L’industria petrolifera è morta, lunga vita all’industria petrolifera
Il petrolio in questo momento in borsa vale meno delle piattaforme per le conferenze online. Ma senza cambiamenti di sistema, gli idrocarburi resteranno il settore più capace di resistere a qualsiasi crisi economica ed ecologica
È stato uno dei grandi titoli dell’epidemia: il petrolio non vale più niente. «Un litro varrebbe meno di una bottiglia d’acqua» ha titolato Repubblica il 21 Aprile; «Un barile vale meno di niente» ha scritto il New York Times; «I prezzi del petrolio scendono sotto lo zero» ha annunciato il Guardian.
In effetti, è la prima volta nella storia dell’industria petrolifera che i prezzi sono scesi sotto lo zero, toccando al 20 Aprile 2020 -37 dollari al barile: i produttori, esaurite le proprie capacità di stoccaggio, dovevano pagare terzi perché conservassero il petrolio già estratto che rimaneva invenduto. Già nelle settimane precedenti al tonfo, molti pozzi in Medio Oriente si erano fermati perché il costo del trasporto era diventato superiore al valore di mercato del greggio; le raffinerie hanno seguito di lì a poco. Anche se a un mese di distanza il prezzo è rimbalzato (al 27 maggio) a (+) 35 dollari al barile, resta comunque tra i più bassi della storia, e lontano anni luce dai 70 dollari dello stesso periodo del 2019.
Quella che per decenni è stata la gallina dalle uova d’oro del mondo industriale, l’industria petrolifera, in questo momento vale meno in borsa delle piattaforme per le conferenze online come Zoom (basta cercare su Google l’indice di capitalizzazione di mercato per Exxon e per Zoom per rendersene conto). Quello che è successo ha scioccato la maggior parte degli analisti, anche perché appena una settimana prima del crollo dei prezzi, Russia e Arabia Saudita (i governi con più potere nella formazione dei prezzi del greggio) avevano raggiunto l’accordo per un taglio della produzione senza precedenti, il 10% delle estrazioni mondiali, che avrebbe dovuto arrestare il ribasso dovuto alla pandemia. Contro una crisi economica di tale portata, però, tagliare la produzione non poteva bastare. Soprattutto visto che la pandemia è arrivata nel mezzo di una crisi dell’industria che durava da alcuni anni – l’esplosione del fracking americano che aveva provocato una forte sovrapproduzione; gli strascichi della crisi del 2008; i primi timidi segnali di disinvestimento verso le energie alternative; i mancati accordi tra Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) e Russia per il controllo della produzione, con i governi dei paesi produttori bloccati tra il bisogno di far risalire i prezzi da cui dipendono i bilanci statali e la necessità di tagliare le gambe sia al fracking americano che alle energie alternative, mostrando al «mercato» che il petrolio resta la forma di energia più conveniente.
È l’inizio della rivoluzione energetica di cui abbiamo disperato bisogno? Visto il primato storico, la memoria è andata subito al 1973, l’altra grande crisi dei prezzi del petrolio; solo al contrario. Nel 1973, i prezzi quadruplicarono nel giro di poche settimane, inceppando per anni gli ingranaggi del sistema economico mondiale (anche se in realtà, visto dalla nostra prospettiva, si trattò di una crisi di portata minima quando la raffrontiamo all’ultima crisi del 2008). Lo «shock petrolifero» del 1973 fu all’epoca percepito come una rivoluzione, un’occasione per ripensare i meccanismi produttivi globali. Si parlò di proporre un gruppo internazionale di lavoro per una gestione più equa e concordata delle risorse primarie mondiali; iniziarono a emergere studi sul cambiamento climatico a livello globale grazie a nuove tecniche computazionali; ci fu una corsa al risparmio e all’efficientamento energetico.
In realtà, la crisi era stata abbondantemente anticipata. Già dal 1972 si parlava di crisi energetica in Europa, dovuta all’innalzamento dei prezzi imposto dai paesi produttori, grazie al processo di nazionalizzazione dell’industria petrolifera che aveva permesso all’Opec di prendere il controllo sulla produzione. La guerra del Kippur, comunemente additata come la causa della crisi, fu in realtà soprattutto una scusa per giustificare a livello politico la decisione dei paesi produttori di inasprire le proprie posizioni nei contratti di vendita, e mostrare all’Occidente, tramite l’embargo, di avere effettivo potere sui flussi di petrolio. Vista l’effettiva dipendenza dagli approvvigionamenti dei paesi Opec, un innalzamento drastico dei prezzi era prevedibile nel momento in cui fossero cambiati i rapporti di forza all’interno dell’industria petrolifera. Quello che non si analizza mai adeguatamente riguardo alla crisi del 1973, è che i prezzi elevati inaugurarono un periodo di enormi e facili profitti non solo per i paesi produttori, ma per tutta l’industria petrolifera (quello che in gergo economico si usa definire bonanza). All’epoca venne descritta come una perdita di potere da parte delle compagnie occidentali, che non avevano più controllo sui prezzi; in realtà, con il caveat di non esagerare tanto da inceppare il motore produttivo, e di non far diventare altre fonti di energia competitive, i prezzi del petrolio alti sono sempre una buona notizia per l’industria petrolifera. Inoltre, alla fine, nessuna delle proposte di cambiamento sistemico vennero prese in considerazione seriamente. La formazione dell’International Energy Agency (Iea) all’interno dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico rinforzò le linee di alleanza che contrapponevano l’Occidente al resto del mondo; la corsa all’efficienza e al rinnovamento energetico si tradusse soprattutto nel rendere conveniente lo sfruttamento di giacimenti non-Opec, come l’offshore del Mare del Nord.
Queste tendenze furono rafforzate dalla crisi del 1979/80, di stampo più genuinamente geopolitico perché dovuta alla rivoluzione iraniana e alla guerra Iran/Iraq; ma da metà degli anni Ottanta in poi, iniziò un ventennio di prezzi in discesa. Il più grande strascico della crisi fu finanziario: da una parte il trasferimento di ricchezza dai paesi consumatori ai paesi produttori portò alla creazione degli immensi fondi sovrani del petrolio; dall’altra, i paesi poveri non produttori si indebitarono fortemente per riuscire a far fronte agli approvvigionamenti energetici, iniziando l’escalation di debito che ancora oggi strozza i paesi in via di sviluppo. Inoltre, l’ascesa dei petrodollari (i dollari usati per comprare petrolio) nella finanza mondiale, hanno creato delle saldature importanti – e difficilissime da smantellare – tra sistema finanziario mondiale e industria petrolifera.
Il 1973, quindi, sotto molti aspetti, è stata un’occasione sprecata, uno shock che ha portato a risultati peggiori della situazione di partenza, sia dal punto di vista dell’ambiente, che delle relazioni economiche e politiche tra paesi ricchi e terzo mondo. La crisi del Covid-19 potrebbe avere la stessa sorte, se non peggiore.
Uno degli effetti del lockdown è stata la più grande riduzione in emissioni di anidride carbonica di sempre; ma come ha indicato il direttore dell’Iea, questa è il risultato di un trauma sanitario ed economico senza precedenti nella Storia, non di cambiamenti nella struttura economica guidati dall’uomo. Se al grido di riavviare il motore economico e salvare i posti di lavoro si daranno incentivi affinché le industrie continuino come hanno fatto finora, non si potrà nemmeno dire che l’epidemia avrà portato dei vantaggi ambientali. Il lockdown ha aperto un’importante finestra di opportunità per ripensare l’economia mondiale; ma a meno di interventi fondamentali, coordinati, e coraggiosi, difficilmente i risultati saranno positivi. Se i governi si limiteranno a versare denaro pubblico alle compagnie che regolano il corrente modello di consumi, la nostra dipendenza da idrocarburi non farà che rinsaldarsi. Compagnie aeree, compagnie automobilistiche, acciaierie, e le stesse compagnie del petrolio sono già alla porta con il cappello in mano – o meglio, con alla mano la pistola di essere gli unici agenti di occupazione e creazione di ricchezza. Si potrebbe usare la crisi per far sì che la politica si riappropri di fondamentali margini di manovra sull’economia, che è una premessa essenziale della lotta al cambiamento climatico; lasciar morire il vecchio trasformandolo in nuovo, investendo nella riconversione e formazione professionale, nuove infrastrutture e nuovi modelli finanziari. Ma la strada che si sta inboccando in questi giorni ha molto poco di innovativo, e men che meno rivoluzionario – ci sono già numerosi esempi di prestiti e pacchetti approvati per salvare le grandi industrie, senza che ne siano state rilevate le azioni, senza che si siano discussi piani di riconversione, senza la richiesta del minimo cambiamento.
Uno degli esempi più illuminanti e pericolosi di questa tendenza, senza sorpresa, viene dagli Stati uniti. Quasi due miliardi di dollari del pacchetto di stimoli passato dal Congresso a marzo sono stati reclamati dalla sola industria petrolifera, nonostante il pacchetto fosse inizialmente diretto alle piccole e medie imprese; inoltre, una clausola che permette alle compagnie di avere rimborsi fiscali pari alle perdite sostenute dal 2017 a oggi ha permesso a molte compagnie petrolifere americane di rifarsi sulle perdite causate dal disinvestimento in altri settori energetici. La compagnia di servizio texana Diamond Offshore Drilling, che ha dichiarato bancarotta a causa del crollo dei prezzi di aprile, ha ottenuto 9.7 milioni di dollari – di cui 9.7 (esattamente, l’intera cifra del rimborso) sono stati impiegati per pagare bonus ai nove dirigenti della compagnia.
Si dice che l’industria petrolifera ormai sia un dinosauro; ma è bene essere più specifici, e chiarire che parliamo di un tirannosauro, non di un diplodoco. Ci sono troppi interessi finanziari e geopolitici in gioco per pensare che incentivi e soluzioni di mercato, per quanto tanto drastici come un prezzo negativo, possano bastare. Se i governi si limiteranno a versare denaro pubblico alle compagnie che regolano il corrente modello di consumi, la nostra dipendenza da idrocarburi non farà che rinsaldarsi. Se i governi si limiteranno a versare denaro pubblico alle compagnie che regolano il corrente modello di consumi, la nostra dipendenza da idrocarburi non farà che rinsaldarsi. Intanto si ricomincerà a viaggiare e lavorare, i consumi per i trasporti privati aumenteranno perché più sicuri rispetto a treni e trasporto pubblico, le fabbriche riapriranno i battenti. La produzione in eccesso verrà riassorbita, e i prezzi bassissimi taglieranno le gambe alle energie alternative. Nel frattempo, la mancanza di nuovi investimenti per l’estrazione finirà per provocare una carenza che farà schizzare i prezzi in alto, ricominciando la bonanza e la festa per i produttori (paesi e imprese).
L’industria petrolifera va male solo se l’economia mondiale, per come la conosciamo noi, va malissimo; finché non ci saranno reali cambiamenti di sistema, gli idrocarburi resteranno il settore capace di resistere a qualsiasi crisi economica ed ecologica.
*Marta Musso è ricercatrice a King’s College London, dove si occupa di storia dell’energia e digital humanities. Ha conseguito un dottorato di storia economica all’Università di Cambridge ed è stata Max Weber Fellow alla European University Institute. È attualmente president di Eogan, il network degli archivi dell’energia (www.eogan.org).
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