Quando il sindacalismo va sotto processo
Il processo ad Aldo Milani, coordinatore del Si Cobas, principale sindacato dei facchini della logistica, dimostra come l’attacco al diritto di sciopero cominci dalla criminalizzazione degli strumenti più antichi delle lotte operaie
Negli ultimi dieci anni un ciclo di lotte importante ha coinvolto il settore della logistica, portando alla luce del sole un articolato sistema di sfruttamento diffuso in tutto il centro-nord italiano (ma non solo), e fondato sul caporalato, sull’applicazione di contratti collettivi “pirata”, sul ricorso incontrollato ad appalti e sub-appalti, spesso affidati a cooperative spurie e finalizzati al furto in busta paga e all’evasione fiscale e contributiva. A farne le spese in primis una forza lavoro costituita principalmente da migranti, costretta a lavorare in condizioni degradate, sottopagata e sfruttata, sottomessa al ricatto continuo del licenziamento (e quindi della perdita del permesso di soggiorno). Ma a pagare è anche la collettività, vittima di un sistema diffuso di evasione fiscale e contributiva che per troppo tempo è stato sottovalutato (qui un esempio recente). A guadagnarci i committenti, spesso multinazionali ma anche gruppi locali e persino aziende a controllo pubblico, indifferenti al costo sociale della competizione al ribasso da loro alimentata, e il vasto sottobosco di intermediari e “imprenditori” capaci di navigare con disinvoltura e senza scrupoli in un mondo dai contorni opachi e sempre sul filo sottile che divide legalità e illegalità.
Nessuna politica, nazionale o locale e neanche la magistratura hanno messo in discussione questo sistema. Tantomeno lo hanno fatto i sindacati confederali, che hanno sottovalutato i processi di ristrutturazione dell’economia italiana e le conseguenze di questi significava per il mondo del lavoro. A dire basta sono stati i lavoratori stessi, che prima sporadicamente e poi sempre con maggiore forza si sono organizzati e hanno lottato, il più delle volte vincendo (e a volte perdendo) le vertenze ed aprendo la strada a un ciclo di conquiste in una categoria che fino ad allora versava in condizioni di supersfruttamento e sotto il perenne ricatto di padroni e caporali.
Se dopo la crisi la classe operaia italiana sembrava indifesa, le mobilitazioni dei «facchini» hanno mostrato che era possibile capovolgere i rapporti di forza, anche smentendo dei pregiudizi di cui cadono vittima intellettuali purtroppo ascoltatissimi. Se i lavoratori immigrati erano stati fino ad allora coloro che accettavano le condizioni di lavoro peggiori, con gli scioperi in Lombardia, in Emilia-Romagna, in Veneto e nel Lazio molti di essi sono stati in prima fila nelle lotte che hanno portato al miglioramento sostanziale delle condizioni di lavoro non solo per sé ma anche per i colleghi italiani, spesso più restii a mobilitarsi. Le lotte dei e delle facchine, come anche quelle dei e delle braccianti, sono anche uno stimolo a pensare l’immigrazione in termini più globali. Le lotte per i diritti sono più potenti di qualsiasi “accoglienza”.
Le lotte nella logistica hanno mostrato una combattività e un’efficacia unica nell’Italia della crisi capace di indicare la strada anche ad altri settori e categorie. È questo aspetto che probabilmente ha scatenato anche una forte repressione nei confronti di questi lavoratori e delle loro organizzazioni. Un attacco proveniente sia dai datori di lavoro, che a pressoché ogni sciopero hanno risposto con licenziamenti e tentativi di serrate, che dalle forze dell’ordine.
Il Si Cobas, principale sindacato che organizza i facchini della logistica, sta affrontando una partita difficile: il processo del suo coordinatore nazionale Aldo Milani, accusato di estorsione aggravata. Milani è stato arrestato a Modena nel gennaio 2017 mentre sedeva, in qualità di rappresentante del Si Cobas, al tavolo delle trattative con i rappresentanti del gruppo Levoni. Le parti stavano in quel momento di una vertenza che andava avanti da mesi. Ne parliamo con Alberto Violante, del coordinamento romano del sindacato di base.
Puoi descriverci il contesto in cui si è sviluppata la vertenza e la dinamica dell’arresto?
Si trattava della prima vertenza nella provincia di Modena, si cercava di mettere qualche regola al sistema delle cooperative nell’industria alimentare dei salumi, dove alcune grandi imprese fanno fare il lavoro manuale della disossatura ad una serie di operai – prevalentemente migranti – violando qualsiasi norma del diritto del lavoro e non applicando il contratto nazionale degli alimentaristi. La vertenza più dura e complicata si è avuta nelle aziende Alcar Uno e Global Carni, appalti del gruppo Levoni a Castel Rangone, in cui dopo una lunga serie di duri scioperi era stata dapprima ottenuta l’applicazione integrale del contratto, poi, solo qualche giorno dopo, erano stati licenziati 55 operai iscritti al Si Cobas con il metodo truffaldino del cambio appalto.
La vertenza era peraltro resa ancor più aspra dal fatto che i licenziati avevano scoperto che la cooperativa non aveva mai versato i contributi spettanti ai lavoratori e alle lavoratrici, e ciò significava l’impossibilità finanche di accedere alla Naspi, l’assegno di disoccupazione.
Dopo settimane di scioperi si arrivò faticosamente a un tavolo di trattativa, in cui era stata richiesta la presenza del coordinatore nazionale del Si Cobas, e a cui partecipavano per la parte padronale l’impresa ed un consulente che curava per loro le relazioni sindacali. Mentre Aldo Milani parla, tra il Levoni e il consulente Piccinini c’è lo scambio di una busta. Quando il tavolo si chiude e si aggiorna, fuori dalla stanza dove si era tenuta la trattativa c’erano gli ufficiali della polizia che hanno fermato sia Aldo Milani, che il consulente. La posizione di quest’ultimo è poi stata stralciata ed è andato a processo con un’accusa molto meno grave, mentre Aldo è stato accusato di estorsione.
Ha colpito anche la velocità con cui Milani è stato messo alla gogna su tutti i giornali, prima ancora di ascoltare i suoi difensori. Al contrario, è stata immediata la solidarietà dei lavoratori.
È incredibile come questa storia di provincia sia finita su tutti i maggiori media e quotidiani nazionali con tanto di ripresa della scena “incriminata”, senza mai spiegare che lo scambio della busta che si vedeva nel video avviene tra due componenti della controparte, e silenziando l’audio in cui si sente che Aldo Milani era intento a parlare d’altro. I riflettori nazionali poi si sono spenti, anche se ci sono stati dei colpi di scena nel processo, come l’intercettazione messa agli atti in cui un dirigente della Digos modenese festeggiava con l’imprenditore Levoni l’arresto del Coordinatore del Si Cobas dicendo «Ce l’abbiamo fatta!». Lo sciopero spontaneo, e la incredibile manifestazione nazionale di Modena del febbraio 2017 sono serviti a far comprendere all’opinione pubblica che dietro il Si Cobas non c’è solo Aldo Milani, ma la forza di un intero movimento.
Conclusasi l’istruttoria le accuse sono state parzialmente ridimensionate in maniera inquietante: con un salto mortale dal punto di vista logico, il pubblico ministero ha mantenuto l’accusa di estorsione, ma riconosce ad Aldo Milani di aver agito «per alti valori morali». Milani avrebbe preso dei soldi, sì, ma per finanziare la cassa di resistenza con la quale sostenere economicamente i lavoratori licenziati e le loro famiglie. Si tratta di un precedente pericoloso: a livello giurisprudenziale il rischio è quello di associare l’attività sindacale al reato di estorsione. Inoltre è come se la magistratura si riservasse il diritto di intervenire e restringere l’autonomia contrattuale. Si tratta di una potenziale minaccia al diritto di sciopero e alle libertà sindacali in Italia?
È così. Si vuole riportare lo sciopero nel campo del diritto penale, approfittando del momento di bassa conflittualità e dell’isolamento dei pochi focolai di conflitto nel mondo del lavoro. Il fatto che i segretari dei sindacati confederali non si pronuncino a questo proposito la dice lunga sulla trasformazione di quelle organizzazioni in fornitrici di servizi. D’altra parte, l’approvazione prima del decreto Minniti e ora del decreto sicurezza di Salvini, rappresentano un evidente salto di qualità in termini repressivi sia in generale contro ogni forma di dissenso sociale, sia in particolare contro il libero esercizio del diritto di sciopero: basti pensare al fatto che le norme introdotte dal governo gialloverde puniscono col carcere fino a dodici anni ogni forma di blocco stradale, dunque anche i “picchetti” dei lavoratori in sciopero.
Non è la prima volta che il Si Cobas e altre organizzazioni sindacali di base devono affrontare denunce e processi. Recentemente, nel gennaio 2019, alcuni vostri delegati, alcuni attivisti del centro sociale Vittoria e lo stesso Aldo Milani, sono stati condannati dal Tribunale di Milano per aver organizzato un picchetto durante lo sciopero nazionale del 19 marzo 2015. La procura aveva chiesto l’assoluzione degli imputati, ma il giudice ha deciso comunque di infliggere una condanna.
È una vicenda incredibile. Per alcuni aspetti è persino maggiormente rivelatrice del processo di Modena, fa capire come si intenda colpire ideologicamente il Si Cobas e attraverso di esso l’intero movimento dei facchini. Un normalissimo sciopero, alla Dhl di Settala (Milano), con alcuni operai che stazionavano ai cancelli dell’impresa, diventa un capo d’accusa che sfocia in una condanna pesante, usualmente comminata per reati gravi come quello di rapina a mano armata. Per non parlare del fatto che Aldo Milani, in qualità di coordinatore azionale, in quel caso non era non dico l’organizzatore, ma neanche partecipava all’iniziativa! Sentenze come questa dovrebbero avere un riverbero di indignazione che va ben oltre la nostra organizzazione, perché se si afferma che uno sciopero è semplicemente un fatto penale si torna all’Italia Sabauda.
Oltre alle denunce e alle sentenze, gli scioperi vengono spesso attaccati anche in tempo reale. Le aziende e le cooperative ricorrono a squadre di crumiri portati li per sostituire i lavoratori in sciopero e che spesso aggrediscono i picchetti. In altri casi i camion hanno cercato di sfondare i picchetti, provocando numerosi feriti e, nel settembre del 2015 Abd El Salem è morto schiacciato da un camion mentre scioperava fuori dalla sua azienda. Secondo te che cosa spiega delle reazioni cosi violente?
Citi due fenomeni distinti. Il fatto che le cooperative organizzano squadre di crumiri che tentano di rompere i picchetti a forza di sprangate (come successo a Roma, a Carpiano ed in Emilia), è rivelatore della natura di cui è composto il capitale imprenditoriale di queste “cooperative”, che non di rado deriva da provenienza equivoca (che molto poco viene indagata dalla magistratura). Venendo da un certo tipo di mondo sono molto abituate a certi metodi. La cosa più sconvolgente è che questi atti di violenza non hanno mai visto una risposta repressiva minimamente paragonabile a quella riservata agli scioperanti. A Roma, nell’attacco ad un picchetto del 2015 avvenuto sotto gli occhi di una volante della polizia, furono coinvolti anche dei dipendenti Sda che per questo sono andati sotto processo e che non sono mai stati sanzionati dall’azienda per questo.
I tentativi di sfondamento degli autisti invece si inseriscono in un quadro di sfruttamento ed autosfruttamento di quella categoria, che non è stata pienamente coinvolta nel movimento della logistica. Gli autisti spesso quando vedono un blocco pensano solo che la committenza scaricherà esclusivamente su di loro, che sono già gravati da tempi di lavoro durissimi, il ritardo della consegna. Ciò ha d’altra parte favorito l’ingresso del sindacato anche in questa categoria laddove i lavoratori hanno preso coscienza che con la mobilitazione unitaria è possibile migliorare le proprie condizioni salariali e di lavoro.
D’altra parte anche la polizia ha attaccato violentemente i picchetti in più di un’occasione.
Oramai, quando l’azienda riesce a fare pressione politica sulla questura l’intervento delle forze dell’ordine è esclusivamente militare. Sempre più spesso, anzi, tende a sgomberare i picchetti tramite l’utilizzo di candelotti sparati ad altezza uomo. È un atteggiamento che, paradossalmente, contribuisce alla crescita politica dei lavoratori.Quelli di loro che prima non erano politicizzati sperimentano in prima persona cosa si intenda per gestione dello stato delle vertenze di lavoro.
Sotto attacco sembrano essere dunque due strumenti, che hanno caratterizzato le mobilitazioni nella logistica: il primo è la cassa di solidarietà, associato all’estorsione, e il secondo è il blocco dei magazzini.
La cassa di solidarietà è uno strumento di mutualismo alimentato dai lavoratori stessi, il picchettaggio è una pratica di lotta, che se viene estemporaneamente condannata, altre sentenze sia oggi che negli anni passati hanno ritenuto legittima. Soprattutto sono entrambi degli strumenti che fanno parte dell’arsenale tradizionale del movimento operaio, e che sono stati riscoperti nell’ambito di una naturale dialettica con l’Impresa: una dialettica sindacale che da sempre contempla momenti di rottura e anche di scontro. Al di là delle singole inchieste o dei singoli procedimenti è questo che viene messo in discussione.
Allargando ancora di più lo sguardo, dopo questa prima fase di lotte, il settore della logistica, dai corrieri alla grande distribuzione passando per l’autotrasporto, sta attraversando una fase di ristrutturazione. In queste circostanze come dovrà agire il sindacato?
Il capitale è in perenne ristrutturazione, pungolato della concorrenza o dall’efficacia delle lotte. In prospettiva vedremo probabilmente sia l’ulteriore crescita della concentrazione aziendale, sia le prime crisi delle aziende che non ce la fanno, in un quadro economico in cui non si vede –per ora- una facile ripresa. La tenuta del sindacato è legata alla sua capacità di diffondersi e legarsi ad altri settori, e di far capire ai lavoratori della logistica che quanto più la crisi si approfondisce, tanto più non c’è una via di uscita per conservare le conquiste raggiunte che non sia una soluzione politica.
Per firmare la petizione in sostegno ad Aldo Milani cliccate qui.
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