Sommerse nel migliore dei mondi possibili
Dopo il disastro di Valencia, viene ancora una volta da chiedersi: è proprio vero che alla distruzione dell'ambiente e alla precarietà esistenziale non c'è alternativa?
Non ho guardato i dati sulla quantità di pioggia caduta negli ultimi giorni in Spagna né ricontrollato le statistiche sulla crescita degli eventi climatici estremi negli ultimi anni. Non ho nemmeno fatto il conto dei territori alluvionati nelle ultime settimane in Italia. Ho letto che si contano più di 200 vittime dell’alluvione a Valencia e che i dispersi sono ancora migliaia, ma non ho intenzione di verificare il numero di vittime ora per ora, perché semplicemente non c’è un numero che possa considerarsi accettabile e uno che non lo è: non una sola persona dovrebbe morire così.
Non l’ho fatto perché credo che oggi non siano i dati a mancarci, anche se qualcuno ha il coraggio di parlare di «grande bugia verde» e di allarmismo climatico. Probabilmente non ritengo nemmeno necessario tradurre con dati e numeri qualcosa che è sotto i nostri occhi, nell’esperienza di sempre più persone, e che dovremmo imparare a sentire e riconoscere per come ci si presenta nel quotidiano.
La scienza climatica è fondamentale, ma – evidentemente – non saranno i dati sui millimetri di pioggia caduti in più o in meno rispetto alle stime a smuoverci. Lo possono essere invece le persone trascinate dalla corrente dell’acqua, le case sepolte dal fango, l’odore nauseante che risale dalle fogne, il rischio della contaminazione con acque reflue, letame, sostanze inquinanti. Lo possono essere la paura e la rabbia, ma anche la solidarietà e la forza dell’autorganizzazione. Sono queste che hanno la potenzialità di smuoverci, di darci la scossa, di rendere evidente cosa significa vivere nella crisi climatica e di rendere chiara la divisione tra chi con le proprie scelte ci condanna a morte e chi si rimbocca le maniche per spalare il fango.
E forse non mi preme parlare di questo disastro attraverso i numeri, perché mi sembra ancora più urgente parlare di come questo disastro ci venga proposto come il migliore dei mondi possibili.
È nel «migliore dei mondi possibili» – quello tardocapitalista che si ammanta di produrre ricchezza e benessere – che a Bologna, per pochi euro, i riders delle grandi piattaforme del delivery hanno consegnato pizze e sushi tra fiumi di acqua e fango. Che a Valencia in migliaia sono stati obbligati a spostarsi per lavoro nonostante l’allarme meteo che incombeva su di loro. In questi eventi climatici estremi sono sempre lavoratori e lavoratrici a essere esposti ai rischi, mentre amministratori delegati delle grandi aziende, investitori finanziari, grandi proprietari si arricchiscono nella sicurezza e nel comfort delle loro case.
È sempre nel migliore dei mondi possibili che qualcuno trova normale ordinare del cibo da farsi portare a casa durante un’alluvione. D’altronde, cosa potremmo aspettarci da una società in cui la cultura egemonica del capitale ha prodotto una profonda alienazione tra noi e il lavoro, portandoci a rimuovere il processo e la persona che c’è dietro ogni bene e servizio e ad astrarre il prodotto (in questo caso il servizio di consegna di cibo) dal suo processo produttivo (chi lo sta producendo, chi lo sta consegnando, a che condizioni)?
Però, se è vero che veniamo ciclicamente sepolte e sepolti dal fango, è anche vero che il «migliore dei mondi possibili» ha per noi la soluzione per assicurare la ripartenza, il «ritorno alla normalità». Investimenti privati per rilanciare occupazione e lavoro vengono proposte come ricette in grado di condurci verso la salvezza. Potremmo discutere della validità o meno di questa ricetta, se non fosse che vista dai cancelli della multinazionale ex-Farmografica di Cervia (che ha chiuso i battenti e lasciato a casa 92 lavoratori all’indomani dell’alluvione di maggio 2023 in Emilia Romagna), o dai cancelli dell’ex-Gkn di Campi Bisenzio (chiusa per «transizione ecologica» e abbandonata alla speculazione edilizia ma divenuta grazie agli operai del Collettivo di Fabbrica un fondamentale centro di raccolta e coordinamento a seguito dell’alluvione di Campi Bisenzio dell’ottobre 2023) questa ricetta sembri solo fumo negli occhi.
Il capitalismo ci ha portato sin qui. Ha soffocato la terra, l’ha inquinata, l’ha bruciata. La CO₂ emessa negli ultimi 150 anni supera i livelli registrati nel corso della storia da quando si hanno rilevamenti, e negli ultimi 30 anni la crescita è stata ancora più esponenziale.
Poi, il migliore dei mondi possibili ha diviso tra umani di serie A e umani di serie B, decretando che alcuni hanno il diritto di disporre degli strumenti necessari per salvarsi e che altri sono invece destinati a soccombere.
Infine, l’ala «progressista» del capitale ha cercato di lucrare sulla devastazione ambientale, ovvero ha riconosciuto il danno inflitto alla natura ma autoeleggendosi come unica in grado di risolvere il problema tramite il mercato. L’ala «reazionaria» del capitale ha detto che non c’è nessun problema, è solo allarmismo e che tutto può proseguire come sempre, piuttosto: «Attenti ai comunisti che si inventano il cambiamento climatico»!
In tutto ciò la cosa più disarmante – il vero asso nella manica di questo sistema – è che i capitalisti e i suoi difensori nel mondo politico e intellettuale ci sono venuti a dire che questo è il migliore dei mondi, e che in ogni caso, anche qualora non fosse il migliore, di certo è l’unico possibile. Che alle nostre case sepolte dal fango non c’è alternativa, se non correre ad assicurare i nostri beni presso grandi agenzie assicurative (spoiler: già intere aree in Europa sono state dichiarate non assicurabili e, anche qualora lo fossero, in caso di eventi climatici estremi di grande entità queste agenzie dichiarano fallimento, come ha ricostruito Razmig Keucheyan ne La natura è un campo di battaglia). Che al ciclo intermittente di siccità, incendi, violenti grandinate, distruzione dei raccolti, perdita di biodiversità, alluvioni, uragani, tempeste, non c’è alternativa. Che alla precarietà esistenziale che riguarda sempre più aspetti del nostro vivere quotidiano non c’è alternativa.
Eppure, ogni volta, ci rialziamo da sole. O meglio: ci rialziamo senza di loro, ma insieme, come collettività senz’altro sfilacciata e informe ma capace di diventare comunità solidale proprio laddove la ratio individualista del capitalismo ci spingerebbe a pensare solo a noi stesse, a portare in salvo la nostra pelle voltando le spalle ad altre e altri. Davvero strano per un’umanità che viene sistematicamente descritta come naturalmente incline alla competizione, dando enorme risalto alle notizie sulle razzie fatte nelle case alluvionate per non parlare delle responsabilità strutturali.
Ma non solo ci scopriamo comunità. Ci scopriamo anche più capaci di rispondere ai nostri bisogni e alle nostre urgenze rispetto alla megamacchina dello stato. Di spalare più fango costruendo catene umane di solidali che con le idropulitrici della regione che non arrivano mai, come è stato dimostrato l’autunno scorso a Campi Bisenzio.
Capaci di proteggere dalla contaminazione il nostro territorio più delle grandi aziende che si nascondono dietro un velo di omertà, come avvenuto nell’alluvione del 2017 a Livorno quando furono le Brigate di Solidarietà Attiva a individuare le fuoriuscite di acque contaminate dal petrolchimico dell’Eni e premurarsi del loro contenimento.
Capaci di prevenire nuove alluvioni più delle istituzioni preposte a farlo, come hanno dimostrato gli abitanti di Nuvoleto, piccolo comune dell’Emilia-Romagna alluvionato nel 2023 e rimasto isolato e abbandonato dalla politica istituzionale, messo in sicurezza grazie alla costruzione collettiva di canali di scolo e opere di adattamento che hanno risparmiato alla comunità una nuova tragedia durante le ultime piogge.
Da qualunque parte ci giriamo, troviamo solo macerie, quelle che ci sta lasciando il migliore dei mondi possibili. Ma anche collettività che sgomitano per uscire da queste macerie e dare vita a nuovi mondi, con piccole e grandi azioni, lotte ambiziose, proposte concrete.
Di fronte a tutto questo, viene da chiedersi perché siamo state per tutti questi anni sulla difensiva a dire che anche noi avevamo qualche valida idea da proporre, mentre loro distruggevano tutto e si ammantavano di essere il migliore dei mondi possibili. Come abbiamo permesso all’ideologia del «there is no alternative» di colonizzare persino il nostro immaginario? Come abbiamo permesso al peggiore dei mondi di farsi vanto di essere l’unica alternativa possibile?
La loro maschera è definitivamente caduta, e probabilmente la posizione di complicità assunta dal mondo capitalista occidentale sul genocidio in Palestina rappresenta l’epilogo finale.
E noi siamo sott’acqua, sommerse, tra il fango e il letame. Ma lo sappiamo che è da lì che nascono i fiori.
A noi sta la sfida di dare il colpo di grazia a questo sistema fatiscente e far fiorire un mondo nuovo, con la consapevolezza e il coraggio di tornare a immaginare.
*Paola Imperatore è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Pisa.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.