Il rap spiegato da una femminista
Il rapper Junior Cally è intoccabile al festival di Sanremo perché alle case discografiche interessa vendere il genere rap come linguaggio violento. Ma in realtà la cultura hip hop è uno spazio di resistenza creativa dal basso
Più che parlare della questione specifica del rapper Junior Cally e della sua partecipazione al Festival di Sanremo, mi interessa usare la discussione che ne è scaturita come pretesto per una riflessione che non si limiti a un inutile processo pubblico per un singolo soggetto. Per capire a che punto siamo quando parliamo di sessismo nel mondo del rap, come viene percepito dall’opinione pubblica, dagli altri artisti rapper e non, e come evolve il dibattito mediatico sul tema.
Il linguaggio misogino può essere arte?
Per parlare di misoginia nel rap occorre fare un passo indietro nella storia, soprattutto dopo le affermazioni del manager di Junior Cally che afferma che «l’arte del rap deve essere libera di esprimersi». A un certo punto della sua dichiarazione aggiunge:
«Lungi da Junior Cally scomodare i grandi nomi del cinema, della letteratura e della storia dell’arte, da Tarantino e Kubrick, da Gomorra a Caravaggio e scrittori come Nabokov e Bret Easton Ellis».
La teoria dei grandi nomi che sono stati censurati, oltre a legittimare l’uso del linguaggio misogino, sembra suggerire che il fine giustifica i mezzi. Ma ci si dovrebbe chiedere: può un grande artista fare uso e consumo di un linguaggio misogino per rappresentare la sua idea artistica senza che essa venga censurata o tacciata dalla critica? È una questione di censura o, viceversa, di incoscienza? Qual è il confine di accettabilità del linguaggio misogino, dal «semplice» uso di termini offensivi all’inneggiare al femminicidio?
La seconda teoria è quella che tra il dire ed il fare… Finché sono parole insomma si può dire tutto, l’unica violenza riconosciuta (per un uomo eterosessuale bianco) è quella fisica. Secondo questa teoria quindi esternare parole di odio verso tutto ciò che non è al centro del sistema (l’uomo-bianco-etero, ovviamente) sarebbe una semplice guerra all’ipocrisia.
Che fine avrà fatto il «Potere alla parola», quella consapevolezza dell’agire con le parole che nessuno dovrebbe conoscere meglio dei rapper? La fama che raggiunge un artista non giustifica l’abuso di un linguaggio misogino e i relativi contenuti che veicola, e se un rapper non sempre dice ciò che pensa è anche perché fa marketing più che arte, parla di fake più che di vita vissuta, comunica un sistema incentrato sull’interesse a vendere dischi più che Peace, Love, Unity & Having fun.
Nel marketing, e pure al Festival di Sanremo colorato da tante belle, tanto belle, belle, bellissime donne, il corpo femminile appare concepito come richiamo sessuale per far crescere l’audience – e dunque il profitto – di ogni tipo di messaggio: un testo che allude a discorsi superficiali, in fondo, non richiede né intelletto né critica da parte di chi lo riceve. I consumatori svolgono un ruolo chiave in questo processo in quanto fruitori di un prodotto condizionato dalle tendenze del momento: lo scontro è quello per trovare l’equilibrio tra ciò che l’artista vuole esprimere e ciò che il pubblico vuole ascoltare. Spesso il gioco è al ribasso ed è evidente che, per il genere rap, le tematiche sessiste possano essere una buona carta da giocare considerando l’esposizione maggiore di pubblico maschile.
Non è necessario scomodare l’evidenza di un sistema patriarcale ancora da smantellare pezzo pezzo, però è interessante notare come l’agente di Junior Cally ne sia talmente cosciente da ricordare altri esempi di artisti saliti sul palco dell’Ariston:
«come Vasco Rossi (‘è andata a casa con il negro la tro…’) e gli Afterhours (‘sei più bella vestita di lividi’). E altri che ci saranno anche quest’anno come Marco Masini (‘bella stronza, mi verrebbe di strapparti quei vestiti da putt… e tenerti a gambe aperte’); e Achille Lauro (‘l’amore è un po’ ossessione, un po’ possesso, carichi la pistola e poi ti sparo in testa’). O, ancora, chi è stato scelto dalla Rai tra i conduttori dell’Altro Festival come Myss Keta (‘toccami la gamba, passami la bamba, Jo sono la tua tro…’)».
Insomma, la misoginia è accettabile perché Junior Cally non è il primo a far uso di questo linguaggio, sia a Sanremo che nell’arte del rap; e il suo agente è talmente cosciente del concetto di linguaggio misogino da saper elencare i casi pregressi. Secondo lui finché non si agisce fisicamente, il linguaggio è un puro esercizio di stile perché «l’arte può avere un linguaggio esplicito e il rap, da sempre, fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell’artista».
Perchè il rap «è così»
Il rap naturalmente non è solo politico, ci mancherebbe, ma si fa politica anche quando si pensa di non farla: quando il linguaggio è sistematicamente misogino a tal punto da definire un immaginario preciso, diventa una questione politica e nessuno è escluso dalla propria responsabilità, neanche chi resta in silenzio.
Nel dozens, pratica ricorrente nelle battle di freestyle – sfide verbali rituali che caratterizzano le situazioni di scontro nel rap in cui ci si insulta in rima finché uno non si arrende – si tende a usare termini femminilizzati o omofobi per mettere in dubbio la virilità come valore indiscusso e necessario, a conferma nuovamente dell’imposizione di una mascolinità egemonica. In alcuni testi è un tratto distintivo per gli uomini offendere fisicamente o verbalmente una donna, e guadagnano rispetto da altri uomini quando agiscono da «veri uomini». Ciò si manifesta in ogni aspetto rispecchiando fedelmente la «street credibility» che prevede una varietà di etichette denigratorie per le donne che non esistono per gli uomini, né nel rap né nella cultura in generale. Non è solo una casualità, un piccolo errore trascurabile o una scelta stilistica di qualche artista. Questi testi riproducono un immaginario subalterno articolato e creato dall’uomo che descrive la donna come «altro» confermando l’idea patriarcale millenaria secondo cui «la biologia è un destino».
Nel rap ad esempio, sia la prostituzione che il pimpin’, lo sfruttamento della prostituzione, sono temi ricorrenti ma quasi inesistenti in altri generi musicali. L’idea nel pimp rap è che le donne siano brave solo a fare sesso e alcuni rapper fanno di tutto per presentare queste donne in termini unidimensionali e impersonali:
«Lets, show ’em what they pussy made for/ Lets me and you lay in these hoes/ And, show ’em what they pussy made for/ No need for us saving these hoes/ Lets, show ’em what they pussy made for» [Facciamogli vedere a cosa serve la figa/ io e te entriamo dentro queste puttane/ E facciamogli vedere a cosa serve la figa/ Non c’è bisogno di risparmiare queste puttane/ Facciamogli vedere a cose serve la figa. David the dude, show ’em, the dude, Domo & Daddy Mook, 1998].
E chiedono di dare al pimp il rispetto che merita:
«This ho, that ho make me rich/ Snoop Dogg please won’t you break that biatch/ I’m back in the game gettin my dough/ And fuck any motherfucker that say it ain’t so». [Questa puttana, quella puttana mi ha fatto diventare ricco/ Snoop Dogg, per favore, puoi slargare quella troia/ Sono tornato sulla scena, mi prendo il mio grano/ E fanculo a ogni stronzo che dice che non è vero. Snoop Dogg, Buck ‘Em, No Limit Top Dogg, Dr Dre, 1999]
La prostituzione di strada si trova in genere in quartieri svantaggiati e marginali. Chi vive in queste aree incontra ostacoli nella ricerca di lavoro, e la prostituzione così come il pimpin’ possono essere viste come strade alternative ai lavori di sfruttamento. Essendo la musica rap emersa dalle stesse condizioni di questi quartieri, si comprende perché ne sia un tema sensibile. Il rapper Ice-T invoca il leggendario libro sul pimp di Iceberg Slim, Pimp: La storia della mia vita, come fonte d’ispirazione per i suoi testi. Il rapper Snoop Dogg, ad esempio, afferma: «Quando iniziai a guardare quei film negli anni Settanta, tipo The Mack e Superfly, mi aiutarono più o meno a capire chi volevo essere, come volevo vivere la mia vita, come volevo rappresentarmi». Quei film non solo dipingevano i pimps come modelli di riferimento per giovani uomini di colore, ma descrivevano anche la vita nel ghetto, ben illustrata nel documentario del 1999, American Pimp.
Ciò che scoraggia è come si sia persa la motivazione che ha portato Iceberg Slim (Robert Beck) alla stesura di questa autobiografia, che riportava in una lettera iniziale:
«Con questo libro, lettore, ti porterò per mano nel mondo intimo e segreto del lenone. Metterò a nudo la vita e i pensieri che ho menato da mezzano. Forse molti di voi rimarranno disgustati dal racconto della perversione e schifezza cui sono arrivato, e se tuttavia anche un solo giovane o una sola giovane riusciranno a salvarsi l’anima e, diciamo, a tirarsi fuori dal fango, ecco che allora il disgusto che vi avrò procurato si attenuerà di fronte al fatto che le qualità di quei giovani vengono messe ora a frutto e beneficio della società. […] E può anche darsi che un giorno meriterò un po’ di rispetto come un essere umano che nonostante tutto è finito col giovare a qualcosa. Ma ciò che veramente desidero più di ogni altra cosa è la possibilità di offrire un esempio decente ai miei figli e alla santa donna, là nella tomba, che è stata mia madre».
I testi violenti incoraggiati dalle case discografiche
Quello di Iceberg Slim è un pentimento non una volontà di ispirare, mentre la sua eredità sarà utilizzata per riprodurre la cultura pimp e gangsta nel rap, sia nei testi che nei video da artisti come Ice T, Dr. Dre, Snoop Dogg, Too $hort, Slick Rick e altri, adottandone il linguaggio e gli atteggiamenti e spingendo così fortemente verso gli interessi delle industrie discografiche.
Nel brano Let me Ride ad esempio, Dr. Dre esprime «un elogio della vita gangsta» e nel suo articolo U.Net aggiunge come a un certo punto «da The Chronic in poi le etichette discografiche delimitarono la musica rap in una formula ben definita – sesso, droga e violenza – nel tentativo di piazzare un nuovo prodotto sul mercato statunitense e internazionale» e aggiunge come «da quel momento le etichette entrarono prepotentemente nell’hip hop, intravedendovi profitti milionari, investendo in pesanti operazioni di marketing e nella produzione di videoclip musicali».
Ecco come alcuni rapper dichiarano come la violenza verbale nei confronti delle donne sia incoraggiata e premiata dall’industria musicale stessa:
«Rappers like me always disrespectin’ ladies,/Wonder why it’s like that, well so do I. / But I just turn my back and then I go get high,/ ‘Cause I get paid real good to talk bad about a bitch» [I rapper come me mancano sempre di rispetto alle signore/ ti chiedi perchè, be’ me lo chiedo anche io/ ma poi giro le spalle e vado a sballarmi/ perchè mi pagano un sacco bene per parlare male di una puttana. Too $hort, Thangs Change, Cocktails, Spearhead X, 1995].
Basta questo elenco per capire perché un Festival come quello di Sanremo ha interesse ad andare in questa direzione, alla faccia della sbandierata sensibilizzazione sui temi della violenza sulle donne. I rapper qui citati sono solo alcuni esempi per riflettere sui modelli che vengono riprodotti nel senso comune, non sono direttamente responsabili di queste accuse ma parte di una più ampia cerchia di artisti che riproduce gli stessi messaggi sessisti.
La cultura del margine del rap
Ciò che c’è invece di davvero fastidioso in questo dibattito è l’accanimento verso il genere rap, un genere che si presta facilmente alle accuse rispetto ad altri generi più mainstream anche per la storia che si porta dietro, o meglio, per le storie che caratterizzano questo genere di scrittura. Il rap ha un linguaggio diretto e schietto, nasce dalla marginalità, e come scrive bell hooks il margine è
«un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi di privazione. Può anche essere un ambito per la nascita di nuove possibilità di radicalizzazione, uno spazio di resistenza».
E proprio la cultura hip hop rappresenta uno spazio di resistenza creativa dal basso, uno sguardo decentrato che si impone sulle narrazioni egemoniche, spesso soffermandosi su questioni legate a razza e classe. Sempre più spesso infatti l’hip hop rappresenta anche le lotte per i diritti delle donne, basti pensare ad artiste come Akua Naru, Sara Hebe, Keny Arkana, Ana Tijoux, Shadia Mansour, KT Gorique, Mc Manmeet Kaur e tante altre ancora.
Il rap è un genere che sa affrontare un’ampia gamma di tematiche e il sessismo è solo un aspetto di una cultura artistica che ha grandi capacità critiche ed espressive e ha già dimostrato di sapersi mettere in discussione, alla faccia della cristallizzazione secondo cui «il rap è così». Al contrario una cultura antisessista del rap è più affine ai valori hip hop.
*Wissal Houbabi è nata nel 1994 in Marocco e cresciuta in Italia. Studia lingua e letterature straniere all’Università di Trieste. Femminista intersezionale, fa parte di Non Una di Meno. È appassionata di cultura hip hop e cultural studies. Si esprime con la scrittura, la poesia, la calligrafia araba, il disegno e la pittura.
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