Lockdown e detenzione selettiva dei migranti
Per paradosso, in un periodo senza possibilità di rimpatrio i Cpr hanno assunto nuova centralità nelle politiche migratorie del governo. Con un approccio «efficientista», diverso da quello di Salvini ma sempre discriminatorio
La riforma dei decreti Salvini illustrata dalla ministra Luciana Lamorgese, introduce alcune novità cautamente migliorative, ma non solo non arretra sul tema dei rimpatri produce anzi una decisa accelerata. E, in questo contesto, i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) ritrovano centralità strategica nei piani del governo.
La ministra ha spiegato che «occorrerebbe che il Cpr fosse a porte girevoli, cioè [gli stranieri] dovrebbero stare poco tempo al fine di consentirne poi il rimpatrio e consentire agli altri, che nel frattempo arrivano, e che non hanno titolo di permanere, di andare nel Cpr». Un metodo diverso rispetto a quello dei decreti Salvini, con cui la permanenza nei centri era stata estesa a 180 giorni, e più in linea con quello dell’ex ministro Marco Minniti. Un approccio efficientista alla detenzione, con una riduzione dei tempi di reclusione a 90 giorni, estendibili fino a 120 per i detenuti che provengono da un paese con cui l’Italia ha un accordo bilaterale di rimpatrio (quindi più facilmente deportabili).
Le «porte girevoli» riguardano un certo tipo di detenuto, quello che può essere rimpatriato velocemente grazie agli accordi, e che – nelle parole della stessa Lamorgese – è da considerarsi un migrante economico e non un richiedente asilo. Ad oggi, quindi, soprattutto i detenuti tunisini, con cui l’Italia ha rinnovato a inizio agosto gli accordi bilaterali. Però la selettività delle logiche che reggono questo dispositivo di controllo della mobilità non sono nuove.
Il report «No one is looking at us anymore»: Migrant detention and Covid-19, sviluppato nell’ambito del progetto di contro-mappatura dal basso degli spazi di detenzione amministrativa «Landscapes of Border Control» coordinato dal gruppo di ricerca dell’Università di Oxford Border Criminologies, è uno strumento utile a comprendere che cosa è accaduto durante la fase del lockdown nazionale in Italia (marzo-maggio 2020) all’interno dei Cpr. Riprendendo la storia della detenzione in Italia dalla fine degli anni Novanta a oggi, il report racconta quello che il dibattito pubblico ignora e, talvolta, ha attivamente oscurato: da una parte le logiche selettive della detenzione, che la pandemia ha reso ancora più evidenti; e dall’altra le condizioni degradanti di vita all’interno dei centri, segnate da abbandono e precarietà, nonché dal facile fiorire di situazioni di abuso e violenza.
A differenza di quanto accaduto nelle carceri, nemmeno le sommosse e le resistenze, in alcuni casi manifestatesi addirittura attraverso atti di autolesionismo, o la diffusione del virus all’interno delle strutture sono riuscite ad attirare l’attenzione pubblica verso questi luoghi. Uno sguardo critico collettivo sarebbe servito a mettere in discussione la scelta di tenere aperti questi luoghi nonostante l’impossibilità di rimpatriare a causa dello stop quasi totale ai voli nel resto del mondo. Perché in altri paesi, come la Spagna, i centri di detenzione per cittadini stranieri (CIEs – Centros de Internamiento de Extranjeros) sono stati temporaneamente chiusi – al contrario dei due Centros de Estancia Temporal para Inmigrantes, Ceti, situati nell’enclave di Ceuta e Melilla, dove la situazione è invece peggiorata – mentre in Italia hanno continuato a operare?
L’esempio spagnolo, in tutta la sua parzialità e contraddittorietà – dimostrata dal fatto che a fine settembre i centri hanno riaperto i cancelli e persone migranti sono nuovamente detenute al loro interno – è la dimostrazione che si può vivere anche in assenza di queste istituzioni totali. Capire cosa è successo in Italia negli ultimi mesi, oltre che negli ultimi anni, è invece necessario per poter inquadrare e comprendere l’ennesima «reinvenzione» del sistema detentivo che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Senza la capacità di una lettura adeguata di questa fase, difficilmente si avrà la capacità di dar nuova vita a un ampio e incisivo dibattito e confronto pubblico sull’esistenza di questi (e altri) luoghi di confinamento, che metta al centro una prospettiva abolizionista, in grado di minare le basi materiali e ideologiche di qualsiasi dispositivo di reclusione presente nella nostra contemporaneità.
Lockdown e detenzione selettiva
Un punto di svolta nella direzione di un rinvigorimento dell’apparato detentivo e di un approccio efficientista alla questione è da rintracciarsi nel 2017, con l’emanazione del Decreto Minniti-Orlando (poi convertito in Legge 46/2017) che non solo ha rinominato i centri di detenzione in Centri di Permanenza per il Rimpatrio (prima si chiamavano Centri di Identificazione ed Espulsione), ma si è posto anche l’obiettivo di accelerare i rimpatri tramite l’apertura di una struttura in ciascuna regione italiana (prospettiva non ancora raggiunta, ma verso cui le politiche governative sono attualmente orientate); e infine mettendo in atto una serie di attacchi al diritto alla difesa e al riconoscimento del proprio stato giuridico delle persone migranti.
Gli obiettivi della riforma nell’ambito delle migrazioni erano sostanzialmente due: da un lato, bloccare gli stranieri «pericolosi», cioè coloro che rappresenterebbero un rischio per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionali; e, dall’altro, accelerare le procedure per il rimpatrio, riducendo le possibilità delle persone migranti di usare la protezione internazionale in maniera «strumentale» (ossia per evitare l’espulsione) e arrivando al punto di detenerli.
È su queste basi che si inserisce il decreto Sicurezza dell’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini (convertito con la Legge 132/2018), tramite il quale, infine, la detenzione amministrativa viene definitivamente trasformata in «uno strumento cardine di governo dei fenomeni migratori con preoccupanti ricadute sul sistema generale di tutela dei diritti dei migranti», come commentato dal Garante Nazionale per le Persone Detenute. I decreti Salvini (decreto Sicurezza Bis poi convertito con la Legge 77/2019) aumentano la detenzione fino a 6 mesi e introducono la possibilità di recludere i richiedenti asilo negli hotspot per 30 giorni e successivamente trasferirli nei Cpr. Alla luce di queste misure la detenzione degli stranieri diventa quindi sempre più, come notato dal Garante Mauro Palma, uno strumento di selezione di quei gruppi di migranti considerati particolarmente «indesiderabili» a causa della loro «marginalità sociale» o della presunta «pericolosità», rafforzando ulteriormente il problematico binomio «migrazione-criminalità». La detenzione si rivela nella sua sottesa natura di pratica di difesa sociale e «pulizia» dello spazio urbano, iniziando a estendersi peraltro anche al di fuori dei soli Cpr, sia negli hotspot che in altri «spazi ibridi» utilizzati per le procedure di identificazione dei migranti.
La pandemia ha funzionato da amplificatore di meccanismi già esistenti, come successo un po’ in ogni settore, sbilanciando ancor di più i rapporti di forza a svantaggio delle persone migranti. In particolare, ciò che il report ha messo in luce è che sebbene il numero di persone detenute sia diminuito durante il periodo di lockdown nazionale, questa riduzione è stata governata da pre-esistenti logiche selettive di controllo sociale: logiche che hanno creato quella «gerarchia di meritevolezza della detenzione» (a hierarchy of detention deserviness). Le donne e i richiedenti asilo sono stati dunque i primi a essere rilasciati, a esser considerati «degni di compassione» da parte delle istituzioni. La marginalità sociale e la presunta «pericolosità» sono invece stati discrimine per continuare a detenere specifiche categorie di persone nel periodo acuto dell’emergenza sanitaria (in cui peraltro la maggior parte dei voli internazionali era sospesa).
In un raid a Bolzano a metà marzo, diversi stranieri senza fissa dimora sono stati ad esempio prelevati e portati al Cpr di Torino Corso Brunelleschi. Nello stesso centro, da aprile gli unici ingressi sono stati quelli di detenuti provenienti dalle carceri. A Palazzo San Gervasio, in Basilicata, i detenuti hanno denunciato la presenza nel centro di persone con problemi mentali, vittime di diverse forme di abuso.
Anche a Gradisca d’Isonzo ci sono stati trasferimenti dalle carceri che hanno portato il virus all’interno del Cpr, dove è poi dilagato. A fine aprile, è stato contagiato un ragazzo marocchino, a cui pochi giorni prima era stata prorogata la detenzione amministrativa dal Giudice di Pace, nonostante il fratello, residente in Italia e con i documenti in regola, si fosse offerto di ospitarlo. L’avvocato del ragazzo in questione ha presentato un esposto alla Procura di Gorizia per valutare eventuali profili di illiceità penale di questa detenzione estesa. Il caso ha nuovamente messo in luce la controversa figura dei Giudici di Pace, giudici onorari non togati, e retribuiti a cottimo in base alle prestazioni svolte. Normalmente dovrebbero esprimersi in merito a cause civili dallo scarso valore economico e reati di facile valutazione, decisamente non su situazioni così delicate che riguardano la privazione della libertà personale. Durante il lockdown la tendenza di questi attori istituzionali a convalidare le misure detentive è stata ampiamente confermata, mostrandosi peraltro in contraddizione con le linee guida abitualmente adottate dai giudici delle sezioni specializzate dei Tribunali.
Questi esempi confermano come le la logica igienico-sanitaria di controllo sociale abbia intersecato le logiche selettive della detenzione. In particolare, e soprattutto per quanto riguarda le categorie «vulnerabili», è stata adottata la logica del «confine to protect», ovvero, del detenere gli stranieri per proteggerli dalla diffusione del virus. Ovviamente, il «confine to protect» si regge su un’ambiguità di fondo, dato che la medesima frase potrebbe essere riscritta, ribaltandone totalmente il significato: «detenere gli stranieri per proteggerci dalla diffusione del virus». Già dal primo lockdown, quindi, quando il mondo era bloccato – e pure gli sbarchi erano in netto calo – si intravede l’emergere di una nuova categoria, «il migrante contagioso».
Prima di vedere come si è evoluto nella pratica questo nuovo dispositivo retorico, vale la pena entrare dentro i Cpr durante il periodo del lockdown nazionale per mostrare come in questi luoghi la protezione dei detenuti dal contagio sia stata tutt’altro che garantita.
Vite recluse, vite precarie
Già da tempo, detenuti, ex-detenuti, attivisti e ricercatori hanno denunciato l’abbandono che domina le vite delle persone rinchiuse nei centri di detenzione per stranieri, e di come questa realtà sia tenuta lontana dall’interesse dell’opinione pubblica. Questa sensazione di abbandono è anche ciò che spesso distingue il regime di vita all’interno dei Cpr dalla vita in altre istituzioni detentive, come le carceri, dove la quotidianità è scandita dal disciplinamento minuzioso di ogni singolo aspetto delle giornate dei reclusi.
Durante il lockdown, negligenza e abbandono sono state alla base delle condizioni di vita precarie delle persone detenute. Oltre all’assenza del distanziamento fisico necessario per prevenire il contagio, ai detenuti in molte occasioni non sono state neanche fornite adeguate informazioni sul virus né sono stati distribuiti i dispositivi di protezione personale per tutelare la loro salute. Da Nord a Sud, nei Cpr di tutta Italia la situazione all’interno è stata drammatica dal punto di vista sanitario e psicologico, e le proteste dei reclusi scoppiate nelle strutture sono state perlopiù represse violentemente dalla polizia. Nel Cpr di Roma Ponte Galeria, ad esempio, i detenuti hanno denunciato che gli operatori e le forze dell’ordine hanno continuano a operare senza protezioni fino ad aprile, costringendo così i detenuti e le detenute a ridurre i loro già limitati momenti di socializzazione, per tutelare la propria salute e ridurre il rischio di un contagio proveniente dall’esterno. Le condizioni di isolamento si sono fatte ancora più dure a causa della sospensione delle visite da parte di parenti e amici che, a Roma, non sono state sostituite da nessuna alternativa in videochiamata. In questa situazione di precarietà, diversi momenti di protesta, individuale e collettiva, sono esplosi all’interno del centro.
Il 17 Marzo, per ottenere l’attenzione dell’ente gestore romano verso le richieste dei detenuti e delle detenute che non si sentivano al sicuro, una donna tunisina ha ingerito della candeggina. Al silenzio delle istituzioni, la donna ha risposto, insieme ad altre tre compagne, cominciando uno sciopero della fame per ottenere un miglioramento delle condizioni e la fine della loro detenzione. Un mese dopo, il 25 Aprile, all’inizio del Ramadan, la maggior parte degli uomini detenuti si è mobilitata per chiedere al direttore del centro delle porzioni di cibo più abbondanti la sera, visto il digiuno osservato durante il giorno. La risposta è stata fortemente repressiva, con la polizia che ha caricato ripetutamente i detenuti e si è accanita in particolare su due persone che, come raccontato da alcuni detenuti, sono state colpite da diverse manganellate e calci:
Qui siamo in trenta, in venti facciamo il Ramadan. Abbiamo fatto un’istanza scritta e una protesta pacifica perché non ci vogliono ascoltare. Sono arrivati col bastone, dicendomi «hai rotto il cazzo».
Gli enti gestori hanno dunque avuto un ruolo centrale nel velo di opacità che è calato sui Cpr durante la pandemia: negligenti per quanto riguarda l’implementazione delle misure di sicurezza sanitaria, hanno assistito passivamente alla violenta repressione di qualsiasi richiesta e protesta da parte della polizia.
Di fronte a queste oggettive condizioni di abbandono, sono scoppiate delle rivolte in tutti i centri sia nei mesi prima della pandemia che durante il lockdown. A maggio, quando le restrizioni venivano allentate in tutta Italia, due centri – Caltanissetta e Palazzo San Gervasio – sono stati chiusi per effettuare i lavori di ristrutturazione necessari dopo le distruzioni operate dalle rivolte dei detenuti. In Italia i centri chiudono soltanto così, quando le persone all’interno mettono a rischio la propria incolumità, manifestando il proprio disagio e la propria rabbia. E chiudono nel silenzio, così come nel silenzio sono stati gestiti, con lo scopo finale di invisibilizzare le persone detenute all’interno.
Oltre il lockdown: nuove strategie
Dall’estate, e nel silenzio, è avvenuta un’ennesima «reinvenzione» nell’utilizzo dei Cpr, nel solco della detenzione selettiva praticata durante i mesi di lockdown.
Il primo elemento è comparso già ad aprile, quando con il decreto «Porti Chiusi», il governo ha dichiarato che l’Italia non era più un paese sicuro. La conseguenza è stata l’istituzione delle navi quarantena, che sono diventate il primo passaggio obbligato per chiunque sia arrivato in Italia via mare da quel momento in avanti. Il «confine to protect» si è dunque esteso al di fuori dei Cpr, creando un ibrido tra accoglienza e detenzione, per cui gli stranieri devono spendere a bordo di queste imbarcazioni i giorni necessari alla quarantena. Il Garante ha riassunto bene le problematicità di questa misura:
La realizzazione delle misure di quarantena in luoghi straordinari ed eccezionali non può comportare una situazione di «limbo»: le persone migranti sono sotto la giurisdizione dello Stato Italiano ai fini delle misure sanitarie loro imposte, ma al contempo non hanno la possibilità – e per un periodo di tempo non indifferente – di esercitare i diritti che il nostro Paese riconosce e tutela. Non possono chiedere asilo, non sono di fatto – e quanto meno temporaneamente – tutelati in quanto vittime di tratta o minori stranieri non accompagnati, né possono tempestivamente accedere alle procedure per il ricongiungimento familiare ai sensi del Regolamento Dublino.
Già ad aprile, dunque, si è configurata una nuova categoria da prendere di mira e potenzialmente rinchiudere: dopo il «pericoloso» e il «marginale», ora «il contagioso». E, durante l’estate, il «contagioso» è stato accostato pericolosamente a «i tunisini», che hanno continuato a sbarcare sulle coste italiane nel tentativo di scappare da una situazione di crisi economica e sociale devastante (a causa anche dell’italianissima Eni). Ne è seguito l’accordo sui rimpatri tra Italia e Tunisia, firmato dalla ministra Lamorgese. Ed è in quest’ottica che si situa la riapertura del Cpr di Via Corelli a Milano. Infatti il centro, così come quello già in funzione di Ponte Galeria a Roma, è vicino a un aeroporto internazionale (Linate per Milano, Fiumicino a Roma), rendendo più efficiente tutto il sistema: dalle navi, al Cpr all’aeroporto, e in poco più di due settimane il «tunisino contagioso» non è più in Italia.
Prospettive
La storia dei Cpr è una storia di abbandono e invisibilità, squarciati soltanto dagli atti di rivolta che i detenuti e le detenute stesse mettono costantemente in atto e dai tentativi di attivisti e attiviste di rompere il muro di silenzio e omertà che isola questi luoghi dalla quotidianità delle nostre vite. Il report è un lavoro di ricerca militante e uno strumento da utilizzare in un momento in cui l’esistenza stessa di questi luoghi è diventata un paradosso: senza possibilità di rimpatrio, i Cpr hanno continuato a operare, diventando esplicitamente uno strumento di «difesa sociale». Nel silenzio del dibattito pubblico, le voci degli attivisti e delle attiviste sono rimaste le uniche a provare squarciare il velo di opacità che aleggia su questi luoghi.
Eppure la pandemia è anche un momento di crisi adatto per ripensare l’esistenza di questi luoghi, o meglio per immaginarne l’inesistenza. A distanza di 22 anni dalla loro apertura abbiamo capito che per la loro definitiva chiusura sia essenziale l’azione delle persone recluse, per poter sovvertire queste istituzioni dall’interno. Le loro rivolte vanno sostenute e appoggiate dall’esterno con mobilitazioni determinate che ribadiscano l’irriformabilità di queste strutture e attraverso il lavoro di giuristi militanti. La denuncia di attivisti e giuristi deve inserirsi però in un quadro più ampio. La pandemia ci permette di tracciare una linea di connessione tra istituzioni totali che hanno diversi gradi di legittimazione – carceri, Cpr, tendopoli dei braccianti – ma che non sono chiaramente in grado di garantire la tutela dei diritti basilari. La chiusura dei Cpr non puó che passare dalla messa in discussione dei valori che legittimano la detenzione nelle sue infinite forme.
*Francesca Esposito è ricercatrice post-doc presso l’Università di Oxford. Emilio Caja è laureato in scienze politiche e sociali all’Università di Oxford. Giacomo Mattiello è laureato in triennale in scienze politiche all’università degli studi di Milano ed è studente di Antropologia Culturale ed Etnologia all’università di Torino.
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