L’evasione fiscale globale
Il primo Global Tax Evasion Report, mostra la necessità di una prospettiva non solo nazionale su un fenomeno che crea diseguaglianze sociali a livello mondiale
Di sicuro, ci sono le tasse. Che sia per ridurre le disuguaglianze, come nell’ultima «patrimoniale» proposta nel dicembre 2020 da parlamentari di LeU e Pd, o per «finanziare sanità, scuola, lavoro e lotta ai cambiamenti climatici», come nella campagna europea La grande ricchezza, recentemente portata in Italia da Oxfam assieme ad altre organizzazioni, le proposte di nuovi prelievi sui patrimoni dei più ricchi sono centrali nelle iniziative progressiste degli ultimi anni. Questo anche perché, in Italia e non solo, l’aumento delle disuguaglianze – e soprattutto, del peso dei patrimoni e delle rendite, finanziarie e immobiliari, rispetto ai salari stagnanti – è andato di pari passo con la detassazione di quegli stessi patrimoni e rendite, lasciando proprio su lavoro e pensioni il peso maggiore del fisco.
Aliquote fiscali effettive su capitale e lavoro
Sebbene l’adagio descriva le tasse come inevitabili, la triste, realistica argomentazione che spesso viene sollevata contro queste proposte è la loro presunta impossibilità, almeno quando provano a colpire profitti, rendite e patrimoni, viste le grandi possibilità di evasione fiscale (legali o meno). Inevitabili sembrerebbero solo le tasse sul lavoro. Si tratta di una variante del consueto ritornello «non c’è alternativa»: nonostante il crescente strapotere delle multinazionali – a partire dalle Gafam dell’Hi-tech o da piattaforme come Airbnb – i governi non avrebbero possibilità di tassarne i profitti. L’unica strada sarebbe rassegnarsi a tassare solo il lavoro e ridurre la spesa sociale, visto che invece sussidi e agevolazioni per le imprese sono ritenuti necessari a tenerle dentro i confini nazionali.
È una logica che aumenta ancora di più la crescita di potere del capitale rispetto al lavoro, evidente nell’andamento delle rispettive quote del reddito nazionale. A livello internazionale, all’aumento delle disuguaglianze dentro i singoli paesi e alla compressione del gettito derivante dalla tassazione sulle imprese, determinato dalla competizione tra Stati per accaparrarsi quel poco che le multinazionali sono disposte a pagare, si somma la concentrazione di questo gettito in pochi «paradisi», e non nei luoghi assai meno ameni in cui questa ricchezza è prodotta, causando magari devastazione ambientale e sociale.
In questo contesto, è di grande interesse il primo Global Tax Evasion Report, pubblicato il 23 ottobre dall’Osservatorio Fiscale Europeo, assieme a un Atlante del mondo offshore, da cui sono tratti i grafici sull’Italia riportati in questo articolo. Nonostante l’Unione europea sia uno dei co-finanziatori, l’osservatorio è un centro di ricerca indipendente, ospitato presso la Paris School of Economics (la stessa del World Inequality Lab di Thomas Piketty) che mira a «contribuire ad un dibattito democratico e inclusivo sul futuro della tassazione», stimolando il dialogo tra comunità scientifica, società civile, e legislatori, in Europa e a livello globale. In effetti, il suo direttore – l’economista francese Gabriel Zucman – ambisce a rendere l’Osservatorio sempre più globale, un equivalente per la tassazione internazionale di ciò che è l’Ipcc per il cambiamento climatico: «Abbiamo bisogno di un Ipcc per la tassazione, perché in questo ambito abbiamo veramente bisogno di una prospettiva globale, non sono fenomeni che si possono capire da un punto di vista nazionale. La competizione fiscale può essere remunerativa per pochi anni; da una prospettiva nazionale, alcuni paesi decidono di farlo, e diventano paradisi fiscali; ma in una prospettiva globale, è chiaro come questo non solo aumenti le disuguaglianze (chi ne beneficia sono le grandi multinazionali e i più ricchi), ma riduca il benessere collettivo». l report, che contiene nuovi dati sull’estensione dell’evasione fiscale internazionale, è frutto dello sforzo collettivo di più di cento ricercatrici e ricercatori, spesso in cooperazione con le amministrazioni fiscali nazionali, sfruttando tutte le informazioni disponibili, incluse quelle rivelate da fonti come i Panama paper o la «lista Falciani».
Il 13 novembre Zucman ha presentato il rapporto a Roma, a un evento organizzato da Oxfam Italia (di cui è disponibile anche la registrazione), assieme al mondo della ricerca, ma anche attori politici e istituzionali, italiani ed europei. È stato lo stesso Zucman a riassumere i risultati principali del rapporto prendendo a prestito un titolo di Sergio Leone: il buono, il brutto, e il cattivo.
Il buono: la comunicazione automatica delle informazioni bancarie
In una delle scene iconiche del sorrentiniano Le consequenze dell’amore, si vedono i dipendenti di una banca di Lugano che, nel caveau, contano centinaia di migliaia di dollari sparsi su un tavolo, mentre Paolo Sorrentino/Titta di Girolamo attende che il denaro venga versato su conto segreto svizzero per conto della camorra.
Oggi, questo versamento sarebbe segnalato alle autorità fiscali svizzere: dal 2017, le istituzioni finanziarie di più di 100 paesi nel mondo hanno l’obbligo di comunicare alle rispettive attività fiscali i conti intestati ai non-residenti. Come chiarisce Zucman, l’occultamento della ricchezza nei paradisi fiscali è solo una delle fattispecie dell’evasione. La ricchezza finanziaria offshore è considerevole: secondo le stime dell’Osservatorio, nel 2022 rappresentava circa il 12% del Pil mondiale (il 10% nel caso italiano). Lo scambio automatico di informazioni bancarie tra diverse giurisdizioni è stato un passo importantissimo che ha permesso di far emergere circa 12,6 trilioni di dollari precedentemente evasi. «Ricordo che quando ho iniziato a occuparmi di questo tema da dottorando, nel 2008, una simile forma di cooperazione internazionale sembrava utopica: chiunque diceva sarebbe stato impossibile, ma adesso è realtà – e funziona». In primo luogo perché consente un grande miglioramento nell’ammontare di informazione statistica disponibile. In secondo luogo, perché questo ha drasticamente ridotto l’ammontare della ricchezza che sfugge alla tassazione: circa un quarto di quel 12%, rispetto alla quasi totalità del pre-2016. Le ragioni sono molteplici: dalla scelta deliberata dei contribuenti che dichiarano solo parzialmente la ricchezza all’estero, all’inadempienza delle istituzioni finanziarie nel comunicare i dati dei propri clienti, come nel caso di Credit Suisse, il cui ruolo attivo nell’evasione fiscale da parte dei contribuenti statunitensi è stato oggetto di un lavoro d’inchiesta dei membri democrat della Commissione Finanza del Senato.
Mentre la quantità di ricchezza finanziaria offshore è rimasta relativamente stabile nei vent’anni coperti dal rapporto, ne sono cambiate l’origine e la destinazione. Da questo punto di vista, il ruolo della Svizzera è sempre più ridotto dall’espansione di centri come Hong Kong e Singapore. Anche nel caso italiano, la ricchezza finanziaria detenuta in Svizzera è calata, dall’11 ad appena il 4% del Pil – ma in questo caso, più che in Asia, la ricchezza è rimasta negli assai poco esotici paradisi europei, come ci ricorda il caso sempre attuale di Cipro.
Cambiano poi gli individui che detengono queste ricchezze: a seguito delle evoluzioni della distribuzione globale del reddito, oggetto degli studi di Branko Milanovic, rispetto al 2001 la ricchezza finanziaria offshore è oggi sempre più detenuta da individui residenti in paesi a basso e medio reddito. Se, secondo uno studio, già nel caso di paesi «socialdemocratici» come Danimarca, Svezia e Norvegia la ricchezza offshore proveniva dallo 0,01% di famiglie più ricche, è ragionevole immaginare che anche altrove sia sempre più in mano a pochi super-ricchi.
La ricchezza offshore posseduta dall’Italia
Il brutto: il profit-shifting da parte delle multinazionali rimane elevatissimo
Come mai in Irlanda e Porto Rico le imprese estere sembrano essere assai più redditizie delle imprese locali? Una delle ragioni è il profit-shifting, ovvero il processo attraverso cui le imprese multinazionali registrano i profitti in paesi a tassazione relativamente bassa, pur operando principalmente in paesi ad alta tassazione. Un esempio classico è l’acquisto (a prezzi artificialmente elevati) di consulenza manageriale di una filiale in un paese ad alta tassazione da una filiale collegata in uno a bassa tassazione. Questa pratica, apparentemente innocua, sposta il reddito generato dalla multinazionale nel paese in cui sa di pagare tasse assai inferiori. Non sorprendentemente, dunque, la redditività delle filiali nei paradisi fiscali risulta estremamente più elevata: lo dimostra uno studio di Wieder e Zucman, secondo cui nel 2019 la redditività, misurata dal rapporto tra profitti registrati e salari corrisposti, delle imprese estere in Irlanda o a Porto Rico (soprattutto multinazionali statunitensi) è ingiustificatamente più alta rispetto a quella delle imprese locali; tutto il contrario di paesi come Italia, Francia e Germania, dove le imprese estere risultano addirittura meno redditizie di quelle locali.
Secondo le cifre riportate nel rapporto dell’Osservatorio, nel 2022 il 6% di tutti i profitti delle imprese (siano esse multinazionali e non) sono stati spostati nei paradisi fiscali, per un totale di circa un trilione di dollari. Se le multinazionali statunitensi sono quelle più attive nel «dirottare» i loro profitti, le destinazioni europee più gettonate sono Irlanda e Paesi Bassi. Il costo, in termini di mancato gettito, è considerevole: il rapporto lo quantifica in circa il 10% di tutte le entrate dalla tassazione dei redditi d’impresa. Da questo punto di vista, come mostra il terzo grafico, l’Italia fa peggio della media, anche se si registra un calo dai livelli del 2015.
A livello globale, invece, il profit-shifting, stabile negli ultimi anni, dopo esser cresciuto esponenzialmente (nel 1995 era meno del 2%),non dà segno di ridursi, nonostante diverse misure volte a evitarlo – dalle campagne dell’Ocse, a tagli delle imposte sui redditi societari, come quello dal 35 al 21% voluto da Trump nel 2017. Da allora, la quota di profitti che le imprese multinazionali (statunitensi e non) spostano nei paradisi fiscali è rimasta stabile al 35% di quelli realizzati al di fuori del paese in cui hanno sede. Allo stesso tempo, se queste politiche hanno avuto l’effetto di far spostare alle multinazionali parte delle loro proprietà immateriali (come i brevetti) fuori da paesi a tassazione inesistente, queste sono finite in paesi a bassa tassazione, o che offrono regimi fiscali particolari, come aliquote più basse sulle royalties derivanti dalle licenze di proprietà intellettuali. È il caso dell’Irlanda, dove i redditi delle imprese sono tassati al 12,5% (circa la metà che in Italia) e gli introiti fiscali derivanti dalla tassazione delle società sono esplosi dal 2015 a oggi.
Spostamento globale dei profitti da parte delle multinazionali
Il cattivo: i super-ricchi
Negli ultimi anni, grazie a campagne giornalistiche, mobilitazioni dal basso, e anche al lavoro di economisti come Piketty e Zucman, è aumentata l’attenzione pubblica sulla tassazione bassissima degli individui con grandi patrimoni, in particolare dei miliardari. Come mostrato due anni fa da ProPublica, in relazione ai loro giganteschi patrimoni i miliardari di tutto il mondo pagano aliquote effettive irrisoire, in alcuni casi inferiori allo 0,5%. L’utilizzo, poco consueto, del patrimonio (e non dei redditi) come metro, è giustificato dal fatto che molti miliardari sfuggono all’imposta sul reddito proprio attraverso l’utilizzo di holding finanziarie. Del resto, stime precise delle aliquote fiscali effettive per questo gruppo di privilegiati sono rese difficili dalla citata mancanza di statistiche affidabili sulla loro ricchezza e sulle tasse a cui è effettivamente sottoposta. Uno degli ultimi sviluppi della ricerca di Piketty e colleghi è stato proprio dimostrare, a partire dai casi della Francia e degli Stati uniti, come, una volta tenuto conto di tutte le imposte, il sistema fiscale diventi addirittura regressivo ai livelli di reddito più alti. Di recente, anche per l’Italia, uno dei paesi con il più alto rapporto ricchezza/reddito ma dove la disuguaglianza patrimoniale è aumentata a un ritmo simile a quello degli Stati uniti, è stato dimostrato come il 5% più ricco paghi meno del 95% più povero, con una riduzione ancora più marcata per i super-ricchi. Chi rompe, insomma, non paga: le stesse élite responsabili della perdita di gettito, beneficiano, anche grazie a questi meccanismi, di tassi di imposizione nei fatti inferiori (meno della metà!) di quelli di chi lavora, o della fantomatica «classe media» con cui si riempie la bocca chi ci spiega che non ci sarebbe alternativa a questo stato di cose.
Pensare globale, agire locale
Nonostante il quadro con molte tinte fosche, il messaggio di Zucman è tutto tranne che di rassegnazione: «l’evasione fiscale internazionale non è una legge di natura, ma una scelta politica». Se anche la Svizzera è riuscita ad abrogare il segreto bancario, verrebbe da dire, qualche speranza c’è. A supporto della linea ottimista ci sono tanto lo scambio automatico di informazioni bancarie, che l’accordo dell’ottobre 2021 di un’imposta minima globale sui profitti delle imprese multinazionali al 20%. Su questa, tuttavia, l’analisi di Zucman è impietosa. Innanzitutto, la proposta iniziale del 20% è stata abbandonata, a favore di un modesto 15% (più bassa dell’aliquota minima della nostra Irpef): pure questa aliquota è stata fortemente ridotta da una serie di esenzioni ad-hoc e crediti d’imposta, che rendono la misura assai poco efficace nel contrasto al profit-shifting. Oltre che tradursi in un gettito modesto, come ha potuto verificare lo stesso Governo italiano.
Proprio questa analisi ha scatenato, nel panel che ha seguito la presentazione di Zucman, la dura reazione di David Bradbury, Deputy Director del Centre for Tax Policy and Administration dell’Ocse. Secondo Bradbury, se un’aliquota al 20% non è mai stata davvero sul tavolo, il controfattuale a cui paragonare la situazione attuale è l’assenza di qualsiasi soglia minima precedente l’accordo. «A essere brutto non è l’accordo, è il profit-shifting – ha incalzato Zucman – L’accordo è una pietra miliare, ma l’evasione continua… e possiamo stare qui a discutere a lungo se l’accordo farà aumentare le entrate fiscali del 5, 7 o 9%: ma dobbiamo ammettere che non è molto, non sono abbastanza soldi». Da questo punto di vista, come ha ribadito Susana Ruiz (Tax Lead di Oxfam International), l’obiettivo deve essere invertire la rotta, mentre l’accordo si è posto l’obiettivo, assai meno ambizioso, di «porre un limite per fermare il trend attuale. Ma questo limite è davvero basso».
Non a caso, nel rapporto dell’Osservatorio si propone di innalzare l’imposta minima globale ad almeno il 25% dei profitti, eliminando le esenzioni e riducendo al minimo le differenze tra le aliquote nelle diverse giurisdizioni. Una misura che ridurrebbe drasticamente l’incentivo delle imprese a spostare i profitti verso paesi a bassa tassazione, generando circa 713 miliardi di entrate fiscali nel 2023. Altri 250 miliardi si potrebbero recuperare, è un’ulteriore proposta dell’Osservatorio, sulla scia di un cavallo di battaglia storico di Piketty, con un’imposta minima globale del 2% sulla ricchezza dei circa 3.000 miliardari più ricchi del pianeta. I potenziali guadagni in termini di risorse liberate, riduzione delle disuguaglianze e giustizia distributiva sarebbero notevoli.
D’altra parte il proliferare di regimi fiscali preferenziali e, soprattutto, la corsa ai sussidi statali e le agevolazioni fiscali come i crediti d’imposta per le imprese per accelerare la transizione ecologica negli Stati uniti, Cina e Unione europea, rischiano di dare un contraccolpo a tutte le iniziative intraprese fino a ora. Le aspettative a riguardo non sono rosee: secondo l’Osservatorio, la corsa ai sussidi verdi (che per Zucman «sembra essere la nuova forma di competizione fiscale») potrebbe più che compensare negativamente l’aumento degli introiti fiscali derivanti dall’imposta minima globale sui profitti delle imprese. Da questo punto di vista, Zucman e l’Osservatorio non nascondono la contraddizione di finanziare, come stanno facendo molti governi occidentali, un obiettivo di per sé desiderabile, come la transizione ecologica, con una modalità che mina la capacità fiscale dello Stato, rispetto a forme alternative, come gli investimenti pubblici diretti.
Nonostante le molte criticità, l’obiettivo deve essere quello di combattere l’evasione fiscale. L’ostacolo, secondo Zucman, è la volontà politica e non la fattibilità. «Ora che sappiamo che è possibile arrivare a un accordo internazionale sulla tassazione, dobbiamo raggiungerne uno sulla tassazione dei miliardari». Il metodo che ci viene proposto è quello di imparare dagli errori del passato, ma anche dai nuovi strumenti oggi disponibili, per disegnare le tasse necessarie a combattere le disuguaglianze e finanziare la transizione ecologica nel modo migliore possibile. E anche abbandonare l’idea che sia necessario arrivare a un accordo a ogni costo: questa strategia «multilaterale», secondo Zucman, ha dato un enorme potere di veto ai singoli Stati, su cui le multinazionali hanno potuto fare leva. «Se avessimo tentato di arrivare alla condivisione delle informazioni bancarie per questa via, non saremmo andati lontano: dobbiamo invece procedere al contrario», partendo dagli obiettivi da raggiungere, sotto i quali l’accordo diventa inutile. «Se il coordinamento internazionale è l’ideale, molto può essere ottenuto unilateralmente». Da qui l’invito, dal suono quasi paradossale, di «fare da sé», lasciato alla stampa italiana. Un recupero di «sovranità» che sembra però non piacere alla destra nostrana, troppo impegnata a fabbricare specchietti per le allodole, ma su cui a sinistra dovremmo ragionare seriamente.
*Giacomo Rella è assegnista di ricerca in economia presso l’Università Roma Tre. Si occupa di macroeconomia e disuguaglianze. Giacomo Gabbuti fa parte del consiglio redazionale di Jacobin Italia, ed è assegnista di ricerca di storia economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
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