Piovono denunce
Tra il 2018 e il 2020, nella sola provincia di Modena, sono stati aperti 481 procedimenti penali nei confronti di lavoratrici e lavoratori per fatti connessi all’attività sindacale. L'accanimento colpisce soprattutto le lotte del SI Cobas
Quando l’ufficio immigrazione della questura di Carpi, in provincia di Modena, informò Ruslana Stepaniuk che a suo figlio era stato concesso il permesso di soggiorno illimitato, la donna ripensò a dodici anni di sacrifici per dare stabilità alla sua famiglia. Partita per l’Italia dall’Ucraina nel 2008, lasciando indietro suo marito e il bambino appena nato, aveva lavorato in nero come badante fino a ottenere, grazie a una sanatoria, il permesso di soggiorno; quindi in fabbrica, per raggiungere i requisiti di reddito necessari al ricongiungimento familiare. Adesso, finalmente, erano insieme in Italia, tutti con i documenti in regola.
La mattina del 30 giugno 2020 si recò in questura insieme a suo figlio; consegnati i passaporti a un impiegato, i due presero posto in sala d’attesa. «Dopo mezz’ora esce un poliziotto, tenendo il passaporto mio e di mio figlio, e mi dice in modo brusco: non riconsegno i documenti finché lei non firma questo», ricorda Stepaniuk. Sul foglio presentatole dall’agente, lesse: «Il Questore di Modena… la avvisa che a suo carico esistono indizi che la fanno ritenere pericolosa per l’ordine e la sicurezza pubblica, e la invita a cambiare condotta di vita». In caso di inadempienza si minacciavano più gravi sanzioni.
Il documento è un «avviso orale», un provvedimento che la polizia può emettere nei confronti di individui di spiccata pericolosità sociale. Il questore lo motiva con la partecipazione di Stepaniuk a uno sciopero nell’azienda in cui tuttora lavora come operaia alimentarista, Italpizza. Nel gennaio 2019, una serie di picchetti organizzati dal sindacato SI Cobas davanti ai cancelli della fabbrica modenese di pizze surgelate furono sgomberati con pesanti cariche delle forze dell’ordine. Gli operai protestavano contro condizioni di lavoro ritenute inaccettabili e il licenziamento di un gruppo di lavoratrici in seguito alla loro iscrizione al sindacato. In questo contesto, secondo la questura, Stepaniuk avrebbe commesso i reati di violenza privata, omesso avviso di riunioni pubbliche e resistenza a pubblico ufficiale, tutti aggravati dal concorso di un alto numero di partecipanti.
«Quello che mi ha colpito di più di tutta questa scenata è che è stata davanti a mio figlio minore», dice la donna, un’energica trentaquattrenne, con la voce rotta dalla commozione. «Sono dei disgraziati, perché io, una che lavora, una che paga le tasse, una che veramente fa tutto quello che deve fare, sono uscita fuori dalla fabbrica per lottare per i miei diritti, per quello che mi spetta. E mi trattano come una terrorista».
Tra il 2018 e il 2020, nella sola provincia di Modena, sono stati aperti 481 procedimenti penali nei confronti di lavoratrici e lavoratori per fatti connessi all’attività sindacale. I destinatari delle denunce sono tutti affiliati al SI Cobas, che negli ultimi anni, con i suoi 1.200 iscritti nel modenese, si è reso protagonista di duri conflitti in settori chiave per l’economia locale, come la filiera alimentare.
Aziende, forze dell’ordine e i principali sindacati sono unanimi nel considerare «illegali» i metodi di protesta del SI Cobas: la Cgil, che con oltre 110mila affiliati è il sindacato più rappresentativo della provincia, dice di non avere nessun iscritto con problemi giudiziari legati all’attività sindacale, e nega che a Modena ci sia un problema generalizzato di repressione contro i lavoratori. Ma il sindacato di base denuncia di essere vittima di una campagna ostile da parte delle istituzioni: «Tutto il blocco istituzionale – dal sindaco ai sindacati confederali, dalla questura a Confindustria e Legacoop – fa muro per proteggere un modello economico basato sullo sfruttamento», dice Marcello Pini, tra i coordinatori del SI Cobas a Modena.
Le pratiche di lotta del SI Cobas
Il settore della logistica è caratterizzato da bassi salari e illegalità diffusa nell’applicazione dei contratti. Il ricorso illecito al subappalto di manodopera, secondo il comando provinciale della Guardia di Finanza di Modena, è frequente, e consente alle aziende di mantenere i propri dipendenti nella precarietà ed evadere il fisco per centinaia di milioni. Di fronte a questo scenario, il SI Cobas recupera dalla storia del movimento operaio uno strumento di lotta a cui i principali sindacati ormai non fanno più ricorso: il blocco delle merci. I lavoratori organizzano picchetti davanti ai cancelli delle fabbriche per bloccare o rallentare la circolazione dei camion. Una strategia rischiosa: in alcuni casi vere e proprie squadre di picchiatori sono intervenute a sciogliere i picchetti del SI Cobas, e a giugno dello scorso anno il sindacalista Adil Belakhdim è stato ucciso da un camionista che tentava di forzare un picchetto ai magazzini Lidl di Novara. Ma il blocco delle merci, per gli ingenti danni economici che provoca, è anche straordinariamente efficace per costringere le imprese negoziare.
Tra i pionieri delle lotte del SI Cobas nel modenese c’è il quarantacinquenne marocchino Assouli Abdessamad, in Italia da oltre vent’anni, dipendente della multinazionale delle spedizioni Gls. Costretto a turni notturni che potevano arrivare alle dodici ore, senza giorno di riposo, per poco più di 900 euro al mese, Assouli decide di unirsi al sindacato nel 2011, dopo aver appreso delle mobilitazioni portate avanti dalle colleghe della filiale Gls della vicina Piacenza. Il racconto di Assouli dei primi sforzi per creare una sezione sindacale nella sua impresa ha tinte romanzesche: «Le ragazze di Piacenza scrivevano i nomi e i numeri dei delegati sindacali sul fondo dei bancali che caricavano sui camion diretti a Modena, e noi facevamo lo stesso verso le altre filiali». La cautela, spiega, era motivata dalla necessità di evitare rappresaglie contro i primi affiliati. «Quando la voce è arrivata al titolare si era già iscritto il 90% di noi. Al primo sciopero, su 70 persone, solo 8 sono rimaste a lavorare». Grazie alle proteste Assouli e i suoi colleghi ottengono l’assunzione diretta da parte dell’azienda, che fino ad allora ricorreva all’appalto di manodopera, e una busta paga a norma di legge che raggiunge i 1.600 euro mensili.
In seguito a questi primi successi le mobilitazioni si moltiplicano, e Assouli, nel tempo libero, vi partecipa come organizzatore sindacale. Nel mirino dei lavoratori le imprese di appalto di manodopera, spesso cooperative evanescenti che spariscono lasciando dietro di sé enormi debiti in salari non corrisposti. Lavorare in subappalto può comportare anche il mancato accumulo di scatti di anzianità, e inquadramenti contrattuali che non corrispondono alle mansioni svolte. Per riferirsi ai titolari di queste imprese Assouli parla senza esitazioni di «caporali», e ne elenca abusi che vanno ben oltre le questioni salariali: «In un’impresa di Piacenza, il caporale girava con un bastone: l’abbiamo fatto rimuovere. Nei magazzini della Yoox di Bologna, il caporale della cooperativa Mr. Jobs chiedeva alle lavoratrici sesso in cambio di turni di lavoro: abbiamo fatto cacciare anche lui».
Per i fatti riferiti da Assouli, un responsabile di Mr. Jobs è stato condannato nel gennaio 2017 a 18 mesi di carcere; nel 2019 la cooperativa è entrata in liquidazione coatta lasciando oltre 22 milioni di debiti verso lavoratori e fornitori; Yoox, colosso della vendita online di prodotti di lusso, dice di non essere responsabile per l’operato delle imprese appaltatrici.
Nei picchetti a Yoox Assouli riceve la sua prima denuncia, per resistenza a pubblico ufficiale. Ma è a Modena che le forze dell’ordine ricorrono in maniera massiva alle denunce contro i lavoratori in sciopero. In questa provincia le lotte del SI Cobas migrano progressivamente dalla logistica verso l’industria alimentare. Il settore, centrale per l’economia modenese, fa ampio ricorso all’appalto di manodopera, e le imprese appaltatrici adoperano il contratto della logistica invece di quello alimentare, molto più oneroso.
Davanti ai cancelli di Italpizza, una fabbrica che produce pizze congelate per un valore di oltre 160 milioni, si incrociano le strade di Assouli e di Ruslana Stepaniuk. All’inizio delle mobilitazioni, nel 2018, lo stabilimento impiegava un migliaio di persone, di cui quasi 900 in subappalto.
Stepaniuk racconta di turni faticosi – «fai cinque o seimila pizze all’ora, stai sempre lavorando e contando le pizze» – e paghe da fame: «Ricordo molto bene che nel dicembre 2018, quando già avevamo scioperato, ho lavorato tre settimane di seguito nella notte, al posto di controllo, come responsabile, e sono stata pagata 850 euro». Dopo una serie di tentativi falliti per negoziare migliori condizioni attraverso i sindacati confederali, l’operaia inizia a partecipare alle proteste del SI Cobas. I picchetti strappano all’azienda l’impegno ad assumere direttamente 600 lavoratori. Ma il bilancio per i manifestanti è pesantissimo: decine di feriti, per le cariche della polizia che fanno abbondante uso di gas lacrimogeni, e 120 denunce penali. Assouli è trattenuto in questura per un intero pomeriggio.
Per l’azienda è la prova che le modalità di protesta del SI Cobas sono illegittime: in un comunicato recente Italpizza afferma di aver sempre rispettato tutte le regole, e denuncia «modalità illegali di lotta sindacale» che possono «aprire la strada a una pericolosa deriva di violenza e instabilità economica, minando seriamente l’attrattività del territorio».
Assouli la pensa diversamente: «Quello che ho visto sul territorio modenese – dice il sindacalista marocchino – non l’ho mai visto da nessuna parte. Qua a Modena quando fai un presidio di sciopero arrivano subito con i lacrimogeni, sembra di stare in guerra». Anche lui, come Stepaniuk, parla di intimidazioni legate al permesso di soggiorno: «Quando sono andato a ritirarlo il poliziotto ha detto: se tu continui a fare la lotta forse ti portano via la carta di soggiorno». Per Assouli, Stepaniuk, e altri 65 partecipanti alle manifestazioni di Italpizza, a fine 2020 la procura di Modena ha chiesto il rinvio a giudizio.
La repressione giudiziaria
«Qualsiasi cittadino straniero abbia ricevuto una denuncia per questioni connesse a questa problematica si vede sicuramente negata la richiesta di cittadinanza», spiega nel suo studio bolognese l’avvocata Marina Prosperi, che difende decine di lavoratori coinvolti in procedimenti penali. «Per chi ha più denunce può arrivare addirittura la revoca del permesso di soggiorno illimitato, anche con la presenza di figli o coniugi italiani». Ricevere una denuncia durante uno sciopero, aggiunge, è facilissimo: «Per sciogliere i picchetti quasi sempre vengono tirati gas. Si scappa, si viene bastonati, e nel momento in cui c’è un minimo di reazione, che vuol dire anche mettere una mano per allontanare un manganello, uno scudo, a quel punto scatta la resistenza a pubblico ufficiale, sempre aggravata perché commessa in più di dieci persone».
Prosperi elenca gli strumenti usati abitualmente dalle forze dell’ordine nei confronti dei lavoratori: le denunce penali per resistenza, blocco stradale, manifestazione non autorizzata o violenza privata. Quest’ultimo reato è contestato in caso di picchetto, interpretato come forma di violenza nei confronti di chi tenta di superarlo. Poi ci sono le misure di cui il questore può disporre senza passare per l’autorità giudiziaria, come gli avvisi orali, i divieti di dimora, gli obblighi di residenza. «Questi sono usati a mani basse e hanno una carica discrezionale difficilmente aggredibile in sede giudiziaria».
Si tratta di provvedimenti originariamente concepiti per ambiti che esulano dal mondo del lavoro: l’avviso orale è previsto dal codice antimafia; l’aggravante al reato di resistenza, con pene fino a vent’anni, fu introdotta in seguito alla morte dell’ispettore Raciti negli scontri con gli ultras del Catania nel 2007; il reato di blocco stradale, introdotto dal decreto Salvini sull’immigrazione. Ma la loro applicazione a contesti di lotta sindacale, sostiene l’avvocata, è di routine.
A pagare le conseguenze più pesanti sono i lavoratori stranieri, il cui diritto di permanenza in Italia è in mano alle questure. Ma tra i destinatari dei provvedimenti di polizia, a Modena, ci sono anche funzionari e dirigenti sindacali italiani, in quella che secondo Prosperi è una campagna repressiva specificamente mirata contro il SI Cobas: «Le multinazionali e le grandi aziende sono protette da tutto un apparato di cui fanno parte anche prefettura e questura».
Nel luglio 2019 un picchetto presso la Gls si conclude con la denuncia di 44 lavoratori per violenza privata, reato che comporta fino a 4 anni di carcere. Ma anziché effettuare un’attività di indagine autonoma, la polizia ha denunciato in blocco una lista di iscritti al SI Cobas fornita dal titolare dello stabilimento: per questo motivo è la stessa procura di Modena a chiedere l’archiviazione. Molti dei denunciati, dice il sindacato, non avevano neanche partecipato alle proteste.
Il rinvio a giudizio è invece stato concesso per 86 lavoratori della fabbrica di insaccati Alcar Uno, dove da ben sette anni sono in corso proteste per richiedere l’assunzione diretta e l’applicazione del contratto alimentare. Durante queste mobilitazioni, a gennaio 2017, la polizia arresta il segretario nazionale del SI Cobas, Aldo Milani. L’accusa è di estorsione ai danni della famiglia Levoni, proprietaria di Alcar Uno. Secondo la polizia, il sindacalista avrebbe portato «agitatori» davanti ai cancelli della fabbrica per ottenere un guadagno personale. Nella conferenza stampa che segue all’arresto la questura diffonde un video, privo di audio, di una negoziazione tra Milani e i Levoni, in cui si assiste al passaggio di una busta con cinquemila euro. Le testate nazionali pubblicano il filmato, e la procura lancia un appello agli imprenditori affinché denuncino le estorsioni subite dal SI Cobas.
Il processo ribalta la versione della procura: la persona che riceve la busta di denaro nel video della polizia non era Milani, ma un consulente propostosi alla famiglia Levoni per mediare con il sindacato. Emerge un’intercettazione di un membro della famiglia Levoni, Lorenzo, che il giorno dopo l’arresto riceve una telefonata da un dirigente della Digos di Modena: «Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo» esclama il poliziotto. «Abbiamo fatto un bingo che tu non hai neanche un’idea, guarda, poi sono contento per voi innanzitutto, voglio dire siete usciti da un incubo, e per noi perché abbiamo fatto una cosa pazzesca». L’agente non riesce a trattenere l’entusiasmo: «Cioè, come arrestare, hai capito? Non so, Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro».
A maggio 2019 la corte assolve Aldo Milani per non aver commesso il fatto: la sentenza, contro cui la procura ha fatto appello, stabilisce che le sue richieste economiche facevano esclusivo riferimento alle spettanze dei lavoratori in sciopero. Un anno più tardi la Guardia di Finanza sequestra 90 milioni di euro ad Alcar Uno, per evasione fiscale e contributiva. Sante Levoni, capostipite della famiglia, sarà condannato in primo grado a un anno e mezzo con l’accusa di corruzione per evitare accertamenti fiscali.
Ma gli attacchi al sindacato non si fermano: a maggio 2020 la polizia fa irruzione nella sede modenese del SI Cobas, senza mandato, identificando tutti i presenti e conducendo in questura il funzionario Marcello Pini. L’irruzione fu motivata dalla circostanza che Pini stesse filmando con il cellulare l’arresto di un gruppo di presunti spacciatori di fronte alla sede sindacale, ostacolando le forze dell’ordine (le registrazioni delle telecamere di sorveglianza del sindacato mostrano Pini mantenersi a debita distanza dalla scena).
In una soleggiata mattina dello scorso ottobre, davanti ai cancelli di Italpizza, gruppetti di lavoratori entrano ed escono dalla fabbrica alla spicciolata. Indossano i badge delle imprese appaltatrici da cui formalmente dipendono – Evologica, Aviva – e nessuno vuole fermarsi a parlare con un giornalista. «Hanno tutti paura – mi dice alla fine un uomo originario dei Balcani, che accetta di rispondere alle mie domande in cambio dell’anonimato – perché lì dentro si sta sempre peggio: adesso hanno aumentato la velocità della linea a quasi 8.000 pizze all’ora, lo stipendio resta uguale».
Per la stessa ragione Ruslana Stepaniuk ha deciso che rinuncerà al suo lavoro: «Io ormai tra poco lascerò quest’azienda. Sono stanca, non riesco più a sopportare né fisicamente né mentalmente». La lotta sindacale non le ha dato i risultati sperati, e deve prepararsi a un processo in cui rischia il carcere e la revoca del permesso di soggiorno. Marcello Pini, che ha 14 procedimenti penali aperti a suo carico, e Assouli, che ha perso il conto, non sanno neanche fare una stima di cosa accadrebbe loro se venissero condannati per ogni capo di imputazione. Ad Assouli neanche interessa: «Se pago per la lotta, se mi condannano per la lotta, non me ne frega niente. Io non vado a spacciare, non vado a rubare, lotto per i lavoratori e per quello sono tranquillissimo».
*Lorenzo D’Agostino è un giornalista freelance specializzato in migrazioni e politiche di frontiera; ha collaborato con varie testate internazionali tra cui The Intercept, Internazionale, Foreign Policy, El Salto.
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