Spagna, il prezzo di un accordo
Lo stato spagnolo ha una nuova legge sul lavoro con indubbi avanzamenti sul piano dei diritti ma con molte contraddizioni. E rischia di separare le strategie di Pablo Iglesias da quelle della Ministra del lavoro di Unidas Podemos Yolanda Dìaz
La Spagna ha una nuova riforma del lavoro. Al termine di nove mesi di negoziato con i rappresentanti dei sindacati Comisiones Obreras e Ugt e quelli degli imprenditori, il Governo è riuscito a far convalidare dal Congresso il decreto legge emanato a fine dicembre. Il risultato finale è senza dubbio un successo per la Ministra del Lavoro e vice-Presidentessa del Governo, Yolanda Díaz, appartenente all’area sinistra della coalizione, Unidas Podemos (Up), che ha condotto i negoziati e ha creduto come nessuno nel raggiungimento dell’accordo (il primo di questo genere dal 1980).
Eppure, dietro il fatto principale – il conseguimento di una riforma che cambia grandi aspetti della legislazione lavorativa – si può facilmente scorgere il prezzo di questo successo. La norma è infatti passata per un solo voto – 175 a 174 – con una maggioranza parlamentare diversa da quella che ha sostenuto fino a ora il Governo (e di cui fanno parte i nazionalisti baschi e catalani) e con il sostegno di diversi partiti liberali come Ciutadanos e PdCat. Elementi di giallo e di comicità si sono aggiunti negli ultimi attimi della votazione: due deputati del partito di destra Upn, che inizialmente avevano annunciato il voto a favore, hanno votato in maniera opposta (provocando accuse di corruzione dalle fila governative); la Presidentessa del Congresso ha in un primo momento annunciato per errore la bocciatura del decreto generando attimi di sconcerto tra i banchi del Governo; e soprattutto, il decreto è passato solamente per un clamoroso errore di un deputato del Partito Popolare (Pp) che ha votato a favore. Insomma, i calcoli del Governo erano sbagliati e la destra è stata a un passo da far saltare per aria la sua più ambiziosa riforma. La reforma laboral è salva per un soffio, solo per un incredibile colpo di fortuna. E se oggi la Ministra esulta sa, come ha ammesso poco dopo il passaggio parlamentare, che la bocciatura del suo progetto l’avrebbe spinta verso le dimissioni.
Abroga o non abroga?
Yolanda Díaz è un’avvocatessa giuslavorista e militante del Partito Comunista Spagnolo (Pce). È figlia di sindacalisti e appartenente a una cultura politica che crede profondamente nella concertazione. Questa sua abilità di arrivare ad accordi è emersa con evidenza subito dopo essere giunta al Ministero: sono stati ben dodici quelli che è riuscita a far siglare dalle parti sociali prima della reforma laboral (dall’innalzamento del salario minimo alla cassa integrazione, dal legge sul telelavoro alla ley rider). È con questi precedenti che ha avviato a marzo il negoziato per una nuova riforma del lavoro, con l’obiettivo di abrogare, come ripetutamente ha sostenuto nel tempo, la legge approvata dal Pp nel 2012 (e senza nessun tavolo con le parti sociali). Una legge, questa, duramente antioperaia in tempi in cui il dogma dell’austerità era la religione della Commissione Europea, che rendeva più economico il licenziamento, limitava il ruolo delle istituzioni pubbliche nei licenziamenti collettivi, rendeva prevalente il contratto d’azienda su quello collettivo e annullava l’effettività dei contratti collettivi dopo la loro scadenza. Up (ma anche il Psoe) hanno ripetutamente affermato che l’abrogazione di questa norma sarebbe stata un pilastro dell’azione governativa e – dopo un anno e mezzo durante il quale l’esecutivo monocolore Psoe non aveva messo mano a questa legislazione – il tema è diventato oggetto del negoziato tra i due partiti per la nascita del primo Governo di coalizione dagli anni Trenta. Il risultato è stato un accordo che si è concentrato soprattutto sulla contrattazione collettiva e sulla lotta alla precarietà ma che ha escluso i meccanismi di licenziamento dal programma di riforma. E con questo programma Díaz ha avviato e concluso il negoziato con le parti sociali. I risultati sono oggetto di dibattito.
Con la riforma di Díaz i contratti nazionali tornano a prevalere su quelli d’azienda, non decadono i contratti scaduti, le imprese in subappalto dovranno applicare il contratto collettivo del settore corrispondente, si riducono drasticamente i contratti a tempo e si facilita il passaggio al posto a tempo indeterminato, si rafforza il contratto di tipo fisso-discontinuo per diminuire la precarietà in settori stagionali, si prevedono sanzioni fino a 10mila euro per lavoratore (e non più per infrazione) e si rafforza la cassa integrazione, un meccanismo che ha salvato migliaia di posti di lavoro durante la crisi del coronavirus.
A fianco a queste misure positive per i lavoratori, a far rumore non sono tanto norme di senso opposto, ma le mancanze: licenziare resta, infatti, conveniente come fissato dalla riforma di Mariano Rajoy del 2012, l’uscita delle imprese in crisi dai contratti collettivi e l’assenza di un permesso amministrativo per i licenziamenti collettivi sono temi che non sono stati modificati. Queste mancanze (in parte già preannunciate dall’accordo di Governo) hanno provocato un’ondata di critiche verso l’esecutivo da parte dei sindacati più combattivi, accusato di non rispettare le promesse elettorali di abrogazione completa. La scelta dell’esecutivo, poi, di portare l’accordo firmato dalle parti sociali al Congresso senza accettare emendamenti ha fatto deragliare i rapporti con i partiti che dal 2019 sostengono la maggioranza governativa, ovvero le forze del nazionalismo catalano e basco Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), Eh-Bildu e il Partito Nazionalista Basco (Pnv).
Il prezzo di un accordo
Per Yolanda Díaz era fondamentale l’accordo con tutte le parti sociali. Come detto, si tratta di un’erede della cultura politica comunista della concertazione ma dietro di ciò c’è molto altro. In primo luogo vi è il Psoe, che soprattutto negli ultimi mesi di negoziato – preoccupato per il protagonismo e la popolarità della Ministra – ha provato a commissariare la rappresentante di Up per mano della Ministra dell’Economia, Nadia Calviño, che difficilmente avrebbe accettato un accordo coi soli sindacati. E soprattutto c’è Bruxelles. La Commissione europea, compiendo una piroetta rispetto a quanto sostenuto dieci anni fa, ha inserito la riforma del lavoro (soprattutto per quanto concerne la lotta alla precarietà) tra quelle necessarie allo sblocco dei fondi (10.000 milioni di euro) ma lasciando capire che sarebbe stato fondamentale un accordo con tutte le categorie. Applaudita da Bruxelles e concordata con gli impresari, la reforma laboral ha spaccato la destra. Il Pp ha da tempo visto di mal occhio l’atteggiamento concertativo delle associazioni imprenditoriali e continua a chiedere il blocco dei fondi comunitari per fantomatiche irregolarità. In questo contesto ha provato a farsi spazio Ciudadanos, rivendicando la propria vicinanza con gli imprenditori e minimizzando gli effetti della nuova normativa, promettendo un voto a favore se fosse mancato quello di Erc e Eh-Bildu. Ma la divisione della destra – ovvero, il fatto che una parte di essa abbia dovuto negoziare e accettare dei cambiamenti – è la causa della rottura a sinistra.
Già prima della firma dell’accordo, deputati di diversi partiti avevano denunciato la scarsa partecipazione dei parlamentari nel processo. Successivamente a esso, poi, sono emerse reazioni negative di alcuni partiti. Le ragioni sono varie. La prima, come detto, è il fatto che la nuova legge non elimina tutta la precedente di stampo neoliberale, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di licenziamento – una mancanza apparentemente non compensata dagli altri miglioramenti. In secondo luogo, i partiti baschi (Pnv e Eh-Bildu) hanno fatto presente che la predominanza dei contratti nazionali avrebbe indebolito il ruolo dei contratti stipulati a livello regionale. In terzo luogo, il No alla riforma è stato un No a Yolanda Díaz, dirigente politica tra le più stimate a livello nazionale. I sondaggi certificano da tempo il suo elevato gradimento nell’elettorato spagnolo e da mesi si paventa il lancio di una propria piattaforma politica che in qualche modo vorrebbe andare oltre Unidas Podemos (generando tensioni anche dentro la coalizione viola).
Forse timoroso di un successo della Ministra, il portavoce di Erc, Rafael Rufián, ha affermato che non avrebbe votato a favore di «progetti personali» e nelle ore successive all’approvazione della norma ha fatto uso di una delle scelte retoriche tipiche della politica spagnola: la «fotografia del voto». Non è bello, ha detto, vedere Ciudadanos e gli imprenditori a favore della norma (ovviando la spaccatura della destra e il fatto che la fotografia del No non è certamente migliore di quella di chi ha votato a favore). E questo riferimento ai compagni di viaggio è stato portato avanti da forze che di compromessi ne hanno fatti a volontà: Erc in Catalogna governa dal 2015 con il nazionalismo conservatore, la Cup ha permesso nella stessa Comunità Autonoma la nascita di governi guidati da dirigenti di centrodestra, Eh-Bildu ha votato nel Paese Basco la legge di bilancio con il Pnv, tutti compromessi fatti in base alle priorità di ciascun partito.
Culture politiche contrapposte
Ma c’è qualcosa di più profondo nel No alla reforma laboral del Governo Psoe-Up, qualcosa che ha a che fare con diverse concezioni della finalità della battaglia politica. Yolanda Díaz non si stanca di ripetere che per lei la finalità della sua azione è migliorare la vita delle persone. Chi ha votato No da sinistra non nega i passi in avanti della riforma ma crede che in qualche modo un processo concertativo con gli imprenditori sia inaccettabile, che inficia un decennio di mobilitazioni, che causa arrendevolezza nella classe lavoratrice in vista di un cambiamento radicale. Mentre i sindacati come Ccoo e Ugt ritengono che il rafforzamento dei diritti collettivi e sindacali permetterà ai lavoratori di ottenere di più nel futuro, quelli alternativi affermano che questo accordo rende più difficile successivi avanzamenti, che la concertazione è sbagliata, che chi ha ottenuto così poco oggi non potrà chiedere di più un domani e che, infine, bisogna dire No a un’abrogazione parziale della riforma del Pp per mobilitarsi affinché, ça vans dire, venga in futuro abrogata del tutto.
Tra la cultura della concertazione di stile eurocomunista di Yolanda Díaz e quella intransigente che è emersa nel Congresso, vi sono ponti fragili. In questo senso ciò che è importante per Up – il riferimento costante ai rapporti di forza nella coalizione (35 deputati contro 120 del Psoe), alla debolezza della maggioranza parlamentare e alla conseguente necessità di costruire alleanze per miglioramenti graduali, agli effetti disastrosi che avrebbe avuto la bocciatura del decreto con le dimissioni di Yolanda Díaz e l’annullamento di misure che stanno già comportando aumenti considerevoli di stipendio – non risulta prioritario nel discorso politico di crede che si possa bocciare una riforma che genera avanzamenti indiscutibili in nome di un miglioramento molto più grande e radicale. Neanche lo spauracchio del Pp e Vox – perennemente alle porte del Governo – genera una convergenza verso le proposte governative, soprattutto per chi dai territori con spinte secessioniste (Catalogna e Paesi Baschi su tutti) non vede differenze sostanziali tra il Psoe e il Pp e crede che nessun cambiamento sostanziale possa passare nella cornice dello Stato spagnolo.
Per Yolanda Díaz ora si pone il problema di ricostruire i ponti con questo mondo, ovvero con il cosiddetto «blocco dell’investitura». Almeno questo quanto ritiene il suo predecessore al Governo, Pablo Iglesias.
Le tensioni in Unidas Podemos
L’ex-segretario generale di Podemos (dimessosi da tutti gli incarichi nel maggio scorso) è stato il principale fautore di una maggioranza composta, oltre che dal Psoe e da Up (al Governo), dai partiti nazionalisti catalani e baschi come Erc e Hb-Bildu. Si trattava di una scelta strategica, ovvero quella di rendere partecipi delle principali scelte di Governo due partiti storicamente esclusi da esse in modo da creare una pressione per spostare a sinistra l’agenda di Governo. Il Psoe ha dovuto accettare questo schema in ripetute occasioni ma non ha mai smesso di guardare verso destra. In questo senso il voto per la riforma del lavoro era per i socialisti l’occasione per testare l’esistenza di una maggioranza più centrista in grado di prescindere dai nazionalisti catalani e baschi.
Il rocambolesco voto finale ha evidenziato, secondo Iglesias (ora presentatore del podcast La Base) il fallimento di questa ipotesi e imporrebbe l’obbligo di riavvicinarsi al «blocco dell’investitura». Non a caso le sue critiche verso Erc e Eh-Bildu per il loro voto negativo (e per poco decisivo) sono state minime. Ma c’è anche dell’altro. Per una persona abituata a una comunicazione costante sui temi principali, il suo sostegno non eccessivo verso la riforma è stato visto come una quasi bocciatura. Podemos non ha condiviso tutta la strategia di Díaz, né l’impossibilità di modificare il testo accordato tra le parti né l’inevitabilità di un accordo con gli imprenditori. Nel frattempo, mentre si aspetta da tempo il lancio del suo movimento personale, Yolanda Díaz continua il suo lavoro da Ministra: solo pochi giorni dopo l’approvazione della riforma ha accordato l’innalzamento a 1.000 euro del salario minimo, questa volta coi soli sindacati. Come dire che la concertazione è un metodo, ma solo con chi ci sta.
*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.