Teniamo d’occhio il Senato Usa
Il parziale sostegno alle mozioni di Bernie Sanders contro la vendita di armi a Israele è stato un segnale importante di opposizione. La Camera alta degli Stati uniti sarà decisiva per controllare le tendenze autoritarie di Donald Trump
Nel mio ultimo viaggio a Washington lo scorso novembre, ho vissuto l’inedita esperienza di assistere per due giorni consecutivi a sessioni di voto in Senato. Nel secondo giorno la lunghissima sessione di voto interamente dedicata alle tre mozioni di Bernie Sanders per impedire la vendita di ulteriori 20 miliardi di dollari di armi a Israele non ha lasciato spazio ad alcun tipo di piacevole distrazione. Considerata la particolare rilevanza del Senato nelle decisioni legislative, anche a causa del filibuster che spesso richiede 60 voti invece di una maggioranza semplice, vedere di persona tutti i membri che compongono la Camera alta del Congresso ha reso molto concreta la percezione di come il destino di milioni di persone negli Stati uniti e nel mondo sia nelle mani di cento di persone, prevalentemente uomini, bianchi e anziani. Nelle oltre sette ore trascorse nella galleria del Senato, altrettanto penoso è stato guardare Bernie Sanders camminare nervosamente da solo avanti e indietro con le mani incrociate dietro la schiena, o sedere per conto suo nel suo banco senatoriale.
Della particolare importanza dell’iniziativa di Sanders, delle riflessioni sull’istituzione del Senato e di altri temi, tra cui le previsioni per il possibile autoritarismo della prossima amministrazione Trump, abbiamo parlato con John Nichols, autorevole giornalista e scrittore di The Nation, di cui nel 2020 avevamo recensito il libro The Fight for the Soul of the Democratic Party. Grande amico di Bernie Sanders, Nichols è anche editore, oltre che collaboratore nella stesura, dell’ultimo libro di Sanders It’s Ok to Be Angry with Capitalism.
Ho recentemente avuto modo di assistere a due sessioni di voto del Senato e, conoscendo solo una cinquantina di senatori tra uomini e donne, Democratici e Repubblicani, sono rimasta piuttosto colpita nel vedere come la maggioranza dell’organo più potente degli Stati uniti, e per certi versi del mondo occidentale, sia composta prevalentemente da uomini, bianchi e molto in là con l’età. Come può essere rappresentativo della realtà?
Non lo è. Il nostro Senato è un caos ed è una costruzione orribile perché con due senatori per stato, uno stato con una popolazione inferiore al milione di abitanti come il Wyoming ha lo stesso potere di uno con 30 o 40 milioni di abitanti come il Texas o la California. Quindi c’è uno squilibrio che dà immenso potere agli stati piccoli con pochi abitanti e sotto-rappresenta la maggioranza della popolazione americana. Inoltre, come hai detto, tende a essere molto vecchio, molto bianco e molto maschile. È vero che c’è qualche cambiamento in corso, per esempio nella prossima legislatura avremo per la prima volta due senatrici afroamericane, le democratiche Angela Alsbrooks del Maryland e Lisa Blunt Rochester del Delaware. Ma certo non basta per cambiare l’identità del Senato. È un’entità molto problematica e lo è stata fin dalla fondazione degli Stati uniti, per cui sarebbe una gran cosa se potessimo riformarlo, ma purtroppo almeno nel breve periodo non ci sono speranze che ciò possa avvenire.
Il 20 novembre ho assistito alla bocciatura delle tre risoluzioni di Sanders relative alla vendita di armi a Israele, mostrando nettamente la linea di coloro che si pongono da una parte o dall’altra della storia di un genocidio. Puoi darci un quadro di questo evento che hai definito «storico»?
Il tentativo del senatore Bernie Sanders di forzare il voto [una particolare procedura per portare in aula mozioni non messe in calendario, Ndr] sulla vendita a Israele di un certo tipo di armi è enormemente significativo, sia perché per molti decenni un dibattito serio sul nostro supporto alle politiche di Israele è stato quasi inesistente nel Congresso americano, in particolare in Senato, sia perché stabilisce un importante precedente. Dopo l’inizio della guerra a Gaza, Sanders ha dichiarato molto presto che si sarebbe opposto alla vendita di armi, cosa che ha fatto nel tempo votando contro diverse proposte. Ma in questo caso la differenza è che il senatore ha identificato una serie specifica di armi estremamente offensive installate su particolari attrezzature quali missili, aerei, carri armati ecc., sollevando tre diverse mozioni sotto forma di Joint Resolution of Disapproval, che è l’unico strumento a disposizione di un senatore per cercare di bloccare un provvedimento che gode dell’approvazione dell’amministrazione e ha già superato il vaglio del Dipartimento di Stato. Se il trio di Jrd, che ha ricevuto l’endorsement di più di cento organizzazioni internazionali, fosse stato approvato sarebbe diventato impossibile per gli Stati uniti vendere quel tipo di armi che hanno causato migliaia di morti tra i civili, ma nonostante la bocciatura il tentativo di Bernie Sanders costituisce un fatto storico. È molto rilevante inoltre che 19 senatori abbiano votato a favore di almeno una delle tre mozioni [per le altre due i voti a favore sono stati 17 per una e 18 per l’altra, Ndr]. Certo siamo lontani dalla maggioranza e comprendo che le persone ragionevoli si sentano frustrate per il fatto che quasi tutti i senatori abbiano accettato la vendita di armi, tuttavia quei 19 voti suggeriscono che l’opposizione al supporto incondizionato per Israele è cresciuto e coinvolge non solo persone di sinistra come Sanders ma anche Democratici molto più centristi, come il senatore ebreo del New Hampshire Dick Durbin, uno dei Democratici più importanti del Senato, o Jeanne Shaheen del New Hampshire o Chris Van Hollen del Maryland, che ha un lunga storia di critica verso il ruolo statunitense nel mondo e che in questo caso si è fatto avanti come uno stretto alleato di Sanders, così come hanno fatto Jeff Merkley dell’Oregon e Peter Welch del Vermont che erano co-sponsor delle tre proposte.
Tra i «no» Democratici che davo per scontati c’era per esempio quello di Cory Booker, uno dei candidati presidenziali del 2020, e forse del 2028, che pur spacciandosi per progressista prende molti soldi dall’Aipac, la potente lobby israeliana, oltre che da big corporation come quella dei farmaci. .Mi ha stupito invece il voto a favore di Tim Kaine, che nel 2016 Hillary Clinton aveva scelto come vice-presidente.
Anche se riesce ad avere dei sostenitori progressisti, Cory Booker è un centrista sulle questioni fondamentali. Raramente ha votato in modo audace e coraggioso. Rispetto all’Aipac è più deferente e in rapporti più stretti di altri senatori, anche se in questo caso non si può ridurre tutto all’Aipac. È indubbio che l’influenza che l’Aipac ha in Congresso su Repubblicani e Democratici sia immensa, ma c’è anche altro. C’è una sorta di consenso riguardo alla politica estera che tiene banco in Senato da molto tempo e che coinvolge i senatori di tutti e due i partiti e Booker è uno di loro, uno di quelli che ubbidiscono al Dipartimento di Stato, diversamente da Bernie Sanders che invece ha criticato molto spesso la politica estera statunitense.
Quanto a Tim Kaine, è un caso molto interessante perché ha una storia personale che lo ha visto spesso coinvolto in questioni riguardanti i diritti umani. Durante gli anni di Reagan per esempio era molto attento a quello che avveniva in Centro America e si è esposto apertamente. E anche in seguito si è sempre interessato e preoccupato di istanze quali la violazione della legge internazionale sui diritti umani e del ruolo che gli Stati uniti giocano interferendo nelle azioni di altri governi non solo nei confronti delle proprie popolazioni ma delle popolazioni di altre parti del mondo. Quindi sebbene Tim Kaine sia un Democratico centrista non è così sorprendente che si sia schierato con Sanders.
Considerato il sostegno incondizionato dato sia a Israele – a dispetto di una critica puramente formale espressa solo a parole – sia all’Ucraina, che tipo di legacy lascerà Joe Biden?
Senza dubbio Joe Biden lascerà una legacy molto complessa sia in politica interna che estera. In politica estera è evidente che l’approccio di Biden è stato molto attivo nel mettere gli Stati uniti in situazioni di guerra e nel chiarire da che parte stessero gli attori da sostenere, il che ha creato controversie a livello interno e in qualche misura anche internazionale. Uno dei fattori che giocheranno in modo negativo sulla sua eredità politica è il comportamento nella guerra di Gaza, perché moltissimi americani avrebbero voluto una presa di posizione decisa contro Israele. Riguardo all’Ucraina il suo sostegno è stato appassionato, ma non è stato l’unico. Credo che come molti leader europei e mondiali il suo supporto all’Ucraina fosse animato da nobili intenzioni nel non volere l’annessione di un paese più piccolo da parte di uno più grande, oltre ovviamente alla preoccupazione per le ambizioni territoriali della Russia. Tuttavia è importante considerare non solo che il conflitto tra Russia e Ucraina non è stato risolto, ma anche che si tratta di una guerra terribile, soprattutto per l’Ucraina, che dura da molto tempo e soprattutto che c’è la possibilità reale che la politica di Trump verso l’Ucraina porti dei cambiamenti. In quel caso la legacy di Biden sarà ulteriormente compromessa poiché, anche se alcuni lo vedranno come la persona che ha cercato di salvare l’Ucraina dalla Russia, sarà visto soprattutto come un presidente che non è riuscito a riconoscere i problemi a lungo termine e che per questo motivo non ha cercato soluzioni diplomatiche, adottando iniziative che non hanno funzionato.
C’è la possibilità che Trump, che si è presentato come un candidato di pace, diventi un presidente di pace, magari anche solo in virtù della sua imprevedibilità?
Non credo sia ragionevole ipotizzare che Trump sia un candidato di pace, nonostante abbia propagandato quell’immagine di sé. La realtà è che quando Trump era presidente gli Stati uniti hanno continuato a restare in Afghanistan, hanno mantenuto tutte le loro basi in giro per il mondo, hanno lanciato attacchi di droni contro leader stranieri e capi militari e hanno anche avuto moltissime difficoltà e complicate interazioni militari con diversi paesi del mondo. È vero che Trump non ha cominciato nuove guerre importanti, ma ricordiamoci che anche per Jimmy Carter è andata così, e quindi se si guarda allo schema complessivo delle cose ci si accorge che ci sono dei momenti nella storia in cui un presidente è in grado di evitare le guerre e questa è una gran cosa. Tuttavia non credo che se dovesse arrivare il momento in cui ci fosse una forte pressione verso la guerra, Trump la eviterebbe. Ricordiamoci che Trump è a favore di forze armate imponenti, cosa che ha dimostrato da presidente riversando molto denaro nel Pentagono e le aspettative sono che continuerà a farlo. Ciò significa che il governo federale continuerà a finanziare enormemente gli appaltatori militari e che il Military Industrial Complex, dal quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia dopo la Seconda guerra mondiale, continuerà a essere una realtà negli Usa e di conseguenza una realtà per il mondo. Dubito quindi che Trump sarà un presidente di pace, anche se lo spero, così come spero che si cerchino delle strade diplomatiche e cooperative.
Cosa pensi invece rispetto a un potenziale fascismo trumpiano?
Certo è un motivo di preoccupazione, questa definizione suggerita da molte persone. Per molti versi Trump sta ancora definendo quale sarà la sua identità presidenziale mentre noi stiamo cominciando a percepirne un’idea. Indubbiamente il suo linguaggio durante la campagna ha suggerito una tendenza verso l’autoritarismo, verso un abuso del potere governativo in modi che minacciano la stampa libera e molti settori della vita della popolazione americana, quindi credo che delle preoccupazioni si debbano avere. Molti storici esperti del fascismo hanno suggerito che Trump mostra parecchi tratti di una persona con tendenze fasciste, che bisognerà tenere strettamente sotto osservazione con il passare del tempo. Nello stesso tempo gli Stati uniti hanno un sistema governativo particolare basato su pesi e contrappesi tra il ramo esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario e quindi non c’è dubbio che Trump dovrà affrontare reazioni negative. Già nel primo mese della sua amministrazione riusciremo a capire fino a che punto le istituzioni saranno in grado di contenere le sue tendenze autoritarie, ma per ora non è possibile dare una risposta. I prossimi mesi negli Stati unitia saranno assolutamente affascinanti perché, come molti paesi europei, anche noi dovremo combattere e soprattutto dovremo capire se riusciremo a mantenere le nostre istituzioni e il nostro approccio tradizionale al modo di governare a livello di politica interna, o se invece ci muoveremo verso qualcosa di molto più autoritario. Non intendo un classico stato fascista, ma qualcosa che rispecchi alcune delle cose che abbiamo visto in Ungheria con Viktor Orban, o che voi avete visto con Silvio Berlusconi e ora con Giorgia Meloni. Certo i segnali sono preoccupanti ma non essendo ancora entrati nella nuova amministrazione credo che per il momento non esista una risposta.
Ma i sistemi di pesi e contrappesi possono funzionare nonostante i Repubblicani abbiano la maggioranza in entrambi i rami del Congresso e una Corte Suprema di destra?
È vero che Trump ha la maggioranza in Senato e alla Camera e per come sono andate le elezioni è giusto concentrare l’attenzione non sui Democratici ma sui Repubblicani. Tuttavia abbiamo già avuto alcuni segnali di un’opposizione repubblicana, quindi la possibilità che Trump possa essere almeno in parte bloccato esiste. C’è un certo numero di Repubblicani ai quali Trump non piace, e vedremo se lo scontro sulle persone nominate da Trump per la futura amministrazione identificate come «scelte del capo», che vengano approvate o meno, evidenzierà se esiste un numero sufficiente di Repubblicani in grado di opporsi a Trump, di assicurarsi che non faccia solo quello che vuole, e che il sistema di pesi e contrappesi funzioni. Credo dunque che all’estero si dovrà prestare particolare attenzione a quel che succederà quando questi captain picks verranno sottoposti all’approvazione, perché già quella discussione definirà la futura relazione di Trump con il Congresso. Se il Congresso dovesse bloccare qualcuna delle scelte più controverse, in particolare quella del Segretario alla Difesa Pete Hegseth, allora avremmo una prova che esiste un sistema di bilanciamento maggiore di quanto molte persone abbiano pensato.
Puoi darci qualche nome di eventuali oppositori Repubblicani?
Quelli da tenere maggiormente d’occhio in Senato, dove la maggioranza repubblicana è di 53 a 47, sono Lisa Markovski dell’Alaska, Susan Collins del Maryland, Thom Tillis del North Carolina, che hanno già manifestato il loro disagio nel seguire Trump su tutte le istanze. E poi terrei particolarmente d’occhio Rand Paul del Kentucky, un Repubblicano molto libertario che credo si opporrebbe fermamente nel caso in cui Trump cercasse di limitare le libertà civili o di attaccare i diritti civili. Inoltre Rand Paul è anche contro la guerra e quindi su alcune questioni militaristiche credo che lo vedremo schierarsi contro gli altri Repubblicani, nonostante abbia votato in linea con la maggioranza sulla questione israeliano-palestinese.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders
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