L’era della convergenza tra lavoro e clima
Dopo il fallimento della Cop 28 di Dubai, un bilancio a trent'anni dalla Convenzione sui cambiamenti climatici Onu. Dal punto di vista del rapporto tra giustizia ambientale e lotta di classe
Subito dopo la fine della Cop28, la Conferenza delle Nazioni unite sul cambiamento climatico svoltasi nei giorni scorsi a Dubai, abbiamo parlato con Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi, dei quali è appena uscito il saggio L’era della giustizia climatica (Orthotes, 2023) che segnala proprio «la progressiva disintegrazione della governance climatica transnazionale guidata dalle Nazioni unite».
Nel ricostruire la storia di ciò che avete chiamato «metamorfosi della giustizia climatica», date conto in primo luogo del fallimento del sistema delle Conferenze delle Parti (Cop), una débacle tangibile non solo per gli immensi ritardi sulla tabella di marcia verso il contenimento della temperatura sul pianeta firmata nell’accordo di Parigi nel 2015, ma anche e soprattutto per l’andamento – una crescita preoccupante – delle emissioni di CO2 nell’atmosfera registrato dal 1990 a oggi. Quale bilancio possiamo tracciare di questi primi trent’anni di «governo globale del clima»?
Emanuele Leonardi: Il sistema delle Cop è nato negli anni Novanta assumendo il registro politico della mitigazione, ponendosi cioè l’obiettivo di ridurre – prima a livello relativo, poi a livello assoluto – le emissioni di CO2-equivalente. È bene specificare che si tratta di una discontinuità forte rispetto al passato: fin dalla seconda metà degli anni Settanta erano noti gli effetti nocivi del riscaldamento globale, ma rimaneva controversa la loro origine antropica. In contesto di Guerra fredda, poi, l’idea di un rallentamento della logica produttivistica era fuori discussione. Tanto gli Usa quanto l’Urss, quindi, indirizzarono quote della propria spesa pubblica verso misure di adattamento volte alla riduzione del danno climatico.
C’è poi un’altra precisazione da fare: il tratto peculiare del sistema delle Cop è l’idea che, benché il riscaldamento globale sia da considerarsi un caso tipico di fallimento del mercato (a causa dell’incapacità di contabilizzare correttamente le «esternalità negative», vale a dire le emissioni in eccesso), esso sia risolvibile solo attraverso la creazione di nuovi mercati in grado di «dare un prezzo alla natura». Una volta mercificata l’atmosfera – nascono così permessi e crediti di carbonio, ma anche le forme di pagamento dei servizi ecosistemici – sarà possibile costruire uno spazio finanziario che mostrerà a tutti gli attori, pubblici e privati, la redditività della green economy. Doppia promessa, dunque: più profitti, meno emissioni.
Crediamo sia legittimo chiedersi, a quasi trent’anni dall’istituzione della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici: quali effetti hanno prodotto queste politiche? Dal lato dei profitti, c’è poco da stare allegri. Basta confrontare le stime dei primi anni Duemila e i volumi d’affari attuali per capire che parliamo di mercati assai poco performanti. È però dal lato delle emissioni che si deve parlare di vera e propria débacle: infatti, tra il 1990 – anno base del Protocollo di Kyoto – e il 2019 è stata emessa più CO2-equivalente di quanta non ne sia stata emessa tra il 1750 e il 1990. Insomma: da quando abbiamo una politica mondiale di contrasto al riscaldamento globale, non solo le emissioni non sono diminuite, ma il tasso di emissione è aumentato come mai in precedenza.
Nella vostra ricostruzione delle tappe dell’evoluzione dei movimenti per la giustizia climatica – «dal Summit della Terra all’ammutinamento di Greta Thunberg» (1992-2018) – raccontate della loro rinuncia, proclamata dal discorso di Greta a Katowice nel 2018, a considerare le Cop spazi credibili per negoziare la fuoriuscita dall’economia e dall’energia fossile e del loro ritrovato orientamento verso le mobilitazioni e i movimenti sociali. Da lì, le strade e le piazze degli scioperi climatici del 2019 e una nuova stagione di attenzione, organizzazione e sperimentazione attorno alla saldatura tra giustizia ambientale e sociale. Ricordiamo la grande manifestazione a Glasgow durante la Cop del 2021 e anche alla Cop28 si è provato a manifestare per il cessate il fuoco su Gaza. In generale però la comunità in lotta per la giustizia climatica investe oggi su altri spazi e parole d’ordine. Quali sono le caratteristiche più interessanti di questo cambio di passo nelle mobilitazioni ecologiste e quale spazio resta, se resta, per una traiettoria di internità ai summit globali come quello appena concluso negli Emirati Arabi Uniti?
Paola Imperatore: L’esistenza di un consesso internazionale in cui si discute e si prendono decisioni condivise per affrontare la crisi climatica è fondamentale per dare una risposta globale a un fenomeno che è intrinsecamente globale. In questo senso, la relazione tra il mondo ecologista, nelle sue tante sfumature, e il sistema delle Cop resta vivo, ma in termini radicalmente diversi rispetto a come lo abbiamo conosciuto nel trentennio precedente.
Come evidenziava prima Emanuele, i trend di emissione di CO2-equivalente mettono in chiaro che in trent’anni di Cop la situazione non solo non è stata contenuta, ma è addirittura peggiorata. Questo non perché – nonostante le buone intenzioni – qualcosa è andato storto, ma esattamente per via delle intenzioni di chi governa, ancorate alla mercificazione della natura come risposta al problema ecologico.
Da questa consapevolezza, nasce il radicale ripensamento del ruolo che il movimento climatico deve assumere nei confronti della governance climatica, e che trova la sua più potente espressione nella rottura che si verifica alla Cop24 di Katowice, nel 2018. Se sino a quel momento, molte delle organizzazioni che si richiamavano alla giustizia climatica avevano una «prossimità critica» al sistema delle Cop – ovvero una posizione che riconosceva la legittimità del quadro negoziale basato sulle Conferenze delle Parti pur criticandone al contempo le fin troppo timide risposte – con la Cop24 e il discorso di Greta Thunberg si chiude questa fase e se ne apre una nuova che abbiamo definito di «contestazione aperta». Si tratta di una svolta epocale perché per la prima volta si dice con chiarezza che questo modello di governance climatica è fallimentare non solo nei suoi risultati ma anche nelle sue premesse, che sono quelle di internalizzare i costi della crisi climatica attraverso il mercato. E si prende atto che «implorare i leader mondiali» non ha senso perché «ci avete ignorato in passato e ci ignorerete ancora».
Il sistema delle Cop continua a esistere, a essere presidiato dai movimenti climatici e dalle organizzazioni ambientaliste (come avvenuto in questi giorni a Dubai), ma si sposta l’ago della bilancia: non saranno i leader mondiali chiusi nei loro palazzi climatizzati a risolvere dall’alto il problema, ma saremo noi, dal basso, nelle piazze, a imporre – attraverso nuovi rapporti di forza costruiti con la mobilitazione e le alleanze – un’inversione di rotta. È questo l’effetto-Greta di cui parliamo nel libro.
L’idea di uno «sviluppo sostenibile», di un cammino comune tra protezione ambientale e sviluppo economico, in cui proprio la tutela del pianeta possa essere trasformata in un nuovo mercato su cui scambiare nuove merci, è in crisi ma non ancora del tutto espulsa dal dibattito politico ed economico. Come durante le precedenti Cop, resta centrale la possibilità di dare un prezzo alla natura e mercanteggiare in permessi o crediti di emissione di CO2-equivalente, così come la tensione tra abbandono (Phase out) o riduzione (Phase down) dei combustibili fossili, oppure la rinuncia solo a quelli impossibili da compensare con sistemi di cattura dell’anidride carbonica (Unabated). Inoltre, a Dubai il nucleare ha trovato spazio nel documento finale: l’idea è quella di triplicare il suo apporto alla produzione di energia entro il 2050. Quali considerazioni, assodate o inedite, ci consegna questa tenuta sul fronte delle energie tradizionali e sulla fiducia nelle dinamiche di mercato?
Emanuele Leonardi: L’impressione è che dalla Cop26 di Glasgow (2021) in poi, il sistema delle Cop stia avvicinandosi sempre più al registro politico dell’adattamento, con una progressiva messa ai margini della mitigazione. In altre parole: perduta la scommessa del connubio più profitti/meno emissioni, rimane l’ovvia preminenza dell’accumulazione di capitale, a discapito delle preoccupazioni ecologiche. In questo contesto, tornano di gran moda le soluzioni tecnologiche – il nucleare, certo, ma non solo: nel documento finale della Cop28, denominato Global Stocktake, si torna a parlare di «carburanti di transizione» e si dedica uno spazio senza precedenti alla geo-ingegneria. Il riferimento all’allontanamento dai combustibili fossili – «transitioning awa from fossil fuels» – è talmente blando da suonare beffardo: né phase out né phase down. Chi parla di accordo storico davvero non conosce vergogna.
Resta invece da capire se e in che misura un sistema nato per «mitigare» attraverso la centralità del mercato (finanziario) possa reggere assumendo come orizzonte esclusivo quello di facilitare la tecnologia dell’«adattarsi». Da questo punto di vista, il testo partorito dalla Presidenza della Cop – incarnata da un petroliere, non dimentichiamolo – va letto come un sismografo. Le spinte conservatrici sono fortissime – e si condensano nella scelta di Baku, Azerbaijan, come sede del prossimo appuntamento: per il terzo anno consecutivo i negoziati si terranno in uno Stato le cui entrate dipendono primariamente da fonti fossili – ma non mancano elementi di potenziale contro-bilanciamento.
A nostro avviso quello principale è l’onnipresenza della formula just transition – menzionata dieci volte! – cioè di una proposta sindacale che nasce, negli anni Novanta, come strumento di difesa dalla transizione ecologica «dall’alto» (intesa come fattore di rischio per l’occupazione) e che pian piano sta evolvendo – anche sulla base di esperienze virtuose come quella dell’ex Gkn di Campi Bisenzio – in strategia complessiva della transizione ecologica «dal basso» (produttrice perciò di occupazione di qualità, a discapito di una sempre più irragionevole polarizzazione sociale, in termini sia di redditi sia di emissioni).
Certo, non c’è da sperare troppo che le prossime Cop si svuotino di lobbisti del fossile per popolarsi di lavoratrici e lavoratori. Piuttosto, c’è da rilevare che tra gli alti papaveri si è diffuso un certo interesse – inedito – verso il mondo del lavoro. La nostra ipotesi è che la percezione di una convergenza possibile tra movimento operaio e giustizia climatica disturbi parecchio i sonni di chi governa il processo negoziale, e che quindi una strategia di inclusione differenziale si stia mettendo in moto: riconoscimento in cambio di qualche briciola. Vedremo come andrà a finire. Per quanto ci riguarda, è evidente che il consolidamento e la diffusione della convergenza lavoro-clima sia la priorità politica del tempo presente.
Ne L’era della giustizia climatica è ricostruita in maniera molto chiara la linea segnatamente geopolitica che i movimenti ecologisti hanno conferito per alcuni decenni alla loro azione: i paesi che storicamente hanno più contribuito all’innalzamento dei livelli di CO2 nell’atmosfera sono quelli su cui si riverberano di meno gli effetti del riscaldamento globale ed è per questo che devono pagare di più e impegnarsi di più sul fronte della riduzione delle emissioni.
Più recentemente, la riflessione si è arricchita di uno sguardo ancora più attento alle disuguaglianze che conduce a individuare in maniera ineludibile chi sono i «grandi inquinatori» e quale sia il loro livello di connessione rispetto alle traiettorie del sistema produttivo e finanziario globale. Chi sono, quindi, i nemici giurati del pianeta e in quanti sedevano/sponsorizzavano Cop28?
Paola Imperatore: Una delle conseguenze più visibili di questo effetto-Greta riguarda proprio la trasformazione della giustizia climatica da tema tra gli altri a lente attraverso cui cogliere e agire sulle diverse forme di ingiustizia che spesso la crisi climatica porta a galla o moltiplica. In questo passaggio, è stato fondamentale imparare a guardare alla crisi climatica non solo come una questione di giustizia distributiva tra Nord globale e Sud globale, ma anche come risultato di una profonda ingiustizia sociale. Non solo il 49% delle emissioni di CO2 sono prodotte dal’10% più ricco della popolazione mondiale, mentre il 50% più povero produce all’incirca il 10%, ma dentro quella ristretta percentuale di super-ricchi ci sono anche un grande numero di attori che muovono le leve della finanza. La componente più ricca della società ha non solo un maggiore impatto carbonico in termini di consumi, ma anche in termini di produzione. Se si guarda alle scelte di investimento – questo ce lo dice il rapporto Oxfam del 2022 – i «miliardari carbonici» inquinano 2 milioni di volte in più di un «povero climatico». Eccoli qui i «nemici del clima».
È senz’altro preoccupante il fatto che questi «nemici del clima» abbiano avuto un ruolo di primo piano nella Cop28. La Conferenza di Dubai è stata infatti presieduta da Sultan al Jaber, al vertice dell’azienda petrolifera Abu Dhabi National Oil Company, che a latere della Cop ha tenuto diversi incontri per negoziare accordi in materia di combustibili fossili, ed è stata partecipata da moltissimi lobbisti delle fossili, che spesso superano in quantità gli stessi rappresentanti dei paesi più colpiti dalla crisi climatica.
C’è un filo rosso che, specialmente in queste settimane, lega Dubai a Bruxelles: la partita sulla prossima stagione di austerity che potrebbe abbattersi sull’Europa intera, a partire dalla ridefinizione del Patto di stabilità e crescita. Non esiste ancora un accordo, ma è forte il rischio che nuove contrazioni della spesa pubblica si ripercuotano sul percorso di transizione ecologica, oltre che sull’aderenza agli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti dagli accordi di Parigi. Ma una bella «patrimoniale verde»?
Emanuele Leonardi: Il filo rosso c’è, e sarebbe il caso di renderlo politicamente visibile. È in questo contesto, infatti, che va posta la questione della lotta di classe nell’era della giustizia climatica – una lotta che passa anche attraverso alcune riforme fiscali.
Un caso interessante viene dalla Francia. A riprova di quanto i conflitti sappiano trasformare la società fin nelle sue radici, si consideri la vicenda di Jean Pisani-Ferry. Economista, nel 2017 è lo spin doctor di Emmanuel Macron, noto per aver consigliato di inserire nel programma elettorale l’abolizione della cosiddetta «tassa sulle grandi fortune» (poi puntualmente tradotta in realtà). Nella primavera 2023, dopo il ciclo conflittuale dei Gilets Gialli e la grande mobilitazione contro la riforma pensionistica, lo stesso Pisani-Ferry firma, assieme a Selma Mahfouz, un rapporto alla prima ministra Èlisabeth Borne intitolato Gli impatti economici dell’azione climatica, in cui sostiene non solo l’opportunità di reintrodurre la tassa sulle grandi fortune (peraltro maggiorata), ma di vincolarla per un quindicennio a misure di mitigazione e adattamento.
Più recentemente, Oxfam suggerisce tre modalità di tassazione degli ultra-ricchi per raccogliere denaro e finanziare la transizione ecologica: un prelievo di scopo sui grandi patrimoni, non dissimile dalla proposta di Pisany-Ferry e Mahfouz (che stima potrebbe rendere disponibili 1,7 trilioni di dollari); un’aliquota del 60% sui redditi del famoso 1% (6,4 trilioni di dollari); una tassa sui super-profitti delle multinazionali dell’energia nell’ultimo biennio (941 bilioni di dollari).
Non tutto, va da sé, può risolversi sul piano fiscale. Ma è indubbio che queste proposte indicano la strada di un riformismo climatico degno di questo nome – di cui ci sarebbe un gran bisogno. Di nuovo senza farsi troppe illusioni, ma è significativo che il riferimento alla tassazione come leva di finanziamento per l’azione climatica, in ottica di just transition, sia esplicitato nel Global Stocktake.
Dalla governance globale del clima alla «transizione ecologica dal basso». Da negoziati, risoluzioni, promesse al protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori che subiscono la mancanza di una strategia concreta per la conversione ecologica dei luoghi della produzione. Dai palazzi ultra-climatizzati di Dubai ai luoghi di lavoro – formale e informale, libero e non libero, pagato e non pagato – di tutto il mondo, dove di lavoro, e di cambiamento climatico, si può anche morire. È questa la proposta politica, teorica e pratica, con cui chiudete il vostro libro: portare sotto i riflettori e sostenere più possibile quelle esperienze di ripensamento profondo del modo di produrre e di che cosa si produce, in un’ottica di transizione giusta.
Paola Imperatore: L’alleanza tra i movimenti ecologisti e i Gilet Jaune in Francia, la protesta di Just Stop Oil connessa al caro-bollette in Inghilterra, la convergenza tra il Collettivo di Fabbrica Gkn e Fridays for Future in Italia, sono tutte esperienze che hanno messo in chiaro una questione: non possono essere le classi popolari a pagare il prezzo di una crisi di cui peraltro sono responsabili in minima parte. La crisi climatica trasforma il lavoro e le condizioni di lavoro: si moltiplicano i rischi durante le ondate di calore, cresce esponenzialmente il lavoro di cura – scaricato sulle donne – per far fronte all’aumento di malattie ed epidemie connesse al riscaldamento globale. In più, la transizione dall’alto si è tradotta in licenziamenti e delocalizzazioni. In contrapposizione a questo modello, evidenziamo il delinearsi di un’alternativa che deve moltissimo all’elaborazione del Collettivo di Fabbrica Gkn: la transizione ecologica dal basso. Pensata dalla classe lavoratrice, per la classe lavoratrice e la comunità tutta. Basata su produrre ecologicamente ciò di cui si ha realmente bisogno, e non sul profitto. Fondata sul dialogo tra saperi «esperti» e saperi che nascono dall’esperienza sui luoghi di lavoro. Rimettere le scelte inerenti alla produzione nelle mani della collettività è il primo e fondamentale passo per uscire da un sistema che è per sua natura degradante per la natura e la classe lavoratrice. La sfida della transizione ecologica dal basso è questa. O un lavoro degno in un pianeta sano, o – la storia lo ha dimostrato – nessuna delle due: su questo non c’è molto da trattare.
*Francesca Gabbriellini è dottoranda in Storia all’Università di Bologna. Emanuele Leonardi svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e diritto dell’economia dell’Università di Bologna, è autore tra le altre cose di . Paola Imperatore svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Ha recentemente pubblicato Territori in lotta (Meltemi, 2023).
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