
Non siamo usciti vivi dagli anni Novanta
Le politiche sociali di Giorgia Meloni scontano l’eredità del berlusconismo: favori alle aziende e welfare caritatevole solo per i poveri
In un videomessaggio di qualche giorno fa, Giorgia Meloni ha presentato un nuovo strumento volto ad aiutare le famiglie più bisognose a far fronte all’inflazione. La misura si chiama «Dedicata a te» ed è una carta acquisti per beni di prima necessità erogata una tantum, che secondo le dichiarazioni della stessa Presidente del consiglio e dei ministri Giancarlo Giorgetti e Francesco Lollobrigida arriverà a 1,3 milioni di cittadini. Non sarà necessario fare domanda per accedere al beneficio, in quanto una collaborazione tra Governo, Comuni e Inps permetterà l’identificazione automatica degli eleggibili attraverso le banche dati Inps e l’anagrafe dei residenti. Per usufruire dello schema, il cittadino beneficiario dovrà recarsi alle Poste, ritirare la card e utilizzarla entro metà settembre. Nonostante con questa misura il Governo abbia ribadito con forza la sua attenzione verso le fasce più bisognose della popolazione, un’analisi più attenta rivela alcune macroscopiche problematicità.
La prima, e più ovvia, riguarda il budget stanziato per la misura (500 milioni di euro) e l’ammontare del beneficio (382,5 euro). Evidentemente troppo poco, vista la perdita drammatica di potere d’acquisto (che secondo le statistiche dell’Ilo è stata del 6% nel 2022) causata dall’inflazione e dalla stagnazione dei salari, e di come l’effetto congiunto di queste sia stato maggiore per i lavoratori e le lavoratrici più povere. Inoltre, come già menzionato, la misura sarà erogata una tantum, e non sarà quindi strutturale. Per questi motivi, le opposizioni hanno criticato aspramente il Governo, definendo la card «elemosina di Stato». Le problematicità, però, non riguardano solo gli aspetti politici, ma anche il «design» della misura stessa. Mentre il governo ha parlato di 1,3 milioni di cittadini beneficiari, sul sito del ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare si legge che il benefit sarà assegnato su base familiare e non individuale. Questi 380 euro saranno quindi da dividere tra tutti i membri della famiglia. A poter accedere alla misura saranno solo le famiglie di almeno tre persone non titolari di altri tipi di prestazioni (come il Reddito di cittadinanza, la Naspi, o la Cassa integrazione). E se il tetto di 15.000 euro di Isee non sembra essere un requisito particolarmente restrittivo (l’Osservatorio Inps ha stimato 4,56 milioni di famiglie con Isee sotto i 15.000 euro beneficiari dell’Assegno Unico Universale al dicembre 2022), il budget limitato della misura ha reso necessaria l’identificazione di alcuni criteri di graduatoria, che daranno priorità alle famiglie più numerose, con figli più piccoli e con un Isee più basso. L’estrema selettività della misura, non manifesta ma nascosta nelle pieghe dei tecnicismi, rischia di creare una competizione tra poveri.

Social card e riforma del Reddito di cittadinanza
L’annuncio del programma «Dedicata a te» è stato interpretato da molti come un tentativo del governo di placare le critiche seguite alla riforma del Reddito di cittadinanza e le accuse di scarsa attenzione della maggioranza di destra-centro verso le marginalità. In effetti, la riforma del Reddito di cittadinanza diminuisce sostanzialmente la generosità del beneficio, ne riduce la durata e restringe i criteri d’accesso, basandoli sulla cosiddetta «occupabilità». Un criterio, questo, che non prende in considerazione il livello di qualifica del richiedente, la sua storia lavorativa o l’arretratezza economica e sociale del territorio nel quale il beneficiario vive, ma che è basato su criteri d’età (l’avere meno di 60 anni), di disabilità e di composizione del nucleo familiare (ovvero, la presenza di figli minori). Un recente studio dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, rilanciato spesso dai media, ha stimato che con la riforma verranno dimezzati il numero di nuclei beneficiari, che scenderebbero dagli 1,2 milioni del Reddito di cittadinanza ai circa 740 mila, per un risparmio a regime di circa 2,7miliardi di euro. Alcuni importanti esponenti dell’opposizione hanno, per questo, accusato il Governo di fare partita di giro, spostando i soldi risparmiati dalla riforma del Reddito di cittadinanza verso il taglio (temporaneo) del cuneo fiscale per i redditi medio-bassi contenuto nel Decreto Lavoro recentemente approvato.
Da Berlusconi a Meloni: riforme in continuità
L’analisi delle riforme del welfare italiano degli ultimi trent’anni rende evidente la storica mancanza di attenzione dei governi di centro-destra verso le sorti delle classi subalterne. Già nel 2008, all’inizio della crisi finanziaria globale, il Governo Berlusconi introdusse una carta acquisti che sotto alcuni aspetti somigliava a quella appena introdotta dal Governo Meloni. Prima di tutto per l’esiguo ammontare del beneficio (80 euro al mese, pagati ogni due mesi), e poi per l’eccessiva selettività che caratterizzava la misura. La carta, infatti, era rivolta ai cittadini con più di 65 anni e alle famiglie con figli di meno di tre anni e con un Isee molto basso e poteva essere utilizzata soltanto per l’acquisto di beni di prima necessità, di farmaci (diversamente della carta «Dedicata a te») e per il pagamento delle utenze. Inoltre, come il Governo Meloni, anche l’esecutivo Berlusconi mise fine al programma di sostegno al reddito allora vigente, ovvero il Reddito minimo d’Inserimento che era stato lanciato in via sperimentale in alcune città italiane alla fine degli anni Novanta. Tuttavia, le analogie tra questi due mondi non si limitano soltanto alla riforma dei sistemi d’integrazione del reddito, ma toccano anche le politiche del lavoro in senso più stretto e le politiche familiari. La Legge Biagi del 2003 aumentò notevolmente i livelli di precarietà (che già erano in ascesa dai tempi del Pacchetto Treu del primo Governo Prodi), mentre riforma dopo riforma la contrattazione collettiva è stata smantellata anche a causa dei mutati rapporti di forza tra sindacati e associazioni padronali. Oggi, il Decreto Lavoro appena pubblicato in Gazzetta ufficiale liberalizza voucher e contratti a tempo determinato, abolendo, di fatto, il Decreto Dignità del primo Governo Conte.
L’Italia versa in una crisi demografica senza precedenti nella storia recente e importanti ministri stanno cercando di convincerci che se non facciamo figli è per una questione culturale («Un figlio non sia l’alternativa allo Spritz») e non materiale. Un dettaglio che forse sfugge è che, oltre a essere il paese che ha precarizzato di più i contratti temporanei tra tutti i partner occidentali (e l’unico a non aver introdotto un salario minimo), l’Italia è anche il paese che è rimasto più indietro di tutti nella riforma delle politiche familiari. Mentre altrove si investiva su congedi paritari e asili nido (come in Francia), in Italia le tante e frammentarie riforme delle politiche familiari hanno principalmente riguardato le detrazioni e solo raramente (e in misura del tutto insufficiente) servizi di cura formale e congedi. Neanche a dirlo, i governi di centro-destra hanno giocato un ruolo centrale nel determinare questa traiettoria di cambiamento e i conseguenti effetti negativi sulla natalità.
Dal punto di vista delle politiche sociali e del lavoro, dunque, ciò che accomuna berlusconismo e melonismo è l’attitudine paternalista e stigmatizzante. Paternalista perché è il Governo a stabilire in maniera arbitraria chi è occupabile, chi è povero e come il povero debba spendere i propri soldi – ignorando tra l’altro decenni di letteratura scientifica su disuguaglianze e cambiamenti strutturali nelle società post-industriali. Stigmatizzante perché le politiche vengono ideate e realizzate con l’obiettivo di creare una competizione tra poveri (la graduatoria per l’accesso alla card «Dedicata a te» ne è un chiaro esempio) e per far cessare la competizione esistente tra salario e sussidio al reddito in un contesto in cui Governo e media, sia conservatori che liberali, avvelenano le falde del dibattito pubblico con la retorica dei poveri-pigri-sul-divano. È poi stigmatizzante anche da un punto di vista più pratico, e spesso sottovalutato, visto che questi soldi non sono caricati sul conto corrente come avviene negli altri paesi europei (come in Francia), ma vengono caricati su una carta riconoscibile da tutti.
Non siamo usciti vivi dagli anni Novanta
Su YouTube è possibile trovare la registrazione della tribuna elettorale per le elezioni del 1996, in cui Lucia Annunziata moderava un dibattito tra Prodi e Berlusconi. In quel confronto si discusse di giustizia, con Berlusconi convinto di dover de-politicizzare la magistratura; di Rai, troppo in mano alla sinistra e che quindi andava riequilibrata; e di welfare, troppo assistenzialista e per questo causa dell’alto debito pubblico. Secondo Berlusconi, il welfare doveva essere rimodulato affinché ne godesse solo chi ne ha veramente bisogno, mentre lo sforzo fiscale andava concentrato sulle aziende, uniche in grado di creare posti di lavoro. A quasi trent’anni di distanza, l’epigona di Berlusconi ne mutua discorsi, mezzi, parti di classe dirigente e base sociale. E forse per questo legifera come se fossero ancora gli anni Novanta, come se quindici anni di crisi economica, il Covid e la guerra in Ucraina non siano mai stati vissuti, né interpretati. L’analisi delle politiche sociali proposte dai due governi aiuta a comprendere e contestualizzare il Melonismo, e a smascherarlo. Non forza popolare e innovatrice, come ama raccontarsi, ma antistorica e classista.
*Federico Filetti è ricercatore post-dottorato in economia politica a King’s College London. Studia i processi di cambiamento dello stato sociale e la transizione tecnologica a livello comparato.
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