SanPa: flussi e refresh di un archetipo mediale
Scandagliando fonti, ipotesi, testimonianze e ricostruzioni a posteriori, la docuserie su Muccioli ci aiuta a smontare i presunti neutralismi politici e riattivare l’approccio critico. Anche rispetto ai fatti di questi giorni
Tutti conosciamo San Patrignano ma non tutti ricordavano Vincenzo Muccioli, il suo fondatore. Com’è stato possibile rimuoverlo dall’immaginario popolare? È stata una dimenticanza o un’omissione? Sono queste le domande che emergono dopo la visione di SanPa: Luci e Ombre di San Patrignano, la prima docuserie italiana prodotta da Netflix che parte dalle manie di gigantismo e gigantificazione di un leader, per fotografare ciò che è restato di quegli anni Ottanta segnati da aridità ideologica, germinazione mediatica ed esplosione di eroina. Seguendo questa prospettiva, il contenuto dei cinque episodi va analizzato per quello che è: un racconto per immagini sul potere di un archetipo, Vincenzo Muccioli, e di come è stato raccontato, recepito e dimenticato. Tutte le questioni riguardanti le verità giudiziarie e umane su Muccioli e la sua comunità esulano dal discorso sull’archetipo e, se siete in cerca di scoop al riguardo, l’analisi che segue non fa per voi.
Muccioli, Osho e Joe Exotic: archetipi a confronto
La storia SanPa, scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli per la regia di Cosima Spender, calca certamente i sentieri del documentario d’inchiesta contemporaneo ma riesce a dribblare alcune delle insidie omologanti dell’azienda di Los Gatos. Prima di tutto scegliendo di non usare alcuna voce narrante (come invece accade nel filone dei docu-spiegoni Explained) ma lasciando che l’universo narrativo emerga dal montaggio e il remix di fonti diversissime: interviste inedite, filmati di repertorio, fotografie, registrazioni audio e nessuna infografica (salvo qualche mappa di contorno e la sigla d’apertura che strizza l’occhio all’acclamato Narcos). La struttura narrativa, divisa in una drammaturgia a cinque atti che racconta nascita, crescita, fama, declino e caduta del «divo» Muccioli, ricorda quella di Wild Wild Country, altra docuserie Netflix che ricostruisce la quasi concomitante vicenda del santone indiano Osho Rajneesh, fondatore e leader di una comune da 5000 abitanti in Oregon che insieme ai suoi adepti finì per essere indagato per crimini di vario tipo fra cui il primo caso di terrorismo chimico negli States. Ma a differenza di WWC, SanPa si focalizza fin da subito sulla storia delle idee e delle rappresentazioni che hanno alimentato la «mitologia» di San Patrignano in un’epoca cruciale, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, in cui l’analogico passava il testimone al digitale, il nastro magnetico al disco ottico, la prima alla seconda Repubblica.
Ma il confronto più attraente è fra lo storytelling di SanPa e quello di Tiger King: Murder, Mayhem and Madness, altra docuserie Netflix del 2020 che racconta il controverso leaderismo e le vicende giudiziarie di Joe Exotic, fondatore di un remunerativo zoo-comunità per animali selvaggi «in via d’estinzione» che contava sul lavoro gratuito di decine di ex-detenuti e scappati di casa. Le differenze abissali fra i due protagonisti delle serie (uno eccentrico, riottoso e dichiaratamente gay, l’altro, Muccioli, morigerato, risoluto e dichiaratamente cattolico) si rispecchia in due diverse scelte registiche. Al taglio meta-filmico e reality della serie su Exotic, SanPa preferisce non mostrare mai suture, inciampi di percorso o calcare la mano su nascondimenti e cliffhanger: la sua è una narrazione catartica vecchio stile, strutturalmente rigorosa e instradata sulla creazione di un percorso museale piuttosto che un safari di situazioni bizzarre (come avviene in Tiger King). A differenza della serie su Joe Exotic (attualmente in carcere per tentato omicidio su commissione), se lo scopo di Neri e soci fosse stato quello di schiacciare il racconto sulla figura di Muccioli l’assist sarebbe stato quello di concentrarsi sul suo passato para-psicologico e occultista. Trappola dietrologica a cui SanPa accenna ma non cade, sottolineando indirettamente come l’archetipo del «personaggio» Muccioli attraversi le tradizionali caratterizzazioni della narrazione cronachistica (uomo-della-provvidenza, santone, padre buono, lupo cattivo, «frocio!»). Uno storytelling che avrebbero fatto scuola negli anni a venire e di cui la presunta imparzialità del data journalism contemporaneo, ne rappresenta solo una forma come altre, prostrata alla logica dei Big Data.
La logica del refresh
SanPa è una mostra delle atrocità dell’Italia anni Ottanta. Una scofanata d’archivio che sgonfia il mito dei tempi andati dei talk show, del bipolarismo e dei paninari, dove tutto era più semplice e quindi più comprensibile. La riconoscibile complessità delle relazioni economiche, politiche, mediatiche e di potere attorno alla più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa, in SanPa erompe dallo schianto contro il muro (e la faccia) di gomma dei servizi «messianici» di Red Ronnie sull’opera di Muccioli; delle puntate del Maurizio Costanzo Show in cui si irride di fronte a presunte violenze e coercizioni scambiandole per «schiaffetti correttivi»; dei quiz di Mike Bongiorno che alimentano il consenso del leader di San Patrignano accostandolo alle eccellenze del made in italy come Valentino o Armani. Uno schianto che genera percussione, riverbero, ritorni.
La ripresa in alta definizione dell’analogico Vincenzo Muccioli è un ritorno del rimosso perturbante e sexy, che non si accanisce sull’essere umano ma sulla nostra visione dell’essere, su questa memoria smagnetizzante e la tendenza a nascondere la polvere (e le polveriere) sotto al tappeto. O al massimo a «tramutare in romanzo», come scrive Selene Pascarella in Tabloid Inferno, «un fatto vero che vero non è». In Italia sembra vigere questo tacito accordo fra media e politica, società e istituzioni, secondo cui la narrazione delle vicende pruriginose e segnanti di una nazione possa godere di una straordinaria licenza poetica per poi essere congelata nel freezer dell’oblio (e scongelarsi alla bisogna).
Chissà cosa penserebbe Netflix alla proposta di portare sul piccolo/grande schermo anche la ben più malmostosa vicenda di Alfredino Rampi, il bambino caduto e morto nel pozzo artesiano di Vermicino che fra il 12 e il 13 giugno 1981 tenne incollati 21 milioni di telespettatori grazie a una pionieristica diretta non stop della durata di ben diciotto ore: un’altra perla nera della simbiogenesi mediale italiana, dissepolta e sezionata nel romanzo Dies Irae di Giuseppe Genna che per preziosità narrativa e immaginifica è accostabilissimo proprio a SanPa.
Questi casi ci parlano di una sorta di logica del refresh che punisce la memoria per procurato allarme e ostentata complessità. Un refresh che non cancella (altrimenti sarebbe un reset!), ma che appunto «ripulisce» dalle complessità. Un refresh, che oltre alle storie, colpisce anche i personaggi.
È accaduto con Karol Wojtyla, il Papa «miracolato» nell’attentato del 1981, morto nel 2005, beatificato nel 2009 e canonizzato in tempi record nel 2014 nonostante le ombre sulla nomina a cardinale di Theodore McCarrick, found-raiser ecclesiastico e noto predatore sessuale (ora dimesso dalla stato clericale e ritirato a vita di privata). Ma è accaduto anche con l’uomo politico più potente della prima Repubblica, Giulio Andreotti, che dopo numerose vicende giudiziarie che lo vedevano al centro di complotti, omicidi e rapporti con Cosa nostra (riconosciuti ma caduti in prescrizione), all’alba dei Novanta si ritagliò una «defilata» poltrona da senatore a vita e infestò la cultura pop sotto forma di macchietta da Biberon, testimonial pubblicitario e infine meme da intr(ash)tenimento. In pochi ricorderanno che nel 1949, l’allora sottosegretario allo spettacolo Andreotti emanò una decisiva legge sul cinema che favoriva le produzioni italiane su quelle americane frenando però gli eccessi del neorealismo perché «i panni sporchi», dichiarò, «si lavano in famiglia».
Pensiamo infine ai tentativi di riabilitazione mediatica (e giudiziaria) del leone da tribunale della seconda Repubblica, Silvio Berlusconi, che appare in SanPa mentre inizia la sua scalata politica e Muccioli è in caduta libera. Berlusconi è «il kung-fu panda della politica italiana» come lo definì Slavoj Zizek in Dalla Tragedia alla farsa, perché ha dato il calcio d’inizio a un gioco in cui l’auto-ironia e il self-mocking diventano armi di persuasione di gran lunga più efficaci dell’irreprensibile autorevolezza del leader novecentesco (…anche se poi venne Razzi su Tik Tok!). Un’auto-rappresentazione burlonesca del capo che sembra anticiparsi nell’archetipo di Muccioli ricostruito dal team di SanPa.
Si resta a tratti allibiti come, facendo leva sulle proporzioni gargantuesche dell’eroe di San Patrignano, i media promuovessero questa sua immagine di bonario menatore, una sorta di surreale Piedone del Sole Piatti. Così, mentre l’occhio del testimone diretto veniva presumibilmente chiuso da un doppio manrovescio, l’altro, quello dello spettatore processuale/televisivo, lo chiudeva di sua spontanea volontà. Come a dire: il fine giustifica i mezzi (d’informazione).
Come una sorta di effetto collaterale, l’accondiscendenza quasi plebiscitaria dell’opinione pubblica degli Ottanta verso il patriarcale «metodo Muccioli» (sintetizzabile nell’aforisma «Aiutiamoli con le buone, e se serve, con le cattive») richiama inevitabilmente quella esercitata nei confronti delle misure «trattenitive» dell’attuale emergenza pandemica. Uno sdoganamento ad agire by all means necessary che, oggi come allora, divide et impera: da un lato legittimando il populismo del buon senso e dei problem solver contro «lo stato assente» (frase che ritorna in tutta la serie); dall’altro invocando lo «stato di necessità», e quindi il bastone, per arginare l’irresponsabile condotta dei cittadini «in grado di intendere, ma non di volere» (come la definizione giuridica che inquadrò gli ospiti della tenuta di San Patrignano e assolse Muccioli dall’accusa di sequestro di persona). Legge del male minore, ideologia della penitenza e della confessione pubblica, relazione fra dispositivi disciplinari e disposizioni biologiche: sono tutti temi ancora attualissimi ma scarsamente dibattuti e che SanPa, fra gli altri, ha il merito di aver riattivato attraverso uno sguardo futuristico sul passato.
Senza futuro… non c’è memoria
Chi non ha futuro, non ha memoria. È la seconda legge del Memory secondo Wu Ming: «è l’ignoto a indicarci cosa dobbiamo ricordare e non il già visto a guidarci verso ciò che ci sfugge. Detto in altre parole, nel gioco della memoria devi scrutare il futuro per interrogare il passato, si punta sull’avvenire per capire l’avvenuto». SanPa sembra incarnare questo aforisma e raccontare una vicenda rimossa e vile nell’epoca del boom pandemico e della post-ideologia, delle fake news e del binge watching. Nel suo ultimo libro David Bolter parla di «plenitudine digitale», una condizione mediale di perpetua tensione fra catarsi e flusso, originalità e remix, storia e proceduralità, dove forme di cultura e socialità di massa sono largamente configurate attorno a «comunità di gusto» autonome e prive di centro. Attraverso un certosino e ponderato squadernamento di fonti, ipotesi, testimonianze e ricostruzioni a posteriori, un prodotto come SanPa ci aiuta a orientarci in questa plenitudine, sgonfiandone i presunti neutralismi politici e riattivando l’approccio critico. Il fatto che Letizia Moratti, finanziatrice d’eccezione di San Patrignano, ex-presidente Rai nel periodo del declino di Muccioli e infausto ministro dell’istruzione 2001-2006 sotto il governo Berlusconi, abbia negato la sua disponibilità a essere intervistata per SanPa, la dice lunga sugli effetti caustici che tali inchieste possono procurare sull’immagine pubblica di uomini e donne di potere ancora in campo.
Infatti, per chi ha vissuto anche solo parzialmente quegli anni, o ne ha studiato versioni altre, il flusso di immagini della serie è continuamente punzonato da buchi neri, slanci verso il futuro, rispecchiamenti, transfert e punti interrogativi. La storia del «santone» Muccioli sfarina insieme al suo protagonista in una storia sulle storie.
Aleggia, dopo che chiudi SanPa e apri il primo canale di news, il puzzo di una speculazione mediale ancora imperante e zuccherina, interessata a «infornare» dati piuttosto che informare sui fatti, in una logica da Blob che, dal marzo scorso, sciorina caramelloso senza né capo né coda. Se per Jenkins, Ford e Green in Spreadable Media, le narrazioni sono ormai «spalmate» su diversi media, i fan degli anime come Neon Genesis Evangelion sanno che la narrazione stessa è «spalmabile», cioè indefinitamente soggetta a molteplici versioni di una stessa vicenda che non giunge mai a un revisore finale e per questo è in grado di dettare i tempi di montaggio dell’agenda politica (e fandom). David Bolter non a caso parla di logica del flusso: flusso mediatico ma anche stato di flusso mentale che, come nei videogiochi, fa leva sulla possibilità di vivere e rivivere vite e procedure, automatizzare i neuroni per ottimizzare il profitto. Dalle otto settimane e mezzo di #iorestoacasa, è ormai sotto la luce del sole che la nostra agenda politica e mentale sia osteggiata da un siffatto flusso fatto di bollettini di guerra, caccia alle streghe e tiri al piccione, ricatti morali e fastforward sui futuri Dpcm (una cascata omologante di informazioni a discapito della qualità e della differenziazione informativa che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità è una delle cause della cosiddetta «fatica da pandemia»). L’illogica ostinazione con cui i media mainstream continuano a sciorinare i numeri dei contagi giornalieri quando i tempi dell’epidemia meriterebbero di fotografare l’analisi sull’intera settimana, è figlia di un trend innescato e collaudato con eventi a lunga scadenza come le vicende giudiziarie di Muccioli (che dal 1980 si diramano oltre un decennio) e, come già detto, possono essere congelate e decongelate a piacimento fino a esaurimento scorte mediali.
Come SanPa, tentativi di contrasto a queste logiche del flusso e del refresh, si sviluppano su piattaforme colluse e promotrici di queste stesse logiche. Netflix, come ho ricordato prendendo in esame la serie Cobra Kai, è da anni impegnata in un’opera di nostalgia marketing incentrata sugli anni Ottanta ma permette, come nell’epoca d’oro del melodramma e del noir hollywoodiano, di inserire e diffondere archetipi apparentemente contrari alle sue tecniche di mercato. D’altronde come fa SanPa, anche i lavori indiscutibilmente setosi e mainstream curati da Paolo Sorrentino (Il Divo, Loro, The Young Pope e il prossimo È stata la mano di dio dedicato a Maradona) riescono a riportare a galla le midolla di un potere posticcio ma non per questo dimenticabile, e con loro i miasmi di un’epoca dove modi tecnologicamente avanzati di percepire e raccontare la realtà sono stati rapidamente ingollati nell’ecosistema mediale e forse, proprio per questo, non ancora integrati.
*Nexus (Giuseppe Gatti) è regista, performer e ricercatore. Ballerino di breaking, ha fondato e dirige la compagnia Garofoli/Nexus. È docente di storia e filosofia hip-hop alla Urban Dance Academy e del laboratorio di arti digitali presso il Dams di Roma Tre. È autore di Stradario Hip hop (Alegre Quinto tipo).
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