Non abbiamo bisogno di dittatori del rap
A trent'anni dall'uscita di «Batti il tuo tempo», il disco che diede origine al rap italiano, il mainstream di Guè Pequeno travisa lo spirito e la credibilità di strada di quel genere
Il 24 giugno scorso Rolling Stone ha pubbblicato un’intervista al rapper Guè Pequeno sul suo ultimo album. Il titolo dell’articolo è «Dittatore del rap», una foto lo ritrae in versione statua dorata: «non senza ironia» provano a buttarlo giù ma lui sembra irremovibile.
Non si può negare che la provocazione sia arguta, cavalca furbescamente il periodo caldo e la questione delle statue: alcune se ne abbattono, altre vengono fortemente messe in discussione. Una strategia di clickbait che probabilmente ha garantito a Rolling Stone un picco di visualizzazioni, d’altronde l’album è un’importante operazione commerciale. Guè Pequeno con questo lavoro presenta sé stesso allo stato puro: Mr. Fini, un colossal da diciassette tracce, con molte collaborazioni e contaminazioni musicali, a tratti introspettivo e con un nuovo approccio alla scrittura, usando anche la tecnica dello storytelling.
Premessa: Rolling Stone ha un approccio servizievole e ossequioso quando si occupa di artisti mainstream, basti pensare alla vicenda di Junior Cally a Sanremo e alle giustificazioni usate per legittimare la misoginia nel rap. Anche in quella occasione Rolling Stone aveva una visione opposta alla mia come già si intende dal titolo: Non è un paese per Cally. In questo caso la foto ritraeva Junior Cally con il cappio al collo e il sottotitolo recitava: «I suoi testi e il suo personaggio gli hanno attirato odio e polemiche, ma il rap è un linguaggio a sé e non va interpretato con le lenti del letteralismo né del politicamente corretto alle vongole».
Rolling stone ha un modo di fare giornalismo che funziona molto bene nell’era digitale, dove non è facile attirare l’attenzione: propone foto sensazionali e cerca un’esca che generi polemiche, riuscendoci. Il problema è che propone contenuti mal argomentati, con una visione reazionaria dell’aggettivo «scomodo», e mancando fortemente di senso critico.
La riflessione dell’autore dell’intervista a Gué Pequeno inizia con una premessa volutamente ambigua e si riferisce proprio all’attualità, a temi caldi su cui tutti e tutte in questa fase vogliono dire la loro, spesso senza affrontare il proprio posizionamento privilegiato, relativizzando a semplice opinione personale qualsiasi questione riguardi le minoranze oppresse:
In un contesto del genere, dove anche un movimento sacrosanto come quello del Black Lives Matter nelle mani sbagliate può diventare una sorta di neo-puritanesimo secolare, c’è bisogno di un riferimento a cui non tremi il polso. Gué è questo tipo di personaggio […] siamo figli del nostro tempo, e questo è il tempo in cui le statue vengono abbattute in una furia che ambirebbe all’iconoclastia ma che spesso e volentieri si ferma all’articolo del codice civile che descrive gli atti vandalici.
Ecco un modo di usare il presente politico con un approccio semplicistico alle vongole. Per parlare di Black Lives Matter usando copertine provocatorie che rimandano agli attivisti solo per innalzare l’hype sulla vendita di un album, avrebbero almeno potuto scegliere un rapper che di antirazzismo se ne intende davvero, un rapper nero o di origini straniere, perché non si può parlare di Black Lives Matter escludendo dalla discussione i diretti interessati: chi vive il razzismo sulla propria pelle e ne fa una battaglia quotidiana.
Guè Pequeno però lo sa bene, e alla sua dichiarazione sul fatto che non avremo mai un rapper nero in Italia, aggiunge: «L’Italia è razzista, da sempre e per sempre. Io li conosco i rapper neri, e sono anche bravi, ma non sfondano. Il mercato italiano non è fatto da una base sociale coerente come in Francia o in Germania. Qui il mercato è una moda». Le dichiarazioni sterili di Guè, senza curarsi di muovere un dito, ricevono una risposta indiretta da Amir Issaa:
Se ti appropri di un genere musicale che fa parte di un movimento culturale che è nato dalle minoranze, oggi dovresti dare il tuo contributo a questa causa, a prescindere dalle tue origini; e non serve essere neri per capire che stanno lottando contro oppressione, discriminazioni e ingiustizie.
Quello che Guè intende, forse, è che in altri paesi d’Europa il rap è arrivato grazie alle comunità della diaspora, l’Italia è conosciuta invece come una grande anomalia: la rarità di questo paese è che la traduzione culturale che è stata fatta del movimento artistico hip hop è stata caratterizzata da una mutazione dei valori nordamericani in qualcosa di locale: un processo di glocalizzazione passato – inevitabilmente – per un processo di «sbiancamento» dei valori.
In Italia nel contesto rap, più o meno underground, più o meno mainstream, la regola implicita è che stai facendo qualcosa che alla base non può tradire il valore dell’antirazzismo perché non può ignorare da dove viene questa musica e che messaggi (sociali e politici) ha aiutato e contribuito a veicolare. Questo fa sì che, nella reinterpretazione valoriale dell’identità hip hop, il legame con il proprio quartiere, lo slang, il tipo di scrittura e di linguaggio si applichino con un altro paradigma o, come nel caso del rap mainstream, diventino una sterile posa da sfoggiare come stile estetico di un genere che a quei livelli difficilmente può permettersi di parlare di «credibilità di strada».
Ricorre quest’anno il trentennale di Batti il tuo tempo, il primo disco della crew Onda rossa posse, uno dei primissimi dischi hip hop italiani. Come ricordano gli autori di quel brano, «quel ritornello rappresenta la fine degli anni Ottanta e l’inizio di una nuova era. In Tv dicevano: ‘È il tempo dell’individualismo, del liberismo, della Borsa, la fine di ogni idea di rivoluzione’. Noi rispondevamo: ‘Questo è il nostro tempo! Batti il tuo tempo! Ripigliati la vita!’. Con un linguaggio e un ritmo irresistibile. Qualcuno ci accusò di essere troppo politici e non in linea con i pionieri. Ma nei fatti, proprio l’interpretazione politica e radicale servì ad accettare la sfida di portare il Rap in Italia. A dare un senso ‘nel nostro paese’ a quel linguaggio, di prossimità, di empatia, di carica, riscatto e vicinanza. A dargli una base sociale e farlo uscire dalla banalizzazione in cui si trascinava. Che poi il sogno di quest’arte è rivoluzionario: opporsi alla violenza della società con la poesia e con il ritmo». Ecco, nel mio ordine di idee la «credibilità di strada» è una cosa molto seria e precisa: è stare nei propri luoghi e far sì che la propria musica sia megafono per uscire dal disagio in modo collettivo e condiviso, contrapposto alla visione individualista del capitalismo che sussume gli stili di vita.
Se sostengo che si tratta di una cosa molto seria è perché faccio parte di quelle persone che grazie al rap sono sopravvissute, non perché avevo un argomento ormai di moda di cui parlare, o con cui provare a fare business, ma perché in quanto figlia di immigrati, proveniente da contesti con una povertà da fame, incontrando una grande difficoltà a preservare i miei studi, sono riuscita a trovare forza in qualcosa che ha saputo darmi respiro: il rap, la voce del riscatto.
È offensivo, oltre che pericoloso, circoscrivere questo potenziale a una nicchia (o peggio, un sottogruppo) «publicenemista», anche perché molti rapper mainstream rivendicano allo stesso modo «umili origini» per giustificare la propria ascesa e fame di successo, riconfermando come l’hip hop nasca da una necessità specifica.
Il mainstream allora è uno spazio da mettere in discussione, che si muove con meccanismi tossici e se diventa l’obiettivo centrale per tutti i rapper emergenti fa sì che il gioco sia davvero concluso. Se è vero che grazie a spinte mainstream il rap in Italia è ripartito con grande forza, è anche vero che le major dettano le regole del business della musica, e si tratta di una vera e propria oligarchia che riduce gli spazi indipendenti a mera palestra di lancio verso quella che sembra la più naturale delle aspirazioni: diventare famosi.
Secondo Guè Pequeno per il mondo mainstream «è più facile con un arabo»: si riferisce a Ghali, che però si veste da donna… e secondo Guè «dovrebbe almeno essere gay per poterlo fare». E la critica che fa a Ghali sulla «credibilità di strada» in questo caso è ridicola, perché non sarebbe dovuta essere sullo stile «effeminato», che oltretutto sta già andando di moda, quanto sulla deriva di vestirsi con capi di alta moda ed esclusivi – e su questo Guè è tra i pionieri della «credibilità d’élite». Un aspetto sintomatico di questo approccio lo si trova in un tema tanto caro nei testi rap mainstream (e purtroppo non solo): i soldi. Se è legittimo pensare al rap come un percorso che permette di uscire da una condizione di disagio (espressivo, economico, sociale, razziale, di genere), non può ridursi all’American dream importato dagli Stati uniti.
Fortunatamente c’è anche un’attitudine diversa che ancora persiste. Un rapper come Amir Issaa, autore del brano Non respiro (ft. Davide Shorty e Davide Blank), ha realmente l’ambizione di rappresentare le minoranze. Nell’intervista già citata fatta da griotmag.com, si rivolge direttamente ai rapper neri sostenendo che è necessario non seguire le orme dei rapper mainstream, e che «la situazione possa cambiare solamente se questi artisti troveranno il coraggio di imporsi a livello indipendente, e non con una major». Lui che è stato tra i primi a firmare con una major sa cosa significa essere strumentalizzati per «accedere a un pubblico non-bianco» e sa anche cosa significhi sentirsi usati dalle mode del momento per la logica dello sfruttamento dell’immagine.
L’indipendenza serve per abbattere fino all’ultima statua che si erige, comprese le statue dei dittatori del rap, perché le statue sono fisse ma la musica è in movimento.
*Wissal Houbabi è nata nel 1994 in Marocco e cresciuta in Italia. Femminista intersezionale, è appassionata di cultura hip hop e cultural studies. Si esprime con la scrittura, la poesia, la calligrafia araba, il disegno e la pittura.
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