Lovecraft all’epoca della segregazione
La serie Tv «Lovecraft Country», unisce le macabre storie dell’orrore dello scrittore statunitense con l'orrore reale della vita degli Usa negli anni della segregazione. Mostrando che il mostro più spaventoso è il suprematismo
Lovecraft Country è una nuova notevole serie di dieci episodi prodotta da Hbo, che porta avanti il fortunato progetto di Jordan Peele di tradurre l’esperienza dei neri e delle nere statunitensi nel cinema horror. Get Out, scritto e diretto da Peele nel 2017, è stato il suo debutto alla regia, ed ha dimostrato, sin dalla prima, memorabile, scena, come questo nuovo sottogenere possa funzionare alla perfezione. Un nero (interpretato da uno straordinario Lakeith Stanfield, ormai diventato molto famoso) si perde, dopo il tramonto, in un suburb bianco e benestante, e prova a venirne fuori prima che la polizia o qualche paranoico abitante locale se la prenda con lui. Viene avvicinato quasi subito da una decappottabile costosa con i vetri oscurati che lo segue lentamente, dalla quale proviene una canzone inquietante – inglese, pre-Seconda guerra mondiale – dal ritornello allegro e spaventoso: «Run, Rabbit, Run». Viene rapito da un assalitore sconosciuto, e noi ci troviamo avvolti nelle misteriose «sparizioni» di maschi neri in quella zona.
Dopo Get Out, Peele ha ampliato il progetto scrivendo e dirigendo Us, e figurando come co-creatore (con la showrunner Misha Green) e produttore esecutivo di Lovecraft Country, che ugualmente inizia con la misteriosa «scomparsa» di un afroamericano.
Horror noire
Peele non è però il primo regista a esplorare l’oppressione razziale attraverso la lente del genere horror, ma l’incredibile successo di critica e pubblico dei suoi lavori lo hanno reso particolarmente conosciuto. Come mostra il documentario di Xavier Neal-Burgin, Horror noir, esiste una lunga tradizione di film di serie B che risale all’epoca della blaxpoitation degli anni Settanta e oltre.
Un esempio di questo cinema di protesta antirazzista è Blacula (1972) di William Crain, in cui un principe africano del diciottesimo secolo diventa un vampiro nella Los Angeles contemporanea dopo aver tradito il giuramento di abolire la schiavitù. O Ganja & Hess (1973) di Bill Gunn, in cui un antropologo nero diventa un vampiro e in maniera simile logora la trama di Dracula per riflettere sull’eredità della supremazia bianca. Entrambe queste pellicole fanno riferimento a un’epoca in cui i film horror afroamericani, stilisticamente innovativi e politicamente ricchi, fiorivano a dispetto di budget limitati.
Se la categoria di «horror noire» viene ampliata fino a includere film horror diretti da bianchi ma con attori neri in ruoli chiave, Duane Jones è una figura importante, avendo interpretato il Dr. Hess Green in Ganja & Hess dopo aver ricoperto il ruolo di Ben nel film zombie, pioniere del genere, La notte dei morti viventi (1968). L’aver scritturato Duane Jones, una scelta che George A. Romero ha sempre sostenuto fosse stata colorblind, ha dato un forte impatto a questo film leggendario, e l’ha reso un punto di svolta per il dibattito razziale negli Stati uniti. I poster pubblicitari mostravano il personaggio di Ben che prendeva a pugni un uomo bianco di mezza età in una sfida per la leadership della piccola casa di sopravvissuti all’attacco zombie, e il film si conclude con l’efferato omicidio di Ben da parte di una folla bianca guidata da poliziotti che – teoricamente – l’avevano scambiato per zombie.
Ma probabilmente l’horror noire più conosciuto è il franchise di Candyman, iniziato nel 1992. Tony Todd interpreta il protagonista Daniel Robitaille/Candyman, il figlio di uno schiavo che viene linciato dopo essere diventato un artista rispettato ed essersi innamorato di una donna bianca. Candyman terrorizza gli abitanti impoveriti degli alloggi pubblici di Cabrini-Green a Chicago, costruiti sopra la sua tomba senza nome. Gli alloggi di Cabrini-Green sono famosi per essere stati fatti sprofondare nel degrado e nella criminalità, e poi utilizzati come esempio per condannare l’edilizia pubblica negli Stati uniti.
Brughiera maledetta
In Lovecraft Country il protagonista Atticus «Tic» Feeman (Jonathan Majors di The Last Black Man in San Francisco e Da 5 Bloods), un veterano della Guerra di Corea, ritorna a Chicago sapendo che il padre, Montrose Freeman (Michael Kenneth Williams) risulta scomparso in circostanze misteriose sulla strada per Arkham, Massachusetts, la terrificante «brughiera maledetta» che fa da sfondo al capolavoro di H. P. Lovecraft, Il colore venuto dallo spazio – un luogo evitato da tutti. Ciononostante, Tic si propone di trovarlo, accompagnato dallo zio George Freeman (Courtney B. Vance) e dalla sua amica d’infanzia Letitia «Leti» Dandridge (Jurnee Smollett). Il gruppo dovrà attraversare la «Lovecraft Country» – una parodia degli Stati uniti dell’epoca [delle leggi segregazioniste] Jim Crow – popolata da mostri ispirati a Lovecraft e da razzisti bianchi che si assicurano che nessun luogo dell’«entroterra» sia un posto sicuro per i neri. Va notato che i membri principali del cast sono così bravi, carismatici e belli che le debolezze del primo episodio passano in secondo piano.
Lo zio George ricerca e scrive i «green book», guide per viaggiatori neri che devono trovare posti per mangiare e dormire in un periodo in cui la gran parte dei ristoranti e degli alberghi si rifiutano di servire od ospitare cittadini neri. Il suo lavoro sul campo porta il gruppo in una tavola calda chiamata Libby’s, che si dice sia un rifugio per clienti neri. Ma la tavola calda ha ora un nuovo nome e una nuova gestione, e l’atmosfera è tutto tranne che accogliente. Letitia, camminando con disagio verso il bagno, sente dire al cameriere al telefono: «Certo che non li serviamo, non dopo quello che hai fatto a Libby!».
Leti, Tic e George riescono a malapena a uscire dal ristorante e dalla città dopo essere stati inseguiti da un manipolo di zoticoni armati. E questa scena è rassicurante se confrontata con la successiva caccia all’uomo in una «sundown town» [letteralmente città del tramonto, Ndt], una cittadina dove alle persone nere viene impedito per legge di uscire dopo il tramonto. Pedinati da un poliziotto sadico che ha tutte le intenzioni di arrestarli per qualcosa e poter così sfogare ogni tipo di violenza, il gruppo è costretto a restare al di sotto dei limiti di velocità, guidando lentamente verso il confine un minuto prima che il sole tramonti.
Il materiale a cui attinge lo show, un omonimo romanzo del 2016 di Matt Ruff, evoca l’autore della weird fiction statunitense H. P. Lovecraft, un fervente suprematista bianco del New England, noto sia per il suo razzismo feroce che per la geniale capacità di inventare mondi dell’orrore. Lovecraft esprime il suo razzismo in modo diretto in molte delle sue storie. In uno dei suoi racconti più famosi, Il richiamo di Chtulhu, un investigatore prova a cercare l’origine della «grottesca, ripugnante, apparentemente antichissima statuetta di pietra» di «un mostro dall’aspetto vagamente antropoide, dotato di una testa di piovra il cui volto era una massa di appendici tentacolari, di un corpo ricoperto di scaglie dall’aspetto gommoso, tutti e quattro gli arti che terminavano in giganteschi artigli e [con] lunghe, strette ali in emersione dal dorso… [in una] minacciosa posa accovacciata su un blocco rettangolare, o piedistallo, di colore nero, coperto da caratteri indecifrabili». Individua una setta di uomini «di sangue misto» che pratica cerimonie d’adorazione alla statua nelle paludi vicino a New Orleans: «Privi di vestiti, quegli esseri ibridi ringhiavano, ruggivano, fluivano attorno al mostruoso fuoco a forma di anello. Al centro dell’anello […] del tutto incongrua nelle sue minuscole dimensioni, era collocata la ripugnante statuetta di pietra». La polizia interrompe la cerimonia orgiastica, picchiando e uccidendo molti dei «fedeli mulatti». I sopravvissuti interrogati in seguito dalla polizia sono descritti come segue:
Tutti i prigionieri risultarono essere uomini dei più infimi livelli sociali, di sangue misto e tutti con aberrazioni mentali. La maggior parte erano marinai, e una presenza di negri e mulatti, soprattutto delle Indie Occidentali e della colonia portoghese delle Isole di Capo Verde, conferiva una sfumatura voodoo all’eterogeneo culto. Ma ancora prima che tante domande venissero poste, apparve manifesto che era coinvolto qualcosa di molto più profondo, e molto più ancestrale, dell’adorazione di un qualche feticcio africano.
In Lovecraft si tratta sempre di qualcosa di molto più profondo e antico della razza umana. Dopo aver visto il primo episodio di Lovecraft Country non mi è ancora chiaro quanto interessino allo show le antiche entità di Lovecraft che cacciano l’umanità da millenni e sono sempre «evocate» per riapparire al presente nei racconti di Lovecraft. Ma c’è sicuramente un forte interesse nel prendere la tendenza di Lovecraft a descrivere le persone di colore come mostruose, quasi al pari delle stesse Eldrich Abomination, e rovesciarla, mostrificando invece i bianchi razzisti.
Cosa c’è di sbagliato?
La rappresentazione fumettistica dei personaggi bianchi mostrificati di Lovecraft Country è stata fonte di lamentele – un’eccezione rispetto a una serie generalmente molto elogiata. In un articolo dell’Atlantic intitolato «Cosa sbaglia Lovecraft Country nell’horror razziale», Hanna Giorgis sostiene che:
Lo show passa molto tempo a concentrarsi sulla mostruosità quasi fumettistica dei personaggi bianchi, tanto da invalidare lo sviluppo dei protagonisti neri. È chiaro che la serie pensa che il razzismo sia un male, molto più degli stessi shoggoth di Lovecraft… Ma a metà della serie mi sono chiesta chi siano davvero Atticus, George e soprattutto Letitia (un classico archetipo del «personaggio femminile forte»). Cosa anima i personaggi neri di Lovecraft Country quando non stanno combattendo contro i razzisti, che siano uomini o bestie? In questo modo, lo show semplifica inavvertitamente la realtà della supremazia bianca schiacciandola sull’allegoria mostruosa, mentre tratta i protagonisti neri più come un mezzo per criticare il razzismo statunitense che non come personaggi autonomi.
È probabilmente il mio amore per le convenzioni dei film di genere che riesce a non farmi pesare che i personaggi bianchi razzisti non siano pregni di particolari sfumature. Se uno sceriffo sta minacciando di impiccare a un albero tre persone nere per aver girato nella sua contea dopo il tramonto, a chi importa se in altre circostante è invece – per dire – un uomo mite, un padre devoto e un chitarrista particolarmente dotato? Non riesco nemmeno a vedere la mancanza di sviluppo psicologico dei tre personaggi principali lamentato da Giorgis. Mi è piaciuta invece molto l’insistenza mostrata dallo show sul loro equilibrio, i loro pensieri privati strenuamente difesi, e la loro segretezza, che sembra estremamente rivelatrice della vita che sono costretti a condurre sotto l’assedio della supremazia bianca.
C’è un meraviglioso intermezzo all’inizio del primo episodio, quando l’autobus su cui viaggia Tic si rompe. Lui e un’altra passeggera nera con cui ha interagito sul retro dell’autobus, una donna magra di mezza età, si limitano a stare seduti e aspettare, finché non arriva un camion per trasportare i passeggeri in città verso un altro autobus. Tic, un topo di biblioteca, torna a leggere la sua fantascienza, che narra di prodezze possibili nella finzione ma molto improbabili per lui, dal momento che non ha mai dovuto fare i conti con pericoli straordinari nella sua vita quotidiana. Sembra chiaro che nessuno dei due neri si aspetta che gli verrà permesso di viaggiare così a stretto contatto con i passeggeri bianchi sistemati sul camion, ed entrambi sanno che dovranno camminare verso la città trascinandosi dietro i bagagli – esattamente ciò che succede subito dopo. La tensione della scena, quando Tic alza lo sguardo e incontra quello dell’autista che lo sta fissando, è costruita sull’aspettativa di ulteriori abusi, e ci si chiede se Tic e la donna di mezza età verranno aggrediti verbalmente per il solo fatto di essere neri e aver guardato verso il camion che avrebbe potuto trasportare in città anche loro.
Perché, in generale, l’insulto è un di più rispetto alle violenze della vita quotidiana dell’epoca Jim Crow. Il solo mettere in moto un automobile porta Tic, George e Letitia a subire molestie da parte di un teenager bianco, che li insulta a voce alta urlando e grattandosi come a imitare una scimmia. E mentre si allontanano sorpassano un cartellone che pubblicizza il mix per pancake di Aunt Jemima, con la sua famosa immagine stereotipata di mammy, un’eredità dello schiavismo (la Quaker Oats Company, che possiede il brand di Aunt Jemima, il 17 giugno del 2020 ha annunciato che ritirerà sia il nome che l’immagine come passo «verso l’uguaglianza razziale»).
Lovecraft Country non va per il sottile su queste cose, anzi, forse le enfatizza anche troppo, le rende meno onnipresenti nella società in esame presentandole con primi piani vistosi e spiegandole in modo un po’ stiracchiato nei dialoghi. Ma è strano e demoralizzante leggere articoli, come il recente pezzo di Insider, che suggeriscono che una tale enfasi sia necessaria a spiegare gli artefatti razzisti del passato al pubblico contemporaneo. La presunzione è che le persone non avrebbero notato l’inquadratura persistente del cartellone di Aunt Jemima o lo avrebbero male interpretato, e lo stesso vale per i «green books» o le «sundown towns». Anche la comparsa eroica nel primo episodio del giocatore di baseball Jackie Robinson – il leggendario numero 42 – viene spiegata dall’Insider, così come la voce narrante di James Baldwin, presa da un famoso dibattito in cui smontava le tesi in difesa dell’uguaglianza e delle pari opportunità offerte dagli Stati uniti dell’ultraconservatore William F. Buckley, Jr.
Ma se l’Insider avesse davvero voluto svolgere una funzione educativa, avrebbe potuto sottolineare molti altri dettagli che riguardano lo show. Per esempio, la copia del Conte di Montecristo di Alexander Dumas, scoperta da Tic nell’appartamento del padre scomparso, non è significativa solo perché il romanzo racconta di un «uomo che è stato incarcerato ingiustamente e poi è scappato». È anche un riferimento al retaggio razziale di Dumas – suo padre, un generale, era nato ad Haiti da un nobile francese e da una schiava nera. E il cognome di Letitia, Dandridge, fa riferimento alle straordinarie e incredibilmente talentuose sorelle Dandridge, Vivian e Dorothy, che diventarono famose esibendosi al Cotton Club di Harlem – e, in particolare, a Dorothy Dandridge, la prima star nera del cinema statunitense, la cui tragica rovina può essere imputata ai ruoli stereotipati e razzisti che le venivano imposti e alle tormentate relazioni sia professionali che personali con uomini bianchi abusanti.
Dobbiamo davvero parlare degli antecedenti del nome di Tic, Atticus? La serie tv è ambientata prima del 1960 e, dunque, prima della pubblicazione del famoso best seller Il buio oltre la siepe, che ha come protagonista Atticus Finch, un avvocato bianco che difende un uomo nero ingiustamente accusato dall’accusa di stupro. Forse Tic è stato chiamato così in riferimento all’antica Roma, dove il nome Attico significava «Ateniese» o «dell’Attica», un nome che presumibilmente porta con sé la suggestione delle ricercate tendenze filosofiche ed estetiche dei Greci, ammirate e per la gran parte adottate dai conquistatori Romani. E i greci più colti spesso servivano i Romani in qualità di schiavi. Ma, in realtà, sappiamo che il nome di Tic vuole evocare Il buio oltre la siepe di Harper Lee.
Atticus Finch è stato un personaggio riverito, basato sull’amato padre dell’autrice – avvocato anche lui – Amasa Lee, interpretato nell’adattamento cinematografico del 1962 da Gregory Peck, ma oggi deriso come fantasia liberale: il personaggio di Atticus (così come quello del padre di Lee, Amasa) è stato rivelato essere un segregazionista dalla stessa Lee nel suo secondo romanzo Va’, metti una sentinella (2015), provocando uno shock tra i fan più anziani.
È un groviglio intricato di connotazioni che sembra più ricco e promettente di quanto non suggerisca l’articolo dell’Insider, e potrebbe essere di buon auspicio per il resto della serie, se riesce a sfuggire alle peggiori tendenze di una narrativa horror fin troppo didascalica.
*Eileen Jones è una critica cinematografica di Jacobin Mag e autrice di Filmsuck, Usa. Conduce un podcast dal titolo Filmsuck. La traduzione degli estratti di Lovecraft è di Sergio Altieri, tratta da H. P. Lovecraft, Il dominatore delle tenebre, Feltrinelli 2015. Questo articolo è stato pubblicato su Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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