L’Europa al capolinea di Lesbo
Alla frontiera greco-turca l'Ue perde l'illusione di essere «artefice della civiltà universale». Quello spirito cammina con le persone migranti che cercano una vita migliore e sopravvive nelle rivolte in Medio Oriente
Correva la notte tra il 18 e il 19 marzo 2016 quando i governi europei firmarono un accordo, approvato anche dal governo turco, per gestire l’arrivo sulle coste greche di milioni di persone provenienti dal Medio Oriente. Al prezzo di sei miliardi di euro, per ben quattro anni la Turchia ha assicurato all’Europa il divieto di entrata sul suo territorio per le persone catalogate come «migranti economici». Il tutto attraverso dei veri e propri centri di identificazione e detenzione dislocati sul suolo turco. Dall’Unhcr ai vescovi fino alle Ong l’indignazione mediatica di quei giorni, così come per quanto sta accadendo al confine Turchia-Grecia in queste ore, fu trasversale e dirompente. Sui media oggi come allora è unanime la denuncia dell’emergenza umanitaria.
Nel 2016 l’accordo prevedeva il respingimento forzato in Turchia di quei migranti che già stazionavano in Europa, anche loro «certificati» come «economici» e quindi non meritevoli di protezione internazionale. Negli ultimi anni il controllo delle frontiere è diventato sempre di più economia di scambio e le persone semplice oggetto di logiche neoliberiste che hanno determinato le politiche di gestione delle migrazioni, anche lungo la poco conosciuta rotta balcanica. Con la formula «uno dentro e uno fuori», tra il 2016 e il 2017 la Germania ha accolto circa un milione di rifugiati siriani con la contropartita, però, di una vera e propria forma di deportazione all’interno dei lager turchi, voluti e finanziati dall’Europa. Nel marzo del 2016 si usavano termini consolatori per l’opinione pubblica più sensibile come quello di «istituzione di un corridoio umanitario per i profughi siriani», per i quali l’Unione «accetta l’impegno di Ankara che i migranti tornati in Turchia verranno protetti in base agli standard internazionali». Dopo ulteriori quattro anni di guerre, bombardamenti e privazioni a danno di milioni di persone da parte di regimi criminali, dalla Siria alla Libia, nulla è cambiato. Anzi, sono peggiorate le condizioni di tutela.
Alcuni paesi europei hanno progressivamente rifiutato l’applicazione o addirittura cancellato le norme previste per la protezione internazionale. Il valore dei migranti e dei profughi si è dimostrato inferiore a quello delle merci che, invece, continuano a circolare liberamente all’interno dell’Ue e tra l’Europa e il resto del mondo. Per il gas e il petrolio, per le armi e il business che produce anche l’industria dei confini, così come per qualsiasi altro settore ad alta profittabilità, le rotte devono restare sicure e garantite. Si salpa da un porto all’altro con tutta la certificazione e le tutele del caso, a prescindere se la produzione di queste merci sia causa ed effetto delle stesse migrazioni provenienti da Africa e Medio Oriente. Per le leggi del capitalismo le merci e la finanza hanno bisogno di «corridoi» regolari e ben attrezzati. Mentre per le persone che continuano a scappare da carestie alimentari, crisi ecologiche, guerre e spossessamento di terre e risorse naturali «i corridoi umanitari» devono rientrare nel complesso industriale della sicurezza delle frontiere. Non importa se le «maree migranti» continuano, come in questi giorni, a dotarsi di barconi inaffidabili in mano a trafficanti spietati mietendo morti in mare. Così come non importa se ora è la Turchia a non rispettare la Convenzione di Ginevra o il diritto di asilo con tutte le sue procedure. L’importante è che ad apparire autoritari e disumani rimangano i paesi extraeuropei.
Ma la strategia di lasciare fuori dal territorio europeo il «regime delle deportazioni» non regge più. Ancora una volta a smascherare questa ipocrisia sono i diretti interessati, le persone costrette a migrare, con la loro lotta disperata alla ricerca di serenità, della possibilità di vivere il più tranquillamente possibile. Quella serenità che tutti cerchiamo nella nostra vita quotidiana e che l’Europa ha formalizzato con quella Carta per i diritti universali dell’uomo che di fronte agli accadimenti di oggi sembra carta straccia.
Da tempo l’Europa ha perso la sua integrità civile e democratica. La vergogna dei ghetti e gli sgomberi di Calais appartengono all’Europa; il filo spinato lungo i confini interni e il fango di Idomeni sono la sostanza dell’Europa; il respingimento dei barconi in mare tra il nord Africa e l’Italia, le morti nel Mediterraneo e i trattati che hanno istituito i lager in Libia sono frutto dell’Europa; gli hotspot operativi con le loro «illegali» procedure di identificazione e trattenimento si attuano sul territorio europeo; il regolamento di Dublino che vieta la libera circolazione delle persone è tuttora in corso in tutta Europa, da ovest a est, da nord a sud.
Per le normative europee, così come riportato anche nell’accordo con il governo turco del 2016, il respingimento seppur di natura straordinaria è una «misura necessaria per porre fine alle sofferenze umane e ripristinare l’ordine pubblico al confine tra Grecia e Macedonia». I flussi migratori dovevano e devono continuare ad apparire un’emergenza permanente, di conseguenza la loro governance è un susseguirsi di accordi bilaterali tra Europa, singoli stati terzi e apparati industriali privati (ad esempio Finmeccanica, Sagem, Airbus). I tempi richiesti dal diritto pubblico e costituzionale per garantire le tutele basilari non sono più funzionali. Le regole e il metodo just in time propri dell’attività flessibile d’impresa con lo strumento aziendalistico del «consiglio di amministrazione» viene mutuato nei vertici tra i capi di stato europei, più celeri ed efficaci rispetto alle lunghe discussioni parlamentari, a prescindere se si violino i diritti delle persone migranti o se le frontiere rimangano chiuse arbitrariamente, o se all’improvviso compaiono fili spinati per impedirne l’entrata.
L’Europa insomma è già impregnata di autoritarismi e «sovranismi democratici», è arrivato il momento di scendere dal piedistallo dell’idea dell’Europa come «artefice della civiltà universale». C’è invece bisogno della forza di volontà proprio delle persone migranti e delle centinaia di migliaia di persone in rivolta in Medio Oriente. Abbiamo bisogno delle loro innumerevoli storie di comunità, di lotta e sostegno che ogni giorno praticano lungo le loro impervie rotte. All’interno di questa asfissiante cappa europea abbiamo bisogno della loro tenacia, della capacità di non arrendersi alle innumerevoli violenze perpetrate sui loro corpi. Abbiamo bisogno di continuare a condividere con loro le molteplici esperienze mutualistiche e conflittuali che anche noi portiamo avanti sui nostri territori. Perché questa barbarie faccia i conti con l’irruzione della forza di chi ogni giorno sente l’esigenza intima e collettiva di lottare per il futuro. Sono i e le migranti che protestano vicino al campo di Moria, sull’isola di Lesbo, con i cartelli «We want freedom», anche in lingua araba e greca, che mantengono l’Europa ancora viva.
*Gianni De Giglio è promotore di Solidaria/SfruttaZero e attivista di FuoriMercato, autogestione in movimento. Ha conseguito il dottorato in Economia e Diritto all’università di Bologna, lavora nell’ambito delle politiche attive del lavoro.
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