (nel bene e nel male) i suoi impulsi più autonomi e tumultuosi. Questi eventi si rivelarono come genuinamente popolari perché avevano articolato, attraverso la performance collettiva, la speranza di un’organizzazione della società radicalmente diversa.
Le feste del Direttorio, invece, offrivano la chiusura simbolica del periodo rivoluzionario e la fossilizzazione delle sue parole e dei suoi simboli. La partecipazione a queste nuove feste era a detta di tutti, pietosamente bassa, in costante calo sotto il Direttorio, nonostante l’approvazione di una legge disperata (inapplicabile) nel settembre 1798 che la rendeva obbligatoria. Senza qualsiasi coinvolgimento significativo nella vita politica, il popolo francese si espresse nell’unico modo che gli è rimasto: andandosene.
*Dominic Mealy, vive tra Berlino e Malmö. È un dottorando in storia economica all’Università di Lund e membro del Vänsterpartiet, il partito della sinistra svedese. Questo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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