Salvare l’economia da sé stessa
L'economista australiano Steve Keen, intervistato da Jacobin, propone una visione alternativa a quella dell'economia neoclassica che domina da cinquant'anni, per fronteggiare le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico
La politica economica dei paesi avanzati negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti ed è sempre più in discussione. Da quasi cinquant’anni, l’economia è dominata dalla visione neoclassica che presuppone la razionalità degli individui e ignora il ruolo della moneta, escludendola dai modelli di previsione. Questa semplificazione, nata con l’idea di rendere più «maneggevole» l’economia, ha prodotto effetti profondi nel mondo reale, aprendo alla deregolazione dei mercati finanziari e alle politiche di austerità.
Steve Keen, professore di economia alla Western Sydney University e all’University College di Londra nel libro L’economia Nuova, da poco uscito in Italia per Meltemi, evidenzia la necessità di un’alternativa a questa visione prevalente. Un’alternativa che tenga conto delle complessità per fronteggiare realmente le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico.
Lei è da sempre uno studioso del mercato monetario e del ruolo del debito privato. Ed è stato uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi del 2008. Come mai, invece, non l’hanno prevista gli economisti mainstream?
Gli economisti neoclassici hanno sempre sostenuto che il denaro non abbia importanza per l’economia reale. Pensano che il governo controlli l’offerta di moneta: se quest’ultimo crea troppa moneta, produce inflazione. In questa visione, i fattori monetari non influenzano il livello reale della produzione. E questo è categoricamente sbagliato. Al contrario, il denaro creato dalle banche diventa sia parte del reddito aggregato che della spesa aggregata. Quindi, il denaro ha effetti reali.
Questo aspetto è completamente tralasciato dagli economisti neoclassici, che si limitano a dire che l’attività di una persona è la passività di un’altra. Il modello neoclassico del sistema bancario è basato sui cosiddetti «fondi mutuabili», per cui le banche non sono altro che intermediari tra persone più pazienti e persone meno pazienti. Quindi, un risparmiatore paziente di fatto sta prestando soldi a uno meno paziente che li sta prendendo in prestito.
Nel mondo reale, le banche quando prestano creano denaro – come rimarcato anche dalla Banca d’Inghilterra nel 2014. Il denaro aggiuntivo creato dalle banche si aggiunge alla domanda aggregata e al reddito. Una volta incluso questo aspetto, diventa ovvio che il fulcro delle crisi finanziarie sono le bolle di debito privato. In corrispondenza delle bolle, il credito – ovvero la variazione del debito – cresce e porta a un’espansione dell’attività economica per un periodo di tempo. Ma, soprattutto se il denaro viene preso in prestito per speculare sui prezzi delle attività, l’aumento del debito aumenta i prezzi senza aumentare la capacità di saldare il debito. E a un certo punto, il sistema crolla.
È quello che è successo nel 1929, e anche nel 2007. Gli economisti neoclassici tendono a trattare la Grande Recessione (o crisi finanziaria globale) come un’anomalia che non sono in grado di spiegare. In effetti, spiegare le ragioni delle crisi è al di fuori delle loro capacità, ma molte persone l’hanno spiegata. E queste persone, come me, si sono concentrate sul ruolo del credito. Se si guarda alla crisi del 2007 negli Stati uniti, il credito è passato da essere più del 15% del Pil nel 2006 a meno 5% nel 2009. Questo enorme cambiamento è ciò che ha portato al crollo. Io ne ero consapevole, e così ho visto arrivare la crisi.
Fondamentalmente, il credito è la causa principale dei crolli dell’economia e delle crisi finanziarie. E poiché gli economisti neoclassici lo ignorano, non sono in grado di prevedere l’arrivo di queste crisi.
In Italia gli effetti della miopia degli economisti si sono visti in maniera più evidente che altrove: il paese è stato un laboratorio in cui si è provato a dare una risposta «ortodossa» alla crisi. In prospettiva, i vincoli fiscali e monetari dell’Ue hanno limitato le capacità di adattamento del paese?
La critica che ho sempre avuto verso l’euro – e questa visione è stata condivisa da economisti con opinioni divergenti come Milton Friedman e Wynne Godley – è che oltre a rinunciare alla sovranità monetaria, si perdeva anche qualcosa in più, ovvero la capacità di controllare la spesa pubblica. La formazione dell’euro è stata una decisione sbagliata sotto tutti i punti di vista.
Ma per l’Italia, in particolare, ha significato perdere la capacità di creare la propria moneta, obbligando il paese ad affidarsi all’Unione europea. Ma con i criteri di Maastricht che limitano al 3% il deficit e al 60% il debito pubblico, crescere diventa complicato. In Italia, poi, già all’inizio dell’esperimento europeo, il livello di debito pubblico era quasi doppio rispetto a quello richiesto. Quindi, la capacità del governo di creare moneta è sempre stata soggetta a forti vincoli, e rimaneva solo il denaro privato da prendere in prestito. Infatti, come in molti paesi europei, anche in Italia si è verificata un’impennata del debito privato, passato da meno dell’80% del Pil all’inizio dell’euro a oltre il 120% al momento della crisi.
Non si tratta di un livello elevato, in media i paesi avanzati hanno un debito privato pro-capite intorno al 180% del Pil. Però l’impossibilità del governo di creare moneta e la crescita eccessiva del debito privato ha portato il paese a trovarsi tra l’incudine e il martello, bloccando la possibilità di stimolare la crescita. Con l’aggiunta, poi, che gran parte del debito privato era usato per speculare sui prezzi, piuttosto che per investimenti produttivi.
Per questo motivo, la performance di crescita dell’Italia è diminuita drasticamente rispetto a come stava andando non solo prima dell’euro, ma anche prima che le politiche liberiste prendessero il sopravvento su quelle keynesiane. Fino agli anni Ottanta, infatti, la crescita dell’Italia era migliore di quella americana. Poi, il paese si è trovato senza gli strumenti per espandere l’offerta di moneta, che è ciò che permette la crescita in un’economia capitalista.
Per certi versi, l’Italia dimostra quanto sia stata sbagliata l’idea del Trattato di Maastricht. Nel 2020, il debito pubblico è cresciuto oltre il 150%. Di conseguenza, ora l’Ue sta costringendo a una massiccia austerità per ridurre il debito e il paese ancora una volta sta sottraendo risorse all’economia. Ma il vero pericolo in un’economia capitalista non è affatto il debito pubblico, ma quello privato. In pratica, si hanno entrambe le gambe legate insieme, e si dice loro di correre.
In questo contesto, la risposta iniziale alla pandemia sembrava poter essere una svolta: il Recovery Fund e la sospensione del patto di stabilità in Europa sembravano aprire una nuova fase di investimenti per la transizione climatica. Lei racconta come la crisi del 2008, superata la tempesta, non abbia cambiato la politica economica prevalente. E questo fa parte di una visione dell’economia che concede di sospendere i vincoli nei momenti emergenziali, senza però mettere in discussione i fattori strutturali che hanno causato la crisi stessa. Pensa che anche la risposta alla pandemia vada interpretata come una fase transitoria di gestione delle anomalie?
Sfortunatamente, anche se pensano di essere logici, gli esseri umani sono talmente dominati dall’ideologia che non credo l’Unione europea imparerà dall’esperienza della pandemia. Negli Stati uniti – che sono il caso più istruttivo – il rapporto tra il deficit e il Pil ha raggiunto il 25%. La recessione è stata causata dagli effetti della pandemia sulle catene di approvvigionamento. Ma è stata la recessione più breve nella storia del capitalismo americano. Gli economisti, sbagliando, tendono a trattare tutte le crisi come shock esogeni, ma in questo caso è stato così. La recessione, causata da un fattore esterno, nel giro di un anno è finita.
La crisi del 2007 invece non era esogena. In quel contesto, i neoclassici erano al comando, e hanno potuto testare le loro idee. È stata la recessione più lunga della storia americana dal dopoguerra. Seguendo la logica empirica, uno si aspetterebbe che la crisi gli abbia fatto imparare la lezione: «I keynesiani avevano ragione, per uscire da una recessione dovremmo avere un deficit elevato». Questo non è successo e gli economisti continuano a riproporre le dottrine di austerità. Lo state vedendo anche ora con l’enfasi che l’Unione europea sta ponendo sulla necessità di abbassare il debito pubblico, di ritornare al rigore fiscale.
È come se avessimo fatto un esperimento nella vita reale, scoprendo che le teorie che hanno dominato la politica negli ultimi vent’anni non sono applicabili. Ma come conseguenza, continuiamo ad applicare quelle politiche anche se sappiamo che la teoria è empiricamente sbagliata. Quindi non cambieranno. Ho perso ogni speranza che le persone che credono nell’austerità o nel Trattato di Maastricht cambino idea.
Queste dinamiche avvengono mentre l’economia globale sta cercando di riconvertirsi verso un futuro a zero emissioni. Anche sui modelli climatici prevalenti fatti dagli economisti mainstream lei ha delle posizioni molto nette.
Gli economisti climatici non hanno la minima idea di cosa significhi realmente il cambiamento climatico. Pensano che il riscaldamento globale renderà il mondo un po’ più caldo, e che questo sarà positivo per i paesi freddi e meno per i paesi caldi. E poiché la maggior parte del Pil globale è prodotto nei paesi freddi, i danni ai paesi caldi saranno compensati.
Includo anche William Nordhaus [premio Nobel per l’economia nel 2018 n.d.r.] in questa lista. Gli economisti dicono di confrontarsi con gli scienziati del clima, ma il modo in cui lo fanno è alquanto discutibile. Uno degli esempi più rappresentativi è un articolo di Timothy Lenton del 2008 che tratta i cosiddetti tipping point climatici, le soglie critiche che una volta superate possono causare cambiamenti irreversibili di grande portata. L’articolo evidenzia come due soglie probabilmente saranno superate in questo secolo. E altre cinque soglie, sulle nove prese in esame, potrebbero essere superate entro la fine del secolo. Il superamento di queste soglie minaccia l’esistenza di interi ecosistemi. Nordhaus ha riassunto il tutto dicendo che non c’è pericolo che ci siano tipping point per i prossimi 300 anni, fino a quando le temperature non saranno aumentate di oltre tre gradi, in completa contraddizione con le previsioni degli scienziati.
Nel 2021, è stato fatto un sondaggio tra gli economisti climatici, chiedendo loro di stimare il costo per l’economia mondiale di un aumento della temperatura di tre gradi nel 2075, cinque gradi nel 2130 e sette gradi entro il 2230. Le loro stime prevedevano che aumenti così significativi avrebbero portato a un calo del Pil del 20% nei prossimi due secoli, che corrisponderebbe a un calo della crescita annua dello 0,02%. In altre parole, per gli economisti il cambiamento climatico avrà un impatto trascurabile.
Ciò significa che la questione non è stata presa sul serio. Ed è per questo che i governi, al di là delle dichiarazioni, si rifiutano di agire concretamente. I politici hanno ascoltato gli economisti e questo è uno dei motivi per cui le aziende di combustibili fossili stanno riuscendo a rallentare la transizione. Gli economisti climatici sono responsabili, con la loro negligenza, di averci condotto verso una crisi che minaccia l’esistenza umana. Probabilmente vedremo questa crisi diventare reale molto presto, sicuramente entro questo decennio. E questo coglierà di sorpresa gli economisti, ma anche i politici che li hanno ascoltati e non hanno fatto nulla di significativo per ridurre i gas serra.
Alcune previsioni effettivamente appaiono molto riduttive. Se il rapporto tra energia e Pil è molto più alto di quello che prevedevano gli economisti significa che per ridurre il consumo energetico dovremmo anche – almeno in parte – ridurre il Pil?
I modelli climatici degli economisti trattano l’aumento della temperatura come una variabile esterna da aggiungere al calcolo di costi e benefici. In questi modelli, la produzione è causata solo dalla combinazione di lavoro e capitale. Gli input esterni, come l’energia o le materie prime, non sono inclusi.
Invece è fondamentale inserire l’energia in questi modelli di produzione. Senza energia, il lavoro è un cadavere e il capitale è una scultura. Entrambi hanno bisogno di input energetici per poter produrre qualsiasi cosa. Partendo da questa idea, l’energia diventa fondamentalmente uguale al Pil. Noi partiamo dalle fonti di energia come carbone e petrolio e le trasformiamo in forme di energia più utili o in forza motrice. E questo spiega circa l’80% del nostro Pil attuale.
Nel 1991, Nordhaus scrisse che era davvero difficile trovare un impatto diretto dei cambiamenti climatici sulla maggior parte dell’economia. Tra i settori che non subiranno danni includeva l’industria manifatturiera, persino quella mineraria. Però ignorava le miniere a cielo aperto, i servizi al dettaglio e all’ingrosso, il settore finanziario, il governo e i trasporti. Tutte queste attività hanno bisogno di energia. Ora ci troviamo di fronte a un problema critico, perché l’80% della nostra energia proviene da fonti fossili e la relazione tra energia e Pil è praticamente di uno a uno.
Se gli effetti catastrofici che arriveranno faranno finalmente capire alla comunità internazionale che dobbiamo abbandonare i combustibili fossili, la minaccia immediata potrebbe essere un calo dell’80% del Pil. Ovviamente non possiamo permettere che ciò accada, questo causerebbe la fame.
L’unico modo sarebbe ridurre velocemente la dipendenza dai combustibili fossili, ma anche considerare il razionamento dell’energia. Questo dovrebbe essere imposto ai ricchi, non ai poveri. E intendo i poveri di ogni paese rispetto ai ricchi di ogni paese, così come le nazioni povere rispetto alle nazioni ricche. Oggi, l’1% della popolazione consuma oltre il 30% dell’energia. Quindi, è possibile ridurre il consumo energetico dei ricchi senza costringere i poveri a morire di fame. Ma questo implica un cambiamento completo nel modo in cui si allocano beni e servizi.
Gli economisti ci hanno costretto a questa situazione, perché se avessero preso sul serio il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo, pubblicato già nel 1972, avrebbero consigliato cambiamenti drastici a partire dal 1975. E sarebbero state azioni marginali rispetto a quello che dovremo fare nel 2025.
La COP28 che si è tenuta pochi giorni fa ha avuto molte controversie ma ha anche per la prima volta messo nero su bianco la necessità di allontanarsi (transitioning away) dalle fonti fossili e ha reso operativo il fondo di risarcimento climatico, secondo lei come dobbiamo interpretare questi esiti?
Qualche passo avanti è stato fatto. Però i nostri attuali leader continuano a pensare che parole di circostanza come «eliminare gradualmente» i combustibili fossili riflettano la gravità della situazione. È un po’ come dire che girare gradualmente il timone del Titanic a 500 metri dall’iceberg potesse riflettere la gravità della situazione. Non saremmo dovuti arrivare a 500 metri dall’iceberg.
La maggior parte dei politici pensa ancora che i pericoli della crisi climatica siano lontani nel futuro. Sperano, che non ci sia nulla di cui preoccuparsi seriamente prima del 2100 e che il 2050 sia una data ragionevole entro cui agire. Nel mentre, però, gli scienziati del clima, in particolare quelli che studiano le soglie critiche, provano in tutti modi a dirci che stiamo andando incontro a una catastrofe totale. Se continuiamo sulla strada attuale, non avremo una civiltà di cui discutere nel 2100. Le parole che vengono pronunciate non sono neanche lontanamente sufficienti rispetto a ciò che gli scienziati del clima stanno dicendo. Non è detto che gli scenari più drammatici si realizzino, ma questi sono i pericoli che corriamo.
*Jacopo Caja fa ricerca e collabora con la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Si è laureato in economia politica all’Università di Amsterdam. Steve Keen, professore di Economia alla Western Sydney University e Distinguished Research Fellow all’University College di Londra, è uno dei più importanti critici della scienza economica convenzionale. È stato tra i pochi studiosi ad aver previsto il crollo finanziario del 2007-2008. Tra le sue pubblicazioni Debunking Economics (2011) e Possiamo evitare un’altra crisi finanziaria? (2017).
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