Quando il rap fece rima con sessismo
Trent'anni fa i 2 Live Crew finirono sotto processo per testi osceni. Al netto di censura e razzismo, la cultura hip hop ha ancora un problema di misoginia
Su Netflix è disponibile la seconda stagione di Hip Hop Evolution: documentari, interviste con Dj, Mc e altre personalità della cultura hip hop ripercorrono l’evoluzione del genere dagli anni Settanta ai Novanta. La serie di produzione canadese, vincitrice del Peabody Award, riesce a riportare alcuni dei passaggi fondamentali della storia della cultura hip hop. Chiunque guardando il programma avrà invidiato Shad K, il rapper che la conduce, e il suo viaggio nella storia e nei luoghi con i diretti protagonisti.
Questa seconda stagione si apre riproponendo la vicenda storica dei 2 Live Crew. Il gruppo si è formato a metà anni Ottanta, ed è la prima formazione rap ad aver subito un processo per oscenità e misoginia. Nel documentario i protagonisti raccontano quell’episodio come la battaglia per la libertà di espressione per tutta la comunità Hip Hop. Era dunque fondamentale vincere quel caso per non creare precedenti, affinché nel rap non si producessero censure future. Il merito ai 2 Live Crew è stato riconosciuto da vari artisti e il caso di cui sono stato protagonisti ha finito per rafforzare e giustificare una visione patriarcale del concetto di “libertà di espressione”, una visione che risulta parziale anche nel documentario.
Ma per analizzare questa vicenda emblematica è necessario spostarsi dal centro. Bisogna osservare da altre angolazioni che rivelano una prospettiva diversa. Spesso il centro è cieco, bisogna guadagnare altri punti di vista per cercare fratture, imperfezioni che non avremmo notato. Per questo ripropongo alcuni passaggi centrali. Nel giugno del 1990, i 2 Live Crew furono arrestati in seguito a un’esibizione tenutasi in un club di Hollywood per soli adulti. Il giudice federale stabilì che i testi sessualmente espliciti nell’album As Nasty As They Wanna Be erano considerati osceni. Questa sentenza, insieme agli arresti e al processo successivo, provocò un intenso dibattito pubblico sulla musica rap, sulla rappresentazione del sesso, della violenza nella musica popolare, sulle diversità culturali e sul significato di libertà di espressione. Due furono le principali interpretazioni che videro i 2 Live Crew protagonisti. George Will, editorialista politico dell’Abc e premio Pulitzer, condusse la campagna stampa contro il gruppo giudicando i testi dell’album come una «combinazione di estremo infantilismo e minaccia» che considerava le donne nere come un obbiettivo legittimo su cui esprimere violenza sessuale. La principale posizione a favore, invece, fu promossa dal professor Henry Louis Gates Jr., esperto in letteratura afroamericana. Quest’ultimo considerava i 2 Live Crew dei brillanti artisti che, con un fine politico, volevano far emergere gli stereotipi razzisti sulla sessualità nera, presentandoli in una forma comicamente estrema.Kimberlé Crenshaw, giurista e attivista statunitense nota per aver introdotto il concetto di intersezionalità, si espresse a partire dalla sua esperienza di donna nera che viveva l’intreccio di subordinazione razziale e sessuale. Crenshaw considerò le varie interpretazioni della vicenda, nel crinale del vero problema fosse la razza o il genere e ritenne che il femminismo nero potesse offrire una risposta politica per riunire diversi aspetti di una sensibilità altrimenti divisa. Dunque, una risposta al caso dei 2 Live Crew doveva necessariamente iniziare da un pieno riconoscimento di quella misoginia. Ma una tale risposta doveva anche considerare se un focus esclusivo su questioni di genere rischiasse di trascurare gli aspetti del perseguimento di 2 Live Crew che sollevavano una seria questione di razzismo. Crenshaw affrontò innanzitutto l’accusa riguardante l’apparente selettività: un confronto tra i 2 Live Crew e altre rappresentazioni sessiste evidenziava il modo in cui il razzismo avesse avuto un ruolo centrale nel distinguere i 2 Live Crew come primo gruppo a essere perseguito per oscenità rispetto a una vasta gamma di artisti che avrebbero potuto fornire altrettanti motivi per la censura, ma che non erano stati presi di mira.
Inoltre c’era l’apparente disprezzo della corte per gli aspetti culturalmente radicati nella musica dei 2 Live Crew come il playing the dozens (una sorta di competizione nella quale i due contendenti, di solito maschi, si sfidano a colpi di espressioni grottesche e volutamente iperboliche), il call and response (successione di due versi, di solito ad opera di altrettanti vocalist, in cui la seconda funge da commento e risposta alla prima), e il signifying (la pratica dell’insultare in versi), aspetti originari dalla cultura afroamericana più ampia. La terza questione sollevata da Crenshaw riguardava la strumentalizzazione dei corpi delle donne nere come vittime per demonizzare la cultura afroamericana e alimentarne il razzismo.
Questi tre fattori portano in superficie un chiaro sottotesto che va a colpire strumentalmente i 2 Live Crew, per alimentare una politica razziale sessualizzata come accaduto spesso in passato. Le Dozens e altre linguistiche sono state a lungo una tradizione orale nera, uno slang che nasce come contro-linguaggio di resistenza alla supremazia bianca, ma riconoscere questo fattore non elimina la necessità di interrogarsi sul sessismo che quell’album ha prodotto. Se è vero che la comunità nera ha più familiarità con le forme culturali che si sono evolute nel linguaggio del rap, quella familiarità non dovrebbe porre fine alla discussione se la misoginia all’interno del rap sia accettabile. Le donne di colore difficilmente considereranno il diritto di essere rappresentate come troie, puttane, groupie o gold digger (cioè interessate soltanto alla ricchezza del partner). La difesa dei 2 Live Crew aveva la prerogativa culturale e politica di difendere la libertà espressiva dei rapper in quanto misogini e l’accusa aveva la caratteristica di alimentare una visione razzista nei confronti della loro cultura di provenienza.
Il dibattito su 2 Live Crew ha dimostrato come la questione della razza e le politiche di genere continuano a emarginare le donne nere. Dotandosi di una sensibilità femminista intersezionale, invece, è possibile scoprire altre questioni per portare in luce una diversa formulazione del problema rispetto alle opinioni che all’epoca dominarono il dibattito sul sessismo nel rap. Crenshaw concluse il suo commento dicendo che «le donne nere dovranno chiarire che il patriarcato è un problema critico e ha un impatto negativo sulle vite non solo delle donne afroamericane, ma anche degli uomini. All’interno della comunità afroamericana, questo riconoscimento potrebbe rimodellare le pratiche tradizionali in modo che le prove di razzismo non costituiscano una giustificazione per una manifestazione acritica intorno alla politica misogina e ai valori patriarcali».
Bisogna reagire a brani sessisti esattamente come reagiremmo a brani dai forti messaggi razzisti o fascisti. Se si considera il sessismo come un problema rilevante o subordinato a oppressioni di altro genere, significa che stiamo alimentando quello stesso sistema. È significativo come una serie tv di alto livello come Hip Hop evolution abbia presentato la vicenda soltanto come una «battaglia per la libertà di espressione», come è altrettanto significativa la difficoltà nell’affrontare tutt’oggi la questione del rispetto di genere anche nel contesto italiano. Testi di quella portata non possono far altro che legittimare gli stereotipi, la misoginia, il sessismo ostile fino alla cosiddetta “cultura dello stupro” soprattutto se consideriamo che in Italia, solo nel 2018, si è registrata una vittima di femminicidio ogni 72 ore.
A 30 anni di distanza sembra che la percezione del rap faccia ancora fatica a mettere in discussione una visione sessista mercificata del corpo femminile e della percezione sociale che ne abbiamo. Piano piano iniziano a esserci riscontri in controtendenza, penso ai Wu Tang Clan che correggono vecchi testi citando esplicitamente il movimento Me Too.
Ma il problema purtroppo non riguarda solo coloro che fanno pimp rap, gangsta rap o semplicemente rap mainstream, investe anche a chi è riconosciuto come conscious o political rapper: essere portavoce di istanze legate alla razza, o qui in Italia all’antifascismo, spesso non prende in considerazione l’antisessismo come pratica implicita o esplicita da rispettare.
*Wissal Houbabi è nata nel 1994 in Marocco e cresciuta in Italia. Studia lingue e letterature straniere all’università di Trieste. Femminista intersezionale, fa parte di Non Una di Meno. E’ appassionata di cultura hip hop e cultural studies.
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