
Primarie Usa, assalto al potere
Il semplice fatto che anche dopo il Super Tuesday Sanders sia ancora in corsa da la misura della crisi delle strutture di potere che hanno retto il Partito democratico. Resta da capire se una campagna elettorale sarà sufficiente a regolare i conti
Il SuperMartedì è andato male, anche se gli ottimi risultati della California lasciano la corsa ancora aperta. Dopo il successo in South Carolina e l’autoeliminazione dalla corsa di Klobuchar e Buttigieg, Biden ha consolidato il fronte centrista. A poche ore dalla chiusura dei seggi è arrivato anche il soccorso miliardario di Bloomberg che si ritira dalla corsa per spianargli la strada. Si tratta di un completo ribaltamento di quello che era stata la situazione fino alla settimana scorsa, quando Biden sembrava un candidato impresentabile e Sanders aveva il vento in poppa.
Il fattore Sud
Diversi sono i fattori in gioco per capire questo repentino cambio: il primo punto di svolta sono state le primarie in South Carolina che hanno tirato la volata a un risultato dirompente di Biden in tutti gli stati del Sud. Già quattro anni fa nella vecchia Confederazione Hillary Clinton aveva travolto Sanders. Si tratta di regioni dove il cleavage razziale è decisivo nella dinamica politica: la guerra civile portò sì alla fine dello schiavismo, ma non certo all’integrazione. Anzi, la segregazione razziale venne istituzionalizzata da quelle che negli Stati uniti sono conosciute come leggi Jim Crow, frutto del lavoro delle amministrazioni locali rette da Democratici razzisti. Fu solo col movimento per i diritti civili degli anni Sessanta che i Democratici di Kennedy e, soprattutto, di Lyndon Johnson, accettarono obtorto collo di voltare le spalle ai cosiddetti dixiecrats: da allora il voto nero è solidamente democratico anche se gli Stati in questione – che sono a maggioranza bianca – sono divenuti altrettanto solidamente roccaforti repubblicane.
La popolazione afroamericana di queste zone è tra le più povere in America e tra quelle che avrebbe più da guadagnare dalla vittoria di Sanders che, col suo programma di diritti, dalla sanità alla scuola, avvantaggerebbe i ceti più miseri. Non solo, la sua storia politica parla di continue lotte a fianco della comunità nera, dai diritti civili fino a black lives matter. Non lo stesso si può dire a proposito di Biden, che anzi si è coperto di ridicolo inventandosi di sana pianta un passato di attivista. Eppure le primarie hanno dimostrato che gli elettori afroamericani preferiscono il secondo al primo. La spiegazione è legata soprattutto ai rapporti di potere interni al Partito democratico: se è vero che la popolazione nera tende a essere meno «liberal» e più moderata, un fattore decisivo lo giocano però le forme di aggregazione del consenso all’interno di quella comunità. I leader neri del Sud hanno un contatto diretto con i loro elettori, ogni domenica partecipano alle affollatissime messe, parlano con loro dei problemi personali, fanno piccoli favori, insomma coltivano il proprio elettorato – che li segue poi piuttosto fedelmente alla elezioni. Per questo l’endorsement a favore di Biden da parte di Jim Clyburn – il whip democratico alla Camera dei Rappresentanti – il giorno prima delle primarie in South Carolina ha avuto un’importanza così vitale.
Allo stesso tempo, la leadership afroamericana è cooptata all’interno dell’establishment democratico in un classico gioco di favori incrociati: più visibilità, più potere, in cambio di voti. Già quattro anni fa l’intero black caucus all’interno del Congresso aveva sostenuto Hillary – un’altra candidatura con non proprio un record positivo per quel che riguarda le questioni razziali.
Media e «momentum»
Il voto del Sud non basta però a spiegare la vittoria di Biden che ha avuto successo anche nel bianchissimo New England o in Minnesota. Nuovamente, la macchina del partito, terrorizzata dalla possibile vittoria di Bernie, si è messa in moto al momento giusto. Buttigieg e Klobuchar si sono ritirati in buon ordine, complice anche qualche pressione di Obama, che già si era fatto sentire dietro le quinte per contrastare Sanders. Nel giro di poche ore le primarie si sono trasformate da una gara per nominare l’avversario di Trump in un «tutti contro Sanders». A sinistra, Warren, purtroppo, non ha deciso di imitare Mayor Pete: le sue ambizioni presidenziali erano più che legittime e il suo programma rimane piuttosto simile a quello di Sanders, incontrando il favore di un gruppo sociale – laureato, professional, middle class – diverso da quello che vota Bernie. L’idea che potesse unire l’anima centrista con quella più di sinistra aveva un certo appealing ma era chiarissimo dopo i primi quattro Stati che era un tentativo senza possibilità di successo.
I vari endorsement hanno messo in atto un circolo virtuoso molto ben studiato che ha coinvolto i media per creare quello che gli americani chiamano «momentum», la forza generata da una vittoria che porta ad altri successi. Tanto il trionfo in Sud Carolina che l’appoggio di altri candidati hanno creato le condizioni favorevoli per una copertura mediatica estremamente positiva, dando l’impressione agli elettori indecisi – e sono parecchi quelli che hanno deciso all’ultimo – che Biden fosse il cavallo vincente. Non è un caso che abbia poi trionfato tra le fasce di età più anziane, che si informano prevalentemente attraverso la Tv, ricalcando in maniera clamorosa quanto successo alle recenti elezioni inglesi dove il cleavage generazionale è stato decisivo per la vittoria dei Conservatori (e prima della Brexit). Si tratta di un problema strutturale: le persone più anziane, ormai fuori dal mercato del lavoro, sono più attente a temi «culturali» che non economici – la forza di Sanders – e più inclini a essere indottrinati da un circuito mediatico schierato compatto contro qualsiasi tentativo di cambiamento politico.
Come già nel caso inglese, i mezzi di informazione hanno dichiarato una guerra personale contro Sanders: la critica politica aveva poca presa perché, come già in Uk, i programmi radicali hanno in realtà molto successo tra gli elettori. Anche la tanto temuta accusa di «socialismo» non sembra aver più la presa di una volta. Più facile dunque screditare l’avversario con una narrativa negativa: nel caso di Corbyn furono le accuse di anti-semitismo e tradimento della patria; in quello di Sanders, al netto del maccartismo puntualmente tornato di moda, si è puntato su misoginia (una falsità gratuita cui proprio Warren ha dato nuova enfasi), «squadrismo» on line dei «Bernie Bro», paragonati addirittura alle camicie brune (come se gli attacchi su Twitter fossero il problema di una parte sola), e soprattutto il tema della cosiddetta «electability» – la capacità cioè di vincere le elezioni. Nonostante praticamente tutti i sondaggi indichino Sanders come il candidato con le maggiori probabilità di battere Trump, i media hanno continuato a battere sul tasto del programma radicale, che può piacere ai nostri elettori ma ci farebbe perdere le elezioni. Sono teorie vecchie che non reggono nessuna seria prova empirica: non spiegano, per esempio, come possa avere vinto una figura divisiva ed estremista come Trump, e con lui tutti i leader populisti degli ultimi anni. Eppure è convincente sia, ovviamente, tra coloro che si informano prevalentemente sui media tradizionali, sia tra quelli il cui obiettivo primario è battere Trump – e tra questi, non a caso, la comunità nera.
Una questione di potere
L’abile uso delle leve del potere hanno così portato a Biden, oltre i voti moderati degli altri candidati, anche quello degli afroamericani, indispensabili per la vittoria al Sud, degli indecisi, di quelli meno informati e soprattutto dei più anziani. La campagna grassroots di Sanders, come già quella di Corbyn, ha avuto un successo clamoroso tra i giovani e dato vita a un livello di attivismo che non si vedeva da decenni. Il limite di questo tipo di campagne è però un «hard cieling» quanto a numero di elettori coinvolgibili: i giovani «politicizzati» rimangono una modesta punta di iceberg, mentre la parte sommersa continua a essere disinteressata alla politica. E tanto il Labour che Sanders non sono riusciti ad alzare in maniera significativa il numero di giovani elettori. Il campo avverso non ha invece bisogno di fidelizzare i propri elettori e nemmeno di convincerli della bontà delle proprie proposte: gli basta usare il proprio potere infrastrutturale per creare una massa critica di «resistenza».
Sono problemi non risolvibili nel breve tempo di una campagna elettorale. La sinistra americana in questi anni ha fatto passi da gigante: un candidato che sembrava non avesse nessuna chance contro la Clinton riuscì a metterla in difficoltà, e quattro anni dopo si sta giocando una potenziale nomination contro un partito intero. Ma proprio questo dovrebbe invitarci a rivolgere la nostra attenzione non solo alle pur giuste proposte su come cambiare un mondo ingiusto; ma anche a studiare i meccanismi di controllo politico di strutture di potere consolidato: che hanno sicuramente perso quella capacità di egemonia culturale degli «anni d’oro» del neoliberismo, ma mantengono capacità organizzative, sistemi di cooptazione dell’avversario, controllo delle istituzioni e, non ultimo, denaro sufficiente per non essere intimoriti da una semplice campagna elettorale.
* Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino
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