Quel 7 novembre del ’43 nella Roma occupata
Oggi, 101 anni fa, fu il giorno della rivoluzione russa. Nel 1943, i militanti del nascente movimento antifascista celebrarono quell’anniversario nelle strade di Roma per la prima volta dopo vent’anni
L’Alberone sulla via Appia, che ha dato il suo nome a una piazza e a un quartiere di Roma, non è più quello di un tempo. Le radici del leccio ripiantato nel 1986 erano meno solide; tre anni fa crollò, a causa del maltempo. Quello odierno sembra un bonsai se paragonato alla quercia di venti metri di altezza che il 7 novembre del 1943 brandiva un bandierone sovietico sulla capitale occupata dalla Wehrmacht.
Fu il giovane Lillo Pullara a scalare l’Alberone per issare il vessillo; militava in una formazione partigiana comunista chiamata Bandiera Rossa, dal suo giornale che portava lo stesso nome. Durante l’impresa vennero sequestrati dai fascisti i suoi compagni Costantino e Luigi Lo Bue; Pullara stesso venne arrestato il mese successivo e torturato nella prigione SS di Via Tasso.
In quel giorno, i militanti del nascente movimento partigiano romano rischiavano la vita per celebrare il ventiseiesimo anniversario della vittoria bolscevica in Russia. Scritte murali lungo il Tevere e nelle piazze principali, l’esposizione di bandiere rosse attraverso la capitale, e graffiti che inneggiavano ai comunisti tedeschi, esprimevano non solo “l’internazionalismo proletario” dei tempi ma l’ambizione che un giorno si sarebbe alzata la bandiera rossa sopra il Quirinale.
In quei tempi questa ambizione non sembrava così impossibile. Alla fine del 1943, nonostante l’Occupazione del Nord e del Centro, gli Alleati avanzavano su ogni fronte, e soprattutto ad Est, dopo la vittoria sovietica a Stalingrado. Il prestigio dell’Urss era ai suoi massimi storici: non solo gli organi del Partito comunista italiano (Pci) ma anche quelli azionisti e democristiani esitavano a criticare lo stato sovietico o la figura di Stalin.
Ma se lo spirito pro-sovietico dei tempi viene spesso spacciato come espressione di gratitudine verso l’alleato russo (o anche quale traduzione dello spirito di “addavenì Baffone”, l’atteggiamento di chi aspettava passivamente l’arrivo dell’Esercito Rosso per “bolscevizzare” questo paese) i fatti del 7 novembre 1943 ci mostrano qualcos’altro: una componente del movimento partigiano che ha creato una propria mitologia dell’Urss, funzionale alla propria lotta.
Abbagliati
Al momento di ricreare la loro organizzazione sul territorio italiano dopo quasi vent’anni di fascismo, molti esponenti del Pci esiliati, incarcerati o comunque ridotti all’inattività esprimevano la loro perplessità sulle idee che circolavano tra i nuovi iscritti. Per lo più i militanti rimasti sul suolo italiano durante il ventennio fascista (soprattutto quelli non incarcerati o confinati) non avevano potuto seguire le svolte politiche nel movimento comunista o nell’antifascismo internazionale e in questo senso rimasero “isolati” dalla militanza politica. Ma se il socialista Pietro Nenni, al momento di tornare da Parigi a Roma, trovava i vecchi compagni a proseguire “le stesse discussioni di vent’anni fa”, l’esperienza del fascismo non poteva lasciare invariato l’immaginario militante.
Una fonte utile per capire questa situazione è il “rapporto politico” scritto nel novembre del 1943 dal sindacalista genovese Agostino Novella, al centro dell’organizzazione romana del Pci durante la Resistenza. Responsabile della Federazione laziale, spiegava che a Roma (diversamente da altre città) il Pci non avesse potuto mantenere un’organizzazione legata al “centro estero” (dei leader esiliati, legati al Comintern) e quindi i militanti isolati abbiano dovuto mantenere la presenza del partito attraverso una “piccola propaganda”, non solo disegnando scritte murali ma “esponendo la bandiera rossa in occasione del primo maggio, del 7 novembre e in altre ricorrenze rivoluzionarie”.
L’accesso alle fonti poliziesche ci consente uno studio della propaganda durante questa fase venuta prima della Resistenza (soprattutto, i primi anni della guerra), poco studiata dagli storici se non strettamente legata alla storia partitica vista attraverso le strutture formali del Pci. Non sapremo mai chi ha prodotto la propaganda anonima di quel momento o chi ha preso l’iniziativa “spontanea” di portare avanti l’esistenza del partito anche quando i quadri, la disciplina e l’organizzazione non c’erano. Abbiamo solo le prove che almeno qualcuno voleva farlo.
Un buon esempio di questo fenomeno sono le piccole carte nere distribuite a Piazza Vittorio il 7 novembre del 1942, venticinque anni dopo la rivoluzione russa. Su un lato, un falce e martello e la parola “IMMINENTE!”, sull’altro, un verso:
La fame infuria/Ci treman l’ossa/Tra poco sventola/Bandiera rossa!
In quel momento, quando la lotta decisiva a Stalingrado era ancora in bilico, non era affatto scontato che gli Alleati avrebbero sconfitto la Germania nazista; si può ipotizzare che l’entusiasmo di questo gesto fosse dovuto al fatto che era ovvio che l’Italia non poteva vincere la guerra e che comunque il regime veniva meno. Non esprimeva tanto l’idea che sarebbe venuto in Italia “er Baffone” quanto l’idea di un crollo immediato e totale del potere, paragonabile a quello dello stato zarista in Russia durante la prima guerra mondiale.
Ereditata dall’esempio russo del 1917, questa visione di una trasformazione totale e imminente provocata dalla crisi del potere esprimeva un atteggiamento soggettivo, una speranza, staccata da ogni organizzazione. Nel suo rapporto del novembre del 1943, Novella lamentava il fatto che se molti giovani “bussa[vano] alla porta” del partito, questi “manca[vano] una spirito di disciplina” e volevano “fare troppo per il momento”, volendo “fare come in Russia” proprio perché “abbagliati, sedotti ed entusiasmati dalle clamorose vittorie militari e politiche dell’Unione sovietica”.
Se è un luogo comune tra gli storici dire che il prestigio dell’Urss alimentasse quello del Pci durante la Resistenza, e che il ruolo del segretario Palmiro Togliatti dipendesse (almeno sostanzialmente) dal suo rapporto con Stalin, si tende a trascurare l’effetto più generale e indistinto della tradizione russa sul partito in quel momento, e l’esistenza (segnalata da storici quali Luigi Cortesi) di uno spaccato tra un comunismo “spontaneo” e “proletario” e quello delle strutture del partito. E come i commenti di Novella ci indicano, non fu solo il Pci a creare una mitologia dell’Urss o di Stalin.
Il regime fascista aveva schiacciato il Pci già durante la prima fase della rivoluzione russa (dal 1926 in poi esistevano una serie di tentativi di ricreare nuclei in Italia, ma sino ai tardi anni Trenta erano per lo più disastrosi). Ciò ha fatto sì che la tradizione rivoluzionaria venisse comunicata in modo disorganizzato, tramite una sottocultura sovversiva, anziché tramite le scuole di partito o gli organi che esistevano solo nel Pci in esilio.
Durante la ricomposizione del partito negli anni della Resistenza, sono emersi anche movimenti importanti che esprimevano posizioni retoricamente filostaliniane mentre ripudiavano la disciplina del partito di Togliatti. Questa confusione era dovuta all’articolazione dello spirito originale del partito, ereditato dagli anni Venti – intransigente, rivoluzionario, contrario ad ogni alleanza interclassista – e ad un culto della lontana Urss quale esempio del “socialismo reale”, su cui non c’erano informazioni se non quelle prese dalla stampa fascista stessa.
Nel caso del movimento Bandiera Rossa di Roma (che era anche più grande del Pci “ufficiale” nella capitale durante la lotta clandestina, soprattutto nei quartieri popolari e le borgate), questo si traduceva nell’accusa che la linea nazional-frontista del Pci, tacciato di aver rimandato la sognata rivoluzione all’avvenire, avesse tradito i presunti “veri” piani rivoluzionari di Stalin. Avendo letto nella stampa fascista che “er Baffone” voleva bolscevizzare l’Europa e che non erano sanabili le contraddizioni tra gli Alleati “plutodemocratici” e quello sovietico, se ne erano convinti: solo che hanno invertito il segno della propaganda fascista per promuovere un mito positivo di un Urss onnipotente.
7 novembre 1943
Data la concorrenza tra i movimenti comunisti romani, la celebrazione dell’anniversario era anche una lotta per l’egemonia dentro l’embrionale Resistenza nella capitale. Se la resistenza all’invasione tedesca nel settembre era stata più importante a Roma che non nelle altre città italiane, la mancanza di una grande base operaia nella città (abbinata alla disoccupazione di massa) ha fatto sì che la competizione politica tra le formazioni antifasciste si svolgesse soprattutto nel reclutare le bande di soldati sbandati e i renitenti alla leva in fuga (un fenomeno alimentato il 9 novembre quando il bando del maresciallo Rodolfo Graziani prevedeva la pena di morte per quest’ultimi).
Sarebbe facile esagerare le dimensioni del comunismo romano in quel momento: infatti anche al momento della Liberazione nel giugno del 1944 c’erano meno di dieci mila militanti comunisti clandestini nella capitale. Se secondo un rapporto della Guardia Nazionale Repubblica “riservato al Duce”, nelle borgate di Roma “Mosca” fosse diventata una “mecca”, questo parere rifletteva solo una reazione superficiale alle espressioni più ovvie della militanza politica.
Ma le celebrazioni dell’anniversario della rivoluzione russa avevano proprio lo scopo di vantare la forza dei comunisti e di dar visibilità alla loro lotta. Il Pci ha regolarmente pubblicato il settimanale de l’Unità il 3 e 10 novembre, con articoli sull’anniversario (quest’ultimo numero insisteva che fosse “tutta la cittadinanza romana” e “non solo i comunisti” ad aver celebrato “clamorosamente” l’anniversario) e c’era anche un numero speciale del dissidente Bandiera Rossa, pubblicato il 7 novembre stesso.
Impressionanti erano i fatti della giornata. I militanti dei Gruppi d’Azione Patriottica (Gap) legati al Pci hanno tenuto dei comizi “volanti” a San Giovanni e a Piazza Fiume; secondo la gappista Carla Capponi, la notte del 6 novembre hanno anche disegnato “scritte rosse” in Piazza Venezia, in Piazza di Spagna ed in Piazza del Popolo, dove inneggiavano ai comunisti tedeschi assassinati dalle truppe di estrema destra dei Freikorps nel 1919, scrivendo sui camion tedeschi “W Rosa Luxemburg, W Karl Liebknecht”.
In generale, la propaganda del Pci esprimeva un patriottismo italiano legato a quello sovietico, in una visione d’insieme che presentava la rivoluzione russa quale elemento dell’eredità comune di tutti i paesi democratici, capace di unire “popoli e nazioni” in una sola causa antinazista. Anche inneggiare a Luxemburg e Liebknecht era raro nel contesto di una propaganda che enfatizzava l’aspetto patriottico della lotta al “barbaro tedesco” e la sua continuità con lo spirito Risorgimentale.
Più netto nelle pagine di Bandiera Rossa fu il legame con l’aspetto più antagonista della tradizione rivoluzionaria italiana. Secondo un articolo pubblicato nell’anniversario stesso “un 7 novembre si avvicina per i paesi capitalistici… la società borghese vive gli ultimi istanti della sua già troppo lunga esistenza”. E un rapporto sull’anniversario, uscito su Bandiera Rossa del 14 novembre, parlava dell’esibizione dell’“amato vessillo”, e delle bandiere “tenute nascoste e sottratte alla distruzione e per venti anni conservate dagli operai per gli avvenimenti di domani”. Per i redattori, la celebrazione anticipava “il ritorno delle masse sulle piazze della rivoluzione proletaria”.
Delusioni
Questi militanti immaginavano di poter trasformare la guerra in rivoluzione, seguendo l’esempio bolscevico del 1917. Il riferimento a quel modello rifletteva la voglia di saltare ogni stadio riformista, di prendere il volante della Storia dopo i lunghi anni di fascismo e di imporre una svolta trasformativa e immediata. Le cose non andarono così. Nel marzo del 1945 i comunisti della capitale avrebbero avuto l’occasione di invadere il Viminale e issare la bandiera rossa, durante le sommosse provocate dalla fuga del generale fascista Mario Roatta, ma non l’hanno mai alzata sopra il Quirinale.
L’estrema presenza dell’immaginario sovietico nella stampa comunista dell’epoca (e non solo quella “ufficiale” o dipendente da Mosca) rifletteva alcuni aspetti subalterni del comunismo italiano ma anche la sua voglia di creare una mitologia internazionalista, legando l’esperienza sovietica all’avvenire dell’umanità nel suo insieme. In altri tempi anche altre esperienze (Cina, Cuba, Vietnam) sarebbero state di ispirazione per la sinistra rivoluzionaria in Italia, sebbene questo non sempre si traducesse in una coscienza profonda di quelle esperienze né tantomeno in una voglia di importare un cosiddetto “modello”.
Adesso, nel centunesimo anniversario della rivoluzione russa, è difficile recuperare lo spirito del 1917 ma anche quello del 1943; l’idea di un ribaltamento immediato del sistema sembra distante, e non siamo noi a promettere il domani. L’esperienza sovietica, nelle sue tragedie e errori, farà sempre parte della storia di chi ha provato a cambiare il mondo. Ma così come i proletari della Resistenza romana non potevano semplicemente imitare il modello russo, forse la storia rivoluzionaria è qualcosa da studiare più che da riproporre nel presente.
*David Broder è uno storico inglese, redattore europeo di Jacobin Usa.
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