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«Per stare al governo Podemos deve stare in piazza»

Eoghan Gilmartin Miguel Urbán 4 Dicembre 2019

L'accordo con il Psoe potrebbe portare al potere una coalizione di sinistra in Spagna per la prima volta dagli anni Trenta. Ma per il partito di Iglesias l’unica speranza sta nella forza dei movimenti sociali. Intervista a Miguel Urbán

«Questo governo sarà il miglior antidoto contro l’estrema destra». Così il leader di Unidas Podemos Pablo Iglesias ha annunciato le scorse settimane la firma di un accordo preliminare per formare una coalizione con i socialisti spagnoli del Psoe. L’annuncio è arrivato solo due giorni dopo le elezioni politiche in Spagna, dove si votava per la quarta volta in quattro anni. Ma i risultati elettorali non hanno portato solo buone notizie: il partito di estrema destra Vox ha ottenuto un’impennata senza precedenti e tra gli elettori di sinistra si è registrato un alto tasso di astensione.

In questo contesto, per Podemos il patto di governo è senz’altro un successo, ma piuttosto precario. I colloqui per definire il programma di governo sono ancora in corso, anche perché il leader del Psoe Pedro Sánchez deve ottenere i voti dei partiti regionalisti catalani e baschi se vuole essere rieletto primo ministro. Eppure, i segnali lasciano pensare che entro Natale la Spagna potrebbe vedere nascere la sua prima coalizione di sinistra dai tempi della Seconda Repubblica, negli anni Trenta.

L’Unione europea e le élite economiche spagnole si sono subito mosse per arginare ogni potenziale segnale di svolta a sinistra. La settimana scorsa il capo delle finanze della Commissione europea, Pierre Moscovici, ha chiesto alla Spagna nuove «riforme strutturali» per far fronte a un possibile rallentamento dell’economia, nonché ulteriori tagli per 6,2 miliardi di euro nel 2020. Il suo messaggio per il futuro governo è stato: «Si può essere un governo serio e di sinistra allo stesso tempo». Nel frattempo, il capo della confindustria spagnola (la Ceoe) ha avvertito che «adottare formule ideologiche [per il governo] invece che pratiche non è vantaggioso per l’economia o per le imprese».

Sotto la pressione di queste élite economico-politiche, e dovendo comunque operare dentro gli stretti limiti del Fiscal Compact dell’Ue, la coalizione si trova già costretta a lottare per sopravvivere prima ancora di nascere. Ma le ragioni di una probabile mancanza di radicalità del futuro governo sono anche interne. Rispetto al 2015, infatti, quando per la  prima volta è stato proposto un patto tra i due partiti, i rapporti di forza interni alla coalizione si sono fortemente spostati a favore del Psoe in quanto partito di establishment, a sfavore della radicalità di Podemos. Quattro anni fa, il partito di Pablo Iglesias aveva 69 seggi in Parlamento, solo 19 in meno dello storico partito spagnolo di centro-sinistra. Adesso, dopo quattro estenuanti anni nelle istituzioni gravidi di spaccature interne, Podemos si è ridotto a soli 35 deputati, mentre il Psoe ne ha 120.

Per discutere le sfide che la sinistra spagnola si trova di fronte e il significato dell’ascesa dell’estrema destra in Spagna, Eoghan Gilmartin ha intervistato il co-fondatore di Podemos Miguel Urbán, membro del Parlamento Europeo. Per Urbán, la posizione di Unidas Podemos al governo può essere utilizzata per garantire vantaggi sociali, ma solo se sostenuta da una seria mobilitazione di piazza, che riprenda il testimone dei movimenti anti-austerità degli ultimi anni.

Governare con il Psoe presenterà enormi sfide per Unidas Podemos e il pre-accordo non parla molto di politica: che giudizio ne dai? E quali sono i rischi e le opportunità per Unidas Podemos in questo nuovo scenario?

Per Sánchez questo accordo era tutt’altro che la prima scelta, e lo ha avallato solo perché ha sbagliato i calcoli. Il leader socialista ha convocato nuove elezioni a novembre credendo che il Psoe sarebbe cresciuto rispetto alla tornata precedente di aprile. Pensava che questo gli avrebbe permesso di governare da solo con un esecutivo di minoranza o stringendo un qualche di patto di governo con Ciudadanos [formazione liberale di destra] o con i conservatore del Partido Popular (Pp).

Il risultato elettorale, tuttavia, ha escluso queste opzioni. Il Psoe ha perso 700.000 voti e tre seggi, il che significa che non è possibile formare un governo a partito unico. Contemporaneamente Ciudadanos è crollato e con lui ogni ipotesi che questo partito potesse diventare un partner di coalizione; mentre l’impennata di Vox ha indicato chiaramente che il Partido Popular non può arrischiarsi in un patto di governo con i socialisti, perché lascerebbe all’estrema destra campo aperto. Alcuni leader del Pp hanno adombrato l’idea di astenersi al momento del voto di fiducia, permettendo al Psoe di formare un governo di minoranza, ma solo in cambio delle dimissioni di Sánchez. È a questo punto che il leader dei socialisti ha cominciato a guardare a sinistra. Una vera e propria inversione a U, se pensiamo che pochi mesi fa dichiarava che l’idea di avere esponenti di Podemos nel governo lo teneva «sveglio la notte» mentre adesso ha offerto a Pablo Iglesias il posto di vice premier.

Nello specifico, questo accordo non è ancora un programma di governo, ma solo una dichiarazione di intenti, che stabilisce le varie priorità della coalizione in corso di formazione. Tuttavia, anche se breve, il documento presenta diversi aspetti a cui fare attenzione. In primo luogo il fatto di accettare un «controllo del bilancio», espressione piuttosto ambigua ma di cui conosciamo il significato in Europa, sulla base delle indicazioni della Commissione europea. Si tratta dell’obbligo di destinare qualsiasi futuro aumento delle entrate della Spagna al pagamento del debito pubblico.

Qualunque sia l’accordo finale che sottoscriveranno Sánchez e Iglesias, il futuro governo sarà comunque dipendente dal Fiscal Compact di Bruxelles. In realtà, la Commissione europea e la Troika possono già contare su un loro diretto rappresentante all’interno del governo: il ministro dell’Economia Nadia Calviño, che è stata in passato direttrice generale per il bilancio della Commissione europea e ora è candidata a diventare primo vicepresidente del consiglio, mentre Iglesias ricoprirà la carica di secondo.

Un secondo elemento di preoccupazione è la Catalogna. L’accordo parla di lavorare per migliorare la «coesistenza sociale» entro «i parametri della costituzione». Ma la crisi catalana non riguarda la coesistenza: è un problema politico e ha bisogno di soluzioni politiche. Questo è ciò che Podemos ha sempre sostenuto: la necessità di riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. Questo elemento non può essere ignorato. Anche perché, per sopravvivere, la coalizione ha bisogno del sostegno parlamentare degli indipendentisti catalani. Se vuole avere una maggioranza, Sánchez dovrà fare almeno qualche concessione alla sinistra catalana.

Quali impegni politici assenti nella dichiarazione iniziale dovrebbero essere inseriti nel programma di coalizione?

Ci sono una serie di misure su cui abbiamo sempre insistito quando abbiamo negoziato con il Psoe, come l’abrogazione delle leggi antidemocratiche della Spagna e della riforma neoliberista del lavoro, ma anche l’introduzione di un calmiere sugli affitti, di una legge contro gli sfratti e di una nuova tassazione sulle banche, per recuperare i 60 miliardi di euro spesi per salvarle nel 2011. Più in generale, abbiamo bisogno di una riforma fiscale progressiva, mirata sulle parti più ricche della società per contribuire a rafforzare lo stato sociale e garantire la protezione da esempio del nostro sistema pensionistico pubblico.

Tutte queste misure sono state sostenute da Sánchez in passato, ma solo quando il Psoe era all’opposizione o durante le campagne elettorali, mai quando era al governo. Si tratta di evidenti omissioni dall’accordo preliminare, dovremo vedere se riusciranno a inserirle nell’accordo finale di coalizione.

Da dove vengono i principali ostacoli all’adozione di tali politiche progressiste, da Bruxelles o dal settore imprenditoriale spagnolo?

I nostri avversari sono sempre gli stessi – le oligarchie e le élite che governano ma non si candidano alle elezioni. La Commissione europea e la Troika sono due di queste, ma lo  sono anche la Ceoe, il Banco Santander, le società finanziarie del listino Ibex 35. La mia preoccupazione, tuttavia, è considerare il Psoe un alleato nella lotta contro l’élite. Non credo sia così, visto che per decenni è stata una parte fondamentale dell’establishment spagnolo.

L’élite economica spagnola contrasterà ferocemente qualsiasi tipo di riforma, mentre almeno all’inizio Sánchez potrà avere un po’ di respiro da parte dell’Unione europea, che non può permettersi la stessa aggressività mostrata con il governo di Syriza in Grecia – anche perché c’è da dire che una coalizione guidata dal Psoe è una prospettiva ben più moderata. L’Unione europea sta affrontando problemi di governabilità e instabilità in tutto il continente e ha bisogno di amministrazioni con cui poter lavorare.

La questione è quanto durerà. Tutte le indicazioni suggeriscono che ci stiamo dirigendo verso una nuova crisi economica. In un tale contesto, con Bruxelles che chiede senza dubbio una rinnovata austerità per socializzare le perdite, Podemos si troverà in una posizione difficile. Sarà il junior partner di questa coalizione e avrà bisogno di una forte presenza di sinistra nelle strade per far pressione sul governo.

Dobbiamo rafforzare l’autonomia dei movimenti sociali e della sinistra extraparlamentare affinché non siano solo i poteri oligarchici a far sentire il loro peso. Altrimenti, rischiamo di lasciare campo aperto all’estrema destra, per incanalare la rabbia popolare e capitalizzare gli effetti di una futura crisi.

Prima accennavi al fatto che per avere una maggioranza in Parlamento la coalizione avrà bisogno almeno dell’astensione del partito indipendentista catalano Esquerra Republicana. A differenza di febbraio, quando ha rifiutato di votare la legge di bilancio di Sánchez e ha sancito nuove elezioni, questa volta Esquerra non sta avanzando grandi richieste. Per esempio, non chiede un referendum per l’indipendenza o il rilascio del suo leader in carcere Oriol Junqueras, condannato il mese scorso a tredici anni per sedizione. È giusto dire che un accordo sembra molto più probabile ora?

Sì, sembrano esserci più margini per un accordo, non da ultimo perché Esquerra ha cambiato direzione nell’ultimo anno. Ora spera di diventare il principale partito di governo della Catalogna. Così, a volte è sembrato perfino più interessato a un accordo di quanto lo fosse la leadership di Podemos.

Il capogruppo di Esquerra, Gabriel Rufián, aveva chiesto a Podemos di accettare un accordo con il Psoe già quest’estate. Ma solo sei mesi prima aveva votato contro la legge di bilancio sostenuta da Psoe e Podemos, e aveva fatto cadere il governo di Sánchez. È difficile conciliare le posizioni di Rufián di inizio anno con quelle degli ultimi mesi.

L’altra grande novità delle ultime elezioni è stata l’impennata del partito di estrema destra Vox, che è diventato il terzo più grande della Spagna con il 15,3% dei voti. Lei ha appena pubblicato un libro sul tema. Come spiega questa ascesa, e come si colloca Vox nel più ampio contesto dell’estrema destra europea?

Si ha tendenza in Europa a considerare l’estrema destra come un’unica famiglia politica, quindi per comprendere Vox molti fanno il confronto con Marine Le Pen. Ma penso che sia più utile guardare a Jarosław Kaczyński in Polonia o a Viktor Orbán in Ungheria, o addirittura a Jair Bolsonaro in Brasile.

Mentre Le Pen e Matteo Salvini portano avanti una linea più populista, basata sul protezionismo sociale, Vox è un’organizzazione ultra neoliberista e profondamente conservatrice in termini morali e culturali. Le sue radici possono essere ricondotte al movimento neoconservatore in Spagna, fondato all’inizio del millennio da persone del calibro di José María Aznar e del suo think tank Faes. È da qui che provengono gli altri leader di Santiago Abascal e Vox.

Come Bolsonaro con la dittatura brasiliana, Vox si è riappropriata di una certa mitologia franchista, riformulandola per un contesto contemporaneo. Si parla, per esempio, della necessità di una nuova «reconquista» della Spagna, creando un corto circuito tra questo vecchio stereotipo franchista e l’islamofobia contemporanea.

In questo senso, Vox è l’espressione di una certa radicalizzazione della destra tradizionale spagnola. Salvini e Le Pen sono riusciti a conquistare gli ex elettori di sinistra (solitamente dopo un lungo passaggio per l’astensione) e a canalizzare una più generalizzata rabbia anti-establishment, Vox no. La sua crescita si è basata sulla radicalizzazione del voto di destra esistente su questioni come la Catalogna, l’immigrazione e l’opposizione ai movimenti femministi e Lgbt. Se si guardano i dati delle ultime elezioni si può constatare con stupore quanti pochi voti si siano spostati da sinistra a destra.

Questo spiega anche perché Vox non ha interesse a coltivare un’immagine più popolare di sé: perché per loro essere eleganti e aristocratici non è un problema. La leadership di Vox si spiega principalmente con questa disputa tutta interna alla destra spagnola. Per questa ragione per loro è motivo di vanto aver incontrato i dirigenti della City di Londra per rassicurarli sul fatto che non hanno nulla da temere dall’avanzata di Vox.

Questo Le Pen non lo farebbe mai. Ma Vox non ha alcun interesse ad apparire come un partito anti-establishment oppure come una minaccia allo status quo. Inoltre, non mette in discussione l’Unione europea in alcun modo, anzi più che «euroscettica» è una formazione «euroriformista».

È vero che negli ultimi giorni della campagna il partito ha messo l’accento su una retorica sociale ispirata al fascismo spagnolo, al pari di gruppi neo-nazisti come Hogar Social di Madrid. Un esempio è stato il battibecco social con la popstar Rosalía che aveva twittato «Fuck Vox». La risposta del partito di Abascal è stata postare una sua foto in un jet privato con il testo: «le uniche persone che non hanno bisogno della patria sono i ricchi». È una frase di Ramiro Ledesma, uno dei principali teorici del fascismo spagnolo degli anni Trenta. Resta da vedere se andando avanti Vox continuerà ad adottare questo tipo di retorica, ma questo probabilmente dipenderà dal peso specifico dei settori più falangisti all’interno del partito, che stanno crescendo.

Hai trascorso cinque anni al Parlamento europeo. Qual è stata la tua esperienza in quella sede e cosa hai appreso sull’Unione europea all’interno delle sue istituzioni?

Purtroppo l’esperienza ha confermato le mie peggiori aspettative. Il Parlamento non ha voce in capitolo nelle grandi decisioni prese a livello europeo. Manca di qualsiasi mezzo di supervisione o controllo sulla Banca centrale europea e sull’Eurogruppo [il coordinamento dei ministri delle finanze europei], che decidono la politica economica dell’Eurozona. Inoltre, i rapporti di forza all’interno del Parlamento tendono molto a destra. È un sistema istituzionale in crisi da un decennio, di cui la Brexit è solo un ulteriore esempio.

La mia esperienza da eurodeputato, però, ha anche confermato l’idea che il Parlamento europeo può essere usato come una piattaforma per garantire maggiore visibilità a determinate cause e lotte sociali, e fungere da spazio da cui costruire alleanze tra diverse forze radicali provenienti da tutto il continente. Perciò è importante evitare non solo un’ingenua posizione a favore dell’Unione europea acritica rispetto a questa costruzione elitaria, ma anche il vicolo cieco del nazionalismo identitario. Se vogliamo costruire un’alternativa al neoliberismo, che inizierà con il disobbedire ai vincoli imposti da Bruxelles, non potremo lasciare solo la Grecia o la Spagna a farlo, ma servirà un coordinamento in tutto il continente, per quanto difficile e disomogeneo.

*Miguel Urbán è deputato al Parlamento europeo per Podemos. È stato uno dei cofondatori del partito nel 2014. Eoghan Gilmartin è scrittore, traduttore e collaboratore di Jacobin da Madrid. Questo articolo è uscito su JacobinMag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.

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