L’odio e una scritta sui muri di Bologna
Un post del cantante de Lo Stato sociale Lodo Guenzi è l'occasione per affrontare alcuni nodi di fondo: i muri puliti sono di sinistra? Amore e odio nei conflitti sociali sono un'alternativa netta? Il fascismo nasce da una scritta?
Sabato 29 giugno a Bologna c’è stato un «super corteo», come lo ha chiamato perfino La Repubblica. Migliaia di persone hanno manifestato per lo spazio pubblico autogestito XM24, minacciato di sgombero dall’amministrazione comunale. Non si è trattato di un corteo tipicamente «militante», ma di una straordinaria espressione d’affetto, solidarietà e vicinanza: il pezzo migliore della città è sceso in strada per XM24 e contro lo svilimento e la messa a profitto degli spazi pubblici, della cultura, dell’immaginario e della combattiva storia delle autogestioni bolognesi.
Nei giorni successivi la politica istituzionale cittadina ha dimostrato di vedere, di tutta questa ricchezza, solo le scritte sui muri comparse contestualmente al corteo. La politica di palazzo guarda il muro, fissa il muro, come fa chi non sa dare una risposta a ciò che gli sta dicendo la persona che ha davanti – in questo caso migliaia di persone. L’assessore alla sicurezza Aitini, uomo di estrema destra del Pd, coglie l’occasione per fare la lezioncina su cosa sia di sinistra:
«Ma io mi domando e chiedo: è di sinistra imbrattare i muri della città? Io penso di no. Manifestare è un diritto, ma calpestare i diritti degli altri non lo è. Chi pulirà ora i muri? I cittadini o il Comune, coi soldi dei cittadini. È giusto? Per me no. Chi era alla manifestazione accusa la destra di calpestare i diritti, ma loro fanno la stessa cosa». (La Repubblica Bologna, 1 luglio)
I muri puliti e silenti sono di sinistra: Aitini ripropone la stessa sbobba scodellata già dallo sceriffo Cofferati e dal dimenticatissimo sindaco Delbono. Come se «sinistra» fosse un criterio estetico e non sociale. La seconda parte del ragionamento di Aitini è giusta, però: spendere soldi per cancellare i graffiti è una brutta cosa. E infatti è ora di smetterla di cancellarli, e piantarla una volta per tutte con queste campagne di pulizia e di polizia.
Ancora pochi giorni e, finalmente, quel discorso si placa. Ed è a quel punto che lo riaccende Lodo Guenzi – de Lo Stato Sociale – con un post sul suo profilo Instagram. Guenzi prende di mira la scritta «Salvini muori» comparsa sotto casa sua e annuncia: «fra una settimana se è ancora lì la cancello io». Scrive:
«Questa scritta mi fa schifo […]. Dovremmo lasciare ad altri queste cazzate, le minacce di morte alle famiglie sinti a cui consegnano la casa popolare, gli “spero che i negri ti stuprino troia” a carola rackete, i “bruciamo i rom”. Lasciamo ad altri questo schifo e scegliamo l’intelligenza, il paradosso, l’ironia, il gioco, la poesia e la passione. Anche nello scontro, soprattutto nello scontro. Perché frasi come queste sono merda fascista, e non fanno che costruire una società fascista. Non so quando abbiamo cominciato ad arrenderci a questo squallore, ma risponde[re] alla merda con la merda farà sempre e solo vincere la merda».
Provo qui di seguito a mettere in fila i motivi del disagio che mi provocano le parole di Guenzi, motivi che rimangono inalterati anche di fronte alla (comprensibilmente imbarazzata) «risposta» di Lodo all’apprezzamento di Salvini. Voglio però, in premessa, ricordare che Lo Stato Sociale, due anni fa, ha firmato un appello per XM24 di cui ero tra i promotori, e quindi considero esista con loro un terreno comune, un comune sentire di fondo, che rende giusto dirsi quando e perché non ci si trova sulla stessa lunghezza d’onda.
Non ora, non qui
Il primo punto è una banalità di base e come tale va posta, appunto, alla base. La politica di palazzo, come ho detto, non risponde alle istanze di XM24, e la butta sulle scritte. Quindi alimentare il discorso sulle scritte, anche nel modo abissalmente diverso da Aitini con cui lo fa Guenzi, finisce per nutrire quello stesso frame. Le parole di Lodo non cadono infatti nel vuoto, ma in un tessuto discorsivo già formato, e questo tessuto è teso a ricordarci che non importa cosa dica una manifestazione, ma solo le scritte che eventualmente lascia.
Se Guenzi voleva proprio dire questa cosa sugli auspici di morte, doveva farlo in un modo che non potesse essere lodato dalle persone che – nel suo stesso post – dice di voler contrastare. Invece i leghisti subito lo apprezzano, come si può leggere su Il Giornale (online, 5 luglio):
«“Non sono un grandissimo fan dei cantanti che fanno politica, ma il suo gesto dimostra una grande intelligenza ed educazione. Spero che sia un esempio per i tanti antidemocratici che imbrattano le sedi della Lega, ci aggrediscono e usano toni che non hanno nulla di civile”, ha affermato il commissario provinciale della Lega, Carlo Piastra».
La sola intelligenza che conoscono i leghisti è l’intelligenza del male. Sentirsi dare dell’intelligente da questi immagino sia solo un dispiacere per Lodo Guenzi. Ma non è finita. A testimonianza delle dimensioni dell’errore di Guenzi, arriva l’apprezzamento di Salvini:
«Grazie. Segno di educazione. Spero che sia un esempio per tanti a sinistra che imbrattano muri e usano toni che non hanno nulla di civile!»
Da quando siamo così ripuliti?
Torno a quello che scrive il musicista: «Dovremmo lasciare ad altri queste cazzate, le minacce di morte […]. Non so quando abbiamo cominciato ad arrenderci a questo squallore». Premesso che la scritta non esprime una minaccia ma un auspicio (la differenza non è irrilevante), ribalterei la formula di Guenzi. Invece di «non so quando abbiamo cominciato ad arrenderci a questo squallore» direi invece: da quando siamo diventati così ripuliti, così pudici, da non tollerare neppure la vista di una scritta come questa?
Da sempre gli oppressi, le vittime, sperano che il destino, dio, o l’eccesso di cibo, gli levino di torno il potente che li opprime. Esorcizzare questo auspicio non porta a nulla se non all’autocensura, e non aiuta a fare il passaggio successivo, ovvero raggiungere la consapevolezza che gli oppressori vanno sconfitti storicamente, e non (solo) maledetti.
Non lontano da quella messa al bando da Guenzi, c’è un’altra scritta, che trovo bellissima: «AMORE», in maiuscolo e con l’iniziale cerchiata. Ecco: la dialettica tra amore e odio, nei rapporti sociali e politici, non è un’alternativa secca. Nello scontro, «anche nello scontro, soprattutto nello scontro», i due elementi sono impastati, inscindibili. E non è l’odio in sé che deve far paura, ma l’odio malriposto. L’odio per i potenti, per gli oppressori, è un sentimento d’amore per l’umanità.
Scriveva Bertolt Brecht negli anni Trenta:
Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
E non si dimentichi, soprattutto, che stiamo parlando di una scritta. E lo stiamo facendo mentre l’odio con forza militare e di legge, quello indirizzato dai Minniti e dai Salvini, provoca, con atti e consapevoli omissioni, disperazione e morte in mare, nei campi libici, sulle montagne, nei miseri rifugi delle vite marginali.
Il fascismo non è una scritta
Il fascismo, e una società fascista, non si genera per contaminazione a partire da una scritta o da un generico clima di odio. Il fascismo è il risultato di problemi sociali a cui viene risposto con la creazione di nemici fittizi. Il capitalismo produce miseria e ingiustizia; i padroni temono che questa ingiustizia possa ritorcerglisi contro e pretendono dai governi provvedimenti repressivi nei confronti di chi, a quell’ingiustizia, si oppone; i socialdemocratici e i liberali balbettano; i fascisti a quel punto emergono e fanno, senza falsi pudori, il lavoro sporco per il padronato. I fascisti dicono cose chiare, e un bel pezzo di stampa borghese ci va subito dietro, e commenta: «finalmente qualcuno che dice cose chiare!», e c’è sempre anche un Rampini che sostiene che quelle stesse cose così chiare è giusto dirle, pari pari, anche a sinistra. Quelle cose così chiare sono, appunto, la produzione di nemici fittizi; e quelle cose chiare, nella prassi fascista, significano sofferenza e morte per le persone che sono state elette a nemici fittizi.
Tutto questo parte da scritte? Certo: tutto, nella società umana, parte dalle parole, è vero. Ma le parole che edificano il fascismo sono quelle dei giornali, dei politici e dei mezzi di comunicazione servili verso i padroni. Esse alimentano il fascismo ben più delle parole dei fascisti stessi, che invece si trovano il lavoro già fatto a metà. A loro basta dire le stesse cose senza falsi pudori, appunto.
Le scritte e la violenza sono due cose diverse
Nelle parole di Guenzi sembra esserci l’idea di una continuità tra scrivere una cosa che suona violenta e l’agire la violenza. Senza aprire qui il tema della violenza politica e delle sue condizioni o meno di legittimità, ricordo banalmente che tra il dire e il fare c’è di mezzo, appunto, l’atto. Tabuizzare un’espressione d’odio rivolta verso un potente porta a un clima di allarmismo, lo stesso clima che, in occasione di manifestazioni un po’ vivaci, farà parlare smisuratamente di «violenza» nel caso di danni a cose.
Inoltre Guenzi sembra considerare implicitamente sovrapponibili il fascismo e la violenza. Ma non ogni violenza è fascismo: tracciare un’equivalenza tra i due destoricizza e decontestualizza la violenza, e oltretutto ci impedisce di riconoscere il fascismo quando esso si presenta ripulito, sorridente, con la faccia da bravo ragazzo. Ci impedisce di riconoscere il fascismo che c’è, per esempio, nell’ossessione per la pulizia dei muri.
Il retake e il fascismo
Ovviamente Guenzi non condanna tutte le scritte. Sottovaluta però, come ho detto nel primo punto, il modo in cui prendendo di mira una scritta precisa si alimenta la cagnara dei giornali e dei politici contro tutte le scritte.
Veicolo potente di diffusione del fascismo, oggi, è il retake, lo «spugnettismo», e insomma la cancellazione e il silenzio imposto ai muri. Il branco del decoro, indifferente a ogni messaggio umano, sociale o politico, vuole solo cancellare; e cancellare le scritte significa depoliticizzare i muri della città, ed estetizzare la politica urbana. Significa affermare che una città non deve essere un luogo ricco anche dei messaggi che i suoi abitanti affidano ai muri, ma deve essere «bella», di un «bello» patinato a uso turistico.
Cancellare le scritte è il modo per cancellare le voci, e infatti prelude ad aggressioni sempre più marcate al diritto a manifestare il proprio pensiero. Per esempio: a Mantova le autorità locali hanno multato, avendoli riconosciuti nei filmati delle telecamere di sorveglianza, dei compagni che attaccavano manifestini antifascisti con il nastro adesivo (sic!). Il decoro non è neutro: il decoro è di destra.
Queste cose di certo Guenzi le sa e le capisce; eppure la sua uscita, involontariamente, alimenta quella retorica delle «spugnette» che vuole città «belle», e cioè città sterilizzate e fascistizzate. E infatti, riferisce il Corriere, dopo il post di Guenzi,
«sono entranti in azione i No Tag Bologna, la speciale squadra composta da ragazzi delle cooperative sociali cittadine formate apposta dall’amministrazione comunale per pulire la città dai graffiti e dagli scarabocchi, che hanno provveduto alla cancellazione della scritta».
Le parole contro la supposta violenza di una scritta, così, danno l’occasione per farsi belli agli sterilizzatori della città, ai depoliticizzatori dei muri, ai censori degli «scarabocchi». Ovvero a tutti quelli che – consapevolmente o meno – preparano la strada alla violenza fascista, che si nutre di depoliticizzazione e pulizia estetica, e ne trae repressione e pulizia etnica.
L’ironia è di destra
Lodo Guenzi invita a lasciare «ad altri questo schifo» e a scegliere «l’intelligenza, il paradosso, l’ironia, il gioco, la poesia e la passione». Su alcune cose concordo facilmente. L’intelligenza. La poesia, come quella di Brecht che ho citato. Il gioco, se ci accordiamo sul fatto che il gioco è una cosa seria. Il paradosso e l’ironia, invece, mi lasciano assai freddo, e anzi preoccupato. L’alt-right statunitense emerge da un magma di ironia e paradossi, dal compiacimento di dire cose orribili per poi accusare chi le contrasta di non essere sufficientemente ironico. Come scrive Gianluca Catalfamo su Doppiozero,
«Quest’accozzaglia di gruppi reazionari, eterogenei ma uniti dalla lotta contro il mainstream – reale o percepito – del politicamente corretto, a furia di decostruire tutto ha generato una cultura apertamente filonazista, ironica, accettabile. Richard Spencer concludendo un comizio con “Hail, Trump” ha prontamente dichiarato che lui e tutto il suo pubblico erano ironici».
Restando qui da noi, è sotto gli occhi di tutti come il periodo dei comici, degli autori satirici a cui una sinistra ubriaca aveva consegnato l’onere di contrastare Berlusconi, sia finito nell’osceno leghismo di complemento di Beppe Grillo o nel trombonismo reazionario di Michele Serra.
Questione di status
C’è infine un ultimo aspetto che vorrei mettere in luce. Anch’esso trascende di molto le intenzioni di Guenzi; nondimeno è attivato dal suo post. Gli articoli di giornale mi fanno intuire che scritta e abitazione si trovino in pieno centro, in un quartiere costoso. Allora non posso fare a meno di proiettarmi interiormente questo film: qualcuno di brutto sporco e cattivo di periferia si porta in centro la sua bomboletta, e coglie il momento propizio per fare una scritta, e in quella scritta riversa il suo odio politico. Più tardi un musicista importante, dotato di millemila followers, decide che è il tempo di spiegare come si deve e non si deve essere di sinistra e antifascisti a qualcuno che ha infinitamente meno occasioni di lui di dire quello che pensa. Non c’è forse una spiacevole questione di status in mezzo a tutto questo? Non è forse una sorta di celebritysplaining, una spiegazione che cade dall’alto della popstar e raggiunge il volgo per spiegare come si fa o non si fa a contrastare il fascismo incombente?
Per quanto sia spiacevole sentirsi dire queste cose, sono convinto che Guenzi abbia la sensibilità adatta a cogliere il punto. C’è un bellissimo spettacolo teatrale, Il giardino dei ciliegi della compagnia Kepler-452, in cui Lodo Guenzi interpreta Lopachin, l’imprenditore che vuol edificare villette abbattendo gli alberi del giardino della famiglia, decaduta, di Ljuba Ranevskaja. Il testo messo in scena da Kepler-452 non è (solo) quello čechoviano, ma è in costante dialogo con la speculazione immobiliare che ruota attorno al food, e lo spettacolo si muove così tra Russia del primo Novecento e Bologna di oggi, trovando il modo anche di raccontare, con un frenetico affresco verbale, il murale di Blu che un tempo copriva la facciata di XM24.
Parlando di supermercati e cemento, a un certo punto Guenzi smette il ruolo di Lopacin, e torna a essere se stesso, mettendo a critica la propria posizione. Trascrivo qui alcune righe degli appunti, entusiasti, che avevo preso dopo aver visto lo spettacolo: «il rischio più grosso, quello di mettere in scena la classe borghese urbana che si china sull’“esotico” e ne narra con affetto la scomparsa, viene disinnescato dichiarandolo in modo inequivocabile, e nel farlo viene anche contestualizzata, anche qui senza infingimenti, la posizione “insostenibile” di Lodovico Guenzi, autore di canzoni “che mettono su nei centri commerciali” e in quel momento, invece, in scena a parlare male di quei centri commerciali stessi».
Dal Lodo fuori scena, oggi, sarebbe bello venisse un’analoga riflessione, altrettanto disinnescante. Perché i colpi che sentiamo avvicinarsi sono le asce dei leghisti che abbattono i ciliegi, e ciò che resta dell’agibilità politica in questo paese. E ogni possibile ironia è sovrastata da quel suono cupo.
*Wolf Bukowski è uno dei guest blogger del sito dei Wu Ming, Giap, è stato redattore della Nuova Rivista Letteraria, collabora con Internazionale, è autore per Alegre di La danza delle mozzarelle, La santa crociata del porco ed è appena uscito, sempre per Alegre, il suo La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro.
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