
Pensare la classe
Il romanzo working class di Joseph Ponthus racconta che la classe non è una categoria chiusa e che le contraddizioni dei rapporti sociali ci inducono a ripensare la dimensione collettiva
Sogno di essere in sciopero
Come quando avevo un lavoro vero e non rischiavo niente
Sogno di poter andare alla manifestazione
Ma so che quando tornerò a casa sarò troppo esausto
Sogno i miei colleghi assunti al calduccio nel loro letto che senza dubbio saranno rispettati quando tra poco sfileranno in corteo con le loro bandiere ‘Cgt mattatoio’
Una bella orda di scioperanti con la forza delle braccia e dello sguardo
Mi sarebbe piaciuto essere con loro a mettere sotto pressione gli sbirri davanti alla prefettura
Sarei stato così felice di essere tra questi ‘illetterati’ che Macron disprezzaTra quelli che non lavorano per pagarsi un vestito ma un pile da Decathlon visto il freddo in cui lavoriamo
Di essere parte di questa forza collettiva e di ridere sui perdigiorno che lui presume che siamo.
Chissà cos’altro avrebbe potuto scrivere Joseph Ponthus sulla classe lavoratrice e con quale forza ancora i suoi versi avrebbero potuto restituire il clima sfibrante del lavoro nei luoghi della produzione del capitalismo contemporaneo. Eppure quella di Ponthus non è la fabbrica fordista, anche se la ripetizione estenuante e meccanica delle operazioni è la stessa.
Il fordismo non è stato solo un modello di produzione, è stato un paradigma, un insieme di forme sociali e politiche che hanno permeato l’esistenza dei lavoratori. L’organizzazione del lavoro quasi militare e il disciplinamento dei tempi hanno tentato di mettere ordine nei meccanismi della produzione e nella vita dei lavoratori. Con la crisi del modello produttivo fordista, avvenuta sulle rovine del regime salariale, qualcosa è cambiato. Qualcosa, ma non tutto. Il lavoro della classe operaia nei magazzini, negli stabilimenti, nei porti, nei supermercati e in tutti quei luoghi dove è necessario che la forza lavoro produca valore continua a esistere. Cambia la composizione della classe che viene disarticolata, frammentata, spezzettata, ma la classe non scompare. D’altronde, come Marx aveva intuito nel Capitale, «Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro».
«Mi sarebbe piaciuto essere con loro», scriveva infatti Joseph Ponthus nel suo Alla linea, a scioperare con i compagni del mattatoio, ma a un interinale non è concesso sentirsi parte di quella «forza collettiva». È questo il punto, «stare insieme» è una pratica politica e ogni questione politica è anche una questione sociale, una questione che attiene a quello spazio di convivenza e di conflitti che è il «mondo sociale». E se c’è un momento nel quale il popolo diventa un soggetto politico nello spazio sociale, forse questo momento sono le agitazioni e le rivolte, attraverso le quali le masse irrompono nella storia per affermare la propria presenza.
Lo storico inglese Edward Palmer Thompson individuava nei food riot dell’Inghilterra preindustriale delle forme di protesta che, nonostante fossero altra cosa rispetto alle lotte di classe del capitalismo industriale, esprimevano la rabbia e l’insofferenza delle masse perché queste avvertivano che veniva minato l’apparato di norme sociali radicate nella loro storia. I poveri e i lavoratori, scriveva, si ribellano quando aumentano i prezzi dei beni alimentari e del pane, non solo perché hanno fame, ma anche perché sentono violato il proprio senso di giustizia sociale. Anche se quelle masse non sono ancora una classe, il loro è un intervento diretto «nei destini della società», per usare le parole che usa Lev Trotsky quando descrive quello che avviene nel corso della rivoluzione russa. «Non dimentichiamo che le rivoluzioni sono fatte da uomini, sia pure anonimi» che invadono lo spazio sociale dove si decide il loro destino.
Mentre oggi? In un tempo nel quale ognuno deve farsi carico della propria biografia, «inventare» il proprio posto nella società – magari passare dal lavoro intellettuale alla fabbrica come accade a Joseph Ponthus – davvero l’antagonismo di classe si è dissolto in quell’amalgama informe che è la classe media? Davvero le classi si sono diluite in quell’unico grande strato la cui funzione simbolica è «annullare» i conflitti di classe (ma lasciando «sopravvivere» le divisioni di classe)?
Perché l’idea che le classi non esistono più, o che non dicano nulla se non raccontare qualche differenza in termini di stili di vita – e solo un po’ anche in termini economici – è nella natura del capitalismo, che per funzionare confonde le carte. L’impressione che si ha è che la classe media assolva una funzione. Nel rimanere sospesa nel mezzo tra chi sta molto in alto e chi sta molto in basso nella gerarchia sociale, «sentirsi» classe media produce un orizzonte simbolico di falsa speranza che lascia immaginare la possibilità di ascesa sociale di cui non tutti, è evidente, riescono a godere. «Siamo tutti classe media», ovvero sulla «stessa barca», e ciò che conta è il modo in cui ognuno da solo riesce a risolvere le contraddizioni della propria esistenza.
Queste idee sono il prodotto del pervasivo sistema di credenze di cui si alimenta il capitalismo, il cui fine è depotenziare il conflitto sociale o, addirittura, renderlo invisibile. L’appartenenza di classe, allora, va intesa come una risposta a questa narrazione. Va intesa come una struttura non omogenea che tenta di rispondere alle spinte individualistiche. Considerare la classe una struttura «non omogenea» non significa considerarla come un insieme senza forma; significa invece trovare il modo per confrontarsi con le contraddizioni imposte dai rapporti sociali nelle società capitalistiche e ripensare i termini della dimensione collettiva.
Storie come quella di Joseph Ponthus raccontano che la classe lavoratrice non è una categoria chiusa, oggi più che in passato. In quella classe si nasce, o se ne diventa parte nel momento in cui si acquisiscono o si perdono delle caratteristiche, qualche volta per sempre e qualche volta no. Nei luoghi della produzione del tardo capitalismo lavorano fianco a fianco persone di diversa estrazione sociale e con formazione diversa, persone che sono il prodotto della dequalificazione di massa del tardo capitalismo insieme a persone nate e destinate all’underclass. La divisione sociale dei ruoli maschera le gerarchie; gli «operatori di produzione» sostituiscono gli «operai» e i «referenti» sostituiscono i «capi», scrive Ponthus.
E allora un modo per ripensare il senso della classe, e per tornare a capire quanto la posizione sociale di ognuno incide sulle possibilità di agire è, forse, ripartire dalle storie di classe. Ripensare il rapporto tra soggetto e struttura senza cadere nella visione centrata sui singoli che oscura i determinismi di classe e valorizza, invece, le imprese individuali. Gli individui non agiscono mai in modo totalmente isolato; le loro azioni sono immerse nelle relazioni sociali, che a loro volta sono anche relazioni di potere che favoriscono alcuni a scapito di altri. Quando i lavoratori riconoscono che ciò che essi «sono e fanno» è in contrasto con ciò che «sono e fanno» coloro che si trovano in una posizione di dominio nella gerarchia sociale, la classe diventa una formazione sociale che si struttura attraverso un’opposizione.
Elias Canetti descriveva in questi termini quelle che chiamava masse negative o masse di divieto. Lo sciopero rappresenta secondo Canetti l’esempio principale della massa di divieto. «Come è evidente – scriveva – l’uguaglianza dei lavoratori non va molto lontano. Essa sola non è sufficiente per determinare la formazione della massa. Se però è indetto uno sciopero, i lavoratori divengono uguali in modo più impegnativo: nel rifiuto di continuare a lavorare […]. La loro eguaglianza fittizia, di cui si parla loro, ma che in realtà non va oltre la loro comune attività manuale, diviene improvvisamente reale». Sono questi termini dell’opposizione che spiegano la dialettica della classe, che è formata da individui con biografie e storie di classe, spesso molto diverse tra loro, che sono il prodotto dell’incontro tra la loro posizione sociale e le condizioni materiali nelle quali si trovano a vivere. Queste biografie, tuttavia, hanno traiettorie comuni e la formazione della classe è il loro punto di incontro. Perché ogni storia di classe non è mai semplicemente la «storia di una vita individuale» ma è una storia che si inscrive nelle strutture della società che vengono interiorizzate, riprodotte, ma anche contestate e messe in discussione.
Pensare che la frammentazione del lavoro nel tardo capitalismo abbia definitivamente cancellato le differenze di classe significa trascurare il fatto essenziale che la struttura di classe crea le condizioni entro cui i lavoratori e le lavoratrici si organizzano e si formano come classe. Naturalmente il capitalismo funziona se riesce a indebolire l’azione collettiva, mentre – come è noto – la classe è stata storicamente un agente di lotta proprio in quanto espressione di un movimento collettivo. E se la classe, in quanto soggetto storico, ha capacità trasformative, è a partire da essa che vanno pensati i rapporti tra le diverse storie di classe nella società attuale. La «presa di coscienza» è la dimensione speculare dell’alienazione, è dunque una forma di «umanizzazione» collettiva che non poggia sul desiderio inappagato di libertà individuale. Anzi, essa è il risultato di uno sforzo oppositivo che porta i gruppi nella società de-collettivizzata a ricostituirsi come soggetti con un ruolo sociale e storico. La classe è una «formazione relazionale» che si colloca nel mezzo dei rapporti di potere, pertanto è necessario ripensare il modo in cui si forma e di conseguenza il modo in cui prendono forma gli interessi di classe che altrimenti andrebbero persi nell’atomizzazione della resistenza individuale.
* Emilio Gardini insegna sociologia generale e politiche pubbliche e per la sicurezza all’Università Magna Graecia di Catanzaro. Fa ricerca sulle trasformazioni del capitalismo, sulla città e sulle politiche securitarie.
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