Una controstoria di Bettino Craxi
Intorno all'ultimo leader del Psi c'è un processo di revisionismo storico. Non fu però un semplice corrotto, per questo nemmeno la narrazione giustizialista aiuta a comprenderne parabola. Fu il primo liberista a Palazzo Chigi
È il migliore di tutti, per disinteresse, intelligenza e generosità. Con lui gli italiani possono stare tranquilli.
Sandra Milo, 1987
L’Italia un paese che non conosce la storia, ma in cui non si dimentica niente.
Alessandro Barbero, 2019
La storia – si dice – la scrivono i vincitori, ma il problema è capire chi sono i vincitori.
Luciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, 2010
Succede che a giudicare la storia recente si facciano errori di prospettiva. Succede anche, però, che certi sbagli non siano abbagli, ma consapevoli tentativi di riscrittura.
Attorno alla figura di Bettino Craxi è in atto, in questo ventennale dalla morte, ma già senza eccessiva timidezza da qualche tempo, un processo di revisionismo storico. Intendiamoci: non che la vulgata inizialmente vincente – anch’essa in un certo qual modo dettata da interessi dominanti, quelli degli allora nuovi padroni dell’economia e della politica italiana, talvolta già sodali di Craxi al suo apogeo – di un Craxi meramente schiacciato nel ruolo di satrapo di Tangentopoli restituisse la verità, o quantomeno un’equilibrata e pluridimensionale ricostruzione del personaggio e della sua impronta sulla storia collettiva.
Tuttavia, è innegabile che, volente o nolente, il film Hammamet di Gianni Amelio, prima ancora della celebrazione del ventennale della scomparsa dell’uomo, abbia innescato un moto poco resistibile di rivisitazione positiva dell’operato del personaggio politico che ha dominato gli anni ottanta del secolo scorso. Dagli accenti agiografici dei residui della diaspora del Partito socialista italiano all’esaltazione acritica di personalità politiche e giornalistiche reazionarie (Alessandro Sallusti, Vittorio Feltri), conservatrici (Silvio Berlusconi) o liberiste (Matteo Renzi e alcuni esponenti del Partito democratico), sembra riaffermarsi nel dibattito pubblico un sentimento favorevole a Craxi e persino al craxismo.
Tutto ciò, al di là del valore e degli intenti del prodotto cinematografico che non si propone evidentemente lo scopo di una santificazione del personaggio, ma che lo inquadra in un suo periodo storico terminale, dopo la decadenza dal potere politico, mostrandone anche paranoie e debolezze, sia pur – questo va sottolineato – enfatizzandone un lato umano che sbilancia l’immagine autoritaria e persino arrogante che aveva universalmente comunicato nel periodo della sua massima fortuna.
È allora utile tentare di indagare, il più possibile impiegando gli strumenti della storiografia, cosa di vero c’è nelle molteplici affermazioni che si vanno facendo negli ultimi tempi sul ruolo di Craxi. Elogi che hanno inclinazioni diverse e che spaziano dalla rivalutazione dei presunti meriti dell’azione politica all’esaltazione dei modi della figura pubblica. Emergono lacune e omissioni, e più spesso distorsioni e ribaltamenti. Come quando, in risposta all’appiattimento sul suo essere vertice del sistema corruttivo del tramonto della cosiddetta Prima Repubblica, si replica con squillante vittimismo nel vederlo come esule perseguitato e unico capro espiatorio. Ma soprattutto, del fascino del personaggio, certamente ingombrante nel suo innegabile protagonismo, si fa un uso piegato al presente: paradossale è sentirlo ritrarre da più parti modernizzatore liberale e riformatore coraggioso che fu ostacolato da un’Italia stagnante e provinciale e, al contempo, sovranista ante litteram che fu sacrificato perché impegnato in una strenua battaglia contro il globalismo economico.
Sono delle vere fake news, diremmo oggi: sì, news, e non histories. Perché non appena si volesse grattare un po’ sulla superficie certe ricostruzioni giornalistiche fatte di impressioni simboliche e condite di fascinazioni crepuscolari oppure chiedere conto di giudizi politici sommari e sloganistici, emergerebbe quale revisione di una storia recente sia in atto.
Uscire dalla bidimensionalità del Craxi mero «ladro» è corretto ed è utile. Ma edificare mausolei a uso del presente è quanto di più dannoso.
Vorrei tentare schematicamente di rispondere ad alcuni luoghi comuni del recente dibattitto, o, sarebbe meglio dire, revival, concentrandomi di più sugli aspetti oggetto oggi di minor scontro ma in realtà più dirompenti del craxismo. In questo contributo mi dedicherò alle politiche economiche.
Il primo liberista a Palazzo Chigi
Ormai non passa giorno senza che vengano illustrate dalla stampa, specializzata e non, le performances del nostro mercato finanziario. (…) La modernizzazione del Paese è un processo in cammino, un processo che io giudico irreversibile.
Bettino Craxi, Discorso alla Borsa di Milano, 1985
Se oggi Craxi piace a molti è perché, consapevolmente o meno, siamo ideologicamente impregnati di liberismo economico. Tanto che persino i suoi più feroci inquisitori sul piano legalitario e morale (si pensi a Marco Travaglio) omettono quasi sempre quella che – insieme al progetto non riuscito del tutto ai tempi ma recuperato negli anni successivi da altri epigoni di una torsione leaderistica e presidenzialistica della politica italiana – fu la principale spinta innovatrice del craxismo: il primo organico attacco alle garanzie dei diritti sociali a vantaggio del mercato dei capitali.
1. Stravolgimento della progressività fiscale
Il governo del democristiano Rumor, nel 1974, aveva varato la prima radicale riforma del sistema fiscale italiano, inaugurando l’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), ispirandola al principio costituzionale della progressività fiscale: le tasse non possono essere proporzionali, cioè con un’aliquota unica per tutti (la cosiddetta flat tax, oggi bandiera del leader leghista Matteo Salvini), ma devono essere percentualmente superiori per i soggetti più ricchi e viceversa inferiori per i più deboli, in virtù del fatto che su questi ultimi il prelievo fiscale incide di più limitandone il reddito disponibile per i bisogni e i consumi primari.
Ebbene fu il primo socialista alla guida del governo a ridurre la progressività: se già l’esecutivo precedente, appoggiato dal suo Psi, aveva abbattuto il numero di aliquote da trentadue (con uno spettro che andava dalla più bassa del 10% alla più alta del 72%) a soltanto nove (comprimendole dal 18% al 65%, con evidenti vantaggio per i più ricchi e innalzamento delle tasse per i meno abbienti), sarà Craxi nel 1986 a modificare ancora i nove scaglioni dell’Irpef. Il segno complessivo dell’operazione fu un enorme sconto fiscale a tutti i redditi elevati, quelli a partire dai 60 milioni di lire, con tagli che arrivavano anche al 6/8% sull’aliquota più elevata.
2. Abbattimento della scala mobile
Parallelamente al favore ai ricchi sul piano fiscale, Craxi tagliò gli stipendi dei lavoratori. Dal 1975, sotto il sesto governo Moro, era stato esteso a tutti i dipendenti, a prescindere da categoria, qualifica, età e genere, il meccanismo automatico di indicizzazione dei salari all’inflazione.
I nemici della scala mobile – primo fra tutti l’economista Franco Modigliani – sostenevano che però l’aumento del costo del lavoro in presenza di un prodotto interno lordo che cresceva a ritmi inferiori si traduceva solo in un aumento della disponibilità monetaria che a sua volta causava una nuova crescita dei prezzi: una spirale inflazionistica. In verità, come ebbe a dimostrare l’economista Augusto Graziani, nessuna evidenza scientifica dimostrava questo circolo vizioso tra scala mobile e inflazione, poiché quest’ultima era frutto principalmente di uno shock esogeno (l’aumento del prezzo dell’energia, di cui l’Italia è importatrice, a partire dalla crisi petrolifera del 1973) e non quindi da un eccesso di domanda di beni di consumo da parte dei lavoratori. Agli industriali italiani, in ultima istanza, non interessava tanto combattere l’inflazione a due cifre quanto recuperare sul costo del lavoro, frenando l’adeguamento dei salari, i minori profitti che iniziavano a scontare a vantaggio di un nascente capitalismo dei gruppi finanziari, come osservò il giovane economista Roberto Convenevole nel 1977 nel suo saggio Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito.
Complice anche una debolezza del Partito Comunista Italiano, sia dal punto di vista tattico per via del compromesso storico con la Democrazia Cristiana, sia da quello teorico con l’austerità invocata da Enrico Berlinguer nel celebre discorso dell’Eur, l’offensiva confindustriale trovò spazio. La breccia più importante aperta dal padronato fu la marcia dei quarantamila impiegati e quadri della Fiat che nell’ottobre 1980 fece capitolare l’occupazione operaia degli stabilimenti torinesi sostenuta da una Pci tornato all’opposizione dopo la scomparsa di Aldo Moro, interlocutore di Berlinguer.
Craxi, che da tempo puntava a rompere il compromesso tra i due maggiori partiti italiani, si inserì con abilità in questo nuovo contesto di relazioni e si accreditò come interlocutore della Confindustria. Pochi mesi dopo essere giunto al governo, il 14 febbraio 1984 firmò un decreto che tagliava di tre punti percentuali la scala mobile, contro il quale il Pci promosse un referendum che nel giugno del 1985 vide la vittoria di Craxi con il 54,3% dei no all’abrogazione del decreto di San Valentino.
Spacciata come misura contro l’inflazione – che effettivamente negli anni successivi scese ma anche e soprattutto in ragione di fattori scollegati dal costo del lavoro, dato che già la discesa era iniziata negli anni precedenti (dal 21,2% del 1980 al 10,8% dell’anno in corso, il 1984) – in realtà ebbe come conseguenza sostanziale, tutta politica, l’isolamento della Cgil rispetto agli altri sindacati confederali Cisl e Uil, che sarebbe durato all’incirca un decennio, fino a quella fase della concertazione in cui fu il maggiore sindacato a scivolare su posizioni meno combattive. Ciò aprì una fase, che culminò con gli accordi del luglio 1992 sotto il governo del craxiano – perlomeno allora – Giuliano Amato, in cui il sindacato, che in precedenza era utile a conquistare a diritti aggiuntivi rispetto alla difesa dei salari, si sarebbe ridotto a contrattare tardivi aumenti degli stipendi in recupero dell’inflazione solo in sede di rinnovo dei contratti.
3. L’introduzione definitiva nel mercato finanziario dello Stato
Con la legge finanziaria per il 1985 si autorizza per la prima volta il Ministero del Tesoro a utilizzare strumenti derivati nella gestione del debito pubblico italiano, il quale aveva iniziato la sua esplosione in quegli anni, passando dal 58,5% del 1981 (oggi sarebbe un valore ammesso dai più rigidi obiettivi di bilancio europei) all’80,9% del 1985, e sarebbe ancora cresciuto fino all’89,1% di due anni dopo, all’abbandono di Palazzo Chigi da parte del leader socialista.
I derivati avevano in questa prima fase l’esclusivo fine di «assicurare» dai rischi di cambio i debiti in valuta estera che il Tesoro aveva iniziato a collocare sul mercato al fine di attrare anche investitori internazionali. Sulla carta, l’impiego di contratti derivati era volto a cercare di pagare nel prossimo futuro interessi inferiori a quelli dettati dal mercato, che in quel periodo erano in forte crescita (nel 1982 lo spread, cioè il differenziale tra gli interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi, raggiunse il record di 1175 punti base, circa tre volte tanto quello che spianò la strada verso il governo a Mario Monti nel 2011). Ma questi cross currency swap erano pur sempre una scommessa, fatta con i soldi pubblici, e lanciano un messaggio all’economia italiana: anche lo stato ha consegnato i propri bilanci alla speculazione finanziaria.
Insomma, un tentativo pericoloso e comunque non riuscito di mettere una toppa all’escalation del debito pubblico.
Debito che aveva iniziato il suo galoppo già negli anni settanta con la scarsa crescita del prelievo fiscale in rapporto alla spesa pubblica (un’immissione di liquidità tramite debito per sostenere i profitti delle imprese all’avvio della crisi economica globale e alla fine del ciclo fordista-keynesiano, secondo l’economista Graziani) e poi, ancor di più, proprio a partire dal divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, avvenuto nel 1981 grazie a un accordo tra il ministro Beniamino Andreatta e il governatore Carlo Azeglio Ciampi.
Fino ad allora – spiega Marco Bersani, presidente di Attac Italia – quando lo stato emetteva titoli per potersi finanziare, la Banca d’Italia forniva la garanzia di acquistare i titoli invenduti a tasso d’interesse prefissato. Questo permetteva allo stato di emettere i titoli a basso tasso d’interesse e di poterli vendere tutti, chiudendo la strada a ogni possibile speculazione finanziaria. Con il divorzio tutto cambia e, non esistendo più il paracadute della Banca d’Italia sull’invenduto, lo stato fu da quel momento costretto a emettere titoli, la cui vendita per essere portata a termine, doveva necessariamente riconoscere alti tassi d’interesse. È stato da quel momento che lo stato italiano ha iniziato a pagare interessi superiori – anche nettamente – al tasso d’inflazione e che il debito pubblico ha iniziato a gonfiarsi a dismisura.
Se è vero che il socialista Rino Formica fu uno dei più vigorosi nemici di questa separazione, tanto che dopo la cosiddetta «lite delle comari» con Andreatta nel 1982 cadde il secondo governo Spadolini, è pure vero che il successivo governo Fanfani V, sacrificate entrambe le comari e archiviata la querelle, fu sostenuto anche dal Psi di Craxi, che di lì a poco divenne nell’agosto del 1983 lui stesso presidente del consiglio.
La speculazione sul debito pubblico italiano volle dire, una volta ancora, un regalo ai ricchi e un danno ai lavoratori. Infatti, la profittabilità crescente degli investimenti in titoli di Stato, per via di interessi pagati sempre più alti, significò il trasferimento di una quota di ricchezza dal prelievo fiscale progressivo alla tassazione flat, molto bassa, applicata ai titoli.
4. L’esplosione del debito non per spesa pubblica ma per politiche monetarie restrittive
Craxi e i suoi governi vengono sovente accusati di essere tra i maggiori responsabili dell’aumento del debito pubblico italiano, che da quell’epoca esplose senza più tornare a livelli ritenuti sostenibilisecondo gli standard indicati dall’Unione europea, che a partire dagli anni novanta del secolo scorso vogliono un contenimento a massimo il 60% del rapporto con il Pil.
Se nei fatti è inconfutabile che proprio in quel decennio segnato dal craxismo il debito quasi raddoppiò, è pur vero che l’accusa di averlo fatto impennare per alimentare sprechi e clientelismo è storiograficamente scivolosa. Facendo leva sull’innegabile realtà di un sistema di corruttela generalizzato, economisti liberisti, politici di quasi tutto l’attuale arco costituzionale e opinionisti intellettualmente pigri sostengono la relazione diretta tra spesa pubblica primaria – quella che, per intenderci, serve, tra l’altro, anche a pagare stipendi, a garantire pensioni e a tenere in piedi servizi sociali, istruzione e sanità – e un immorale e improduttivo sperpero di denaro pubblico. Non è questa la sede per spiegare come tale identificazione sia perniciosa, volta a delegittimare e ad abbattere il ruolo pubblico in economia, lasciando spazio al profitto dei soli soggetti privati.
Ciò che è certo, stando ai dati, è che questo assunto ormai recepito nel senso comune si basa su un fondamento falso: il boom del debito pubblico, scrivono l’ex ragioniere generale dello stato Andrea Monorchio – insospettabile di keynesismo e allievo del governatore della Banca d’Italia e presidente di Confindustria Guido Carli – e Lorenzo G. Mottura,
è stato determinato per circa il 70% dai maggiori oneri per interessi, sui quali ha pesato sia l’enorme mole del debito pubblico sia, soprattutto a partire dal 1985, l’orientamento restrittivo della politica monetaria, necessario per il mantenimento del cambio della lira entro i margini di fluttuazione fissati dallo Sme. Il contributo della spesa corrente primaria, è risultato, quindi, piuttosto contenuto.
In particolare, allora, ad esplodere fu la spesa pubblica per interessi (dal 3,6% del Pil nel 1980 all’11,2% nel 1992) e non della spesa corrente primaria. Spesa per interessi lievitata proprio grazie a quel divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia di cui si è parlato.
Se quindi Craxi non fu esclusivamente un presidente del consiglio sprecone, fu però certamente il primo vero premier liberista, il quale, se praticò una politica monetaria di spesa con una mano, con l’altra operò tagli nell’emissione di liquidità (titoli di stato), rassegnandosi all’autonomizzazione della Banca d’Italia non più prestatore di ultima istanza e protettore dei titoli di stato e subordinandosi ai rigidi vincoli di cambio fissati dal Sistema monetario europeo, soprattutto dopo che i partner in quest’ultimo concessero la svalutazione dell’8% seguita al «venerdì nero» del luglio 1985.
5. Il forte contributo alla nascita dell’Unione europea liberista
Forse per una sottovalutazione delle conseguenze indotta da un interesse quasi esclusivo verso la gestione del potere domestico, forse per una più consapevole spinta modernizzatrice che vedeva nella piena libertà dei mercati un aspetto propulsivo, Craxi si adeguò alle politiche monetarie restrittive propugnate in sede Sme, tanto da rivendicare, nel 1988, la «stabilità valutaria e monetaria in Europa» che sarebbe stata garantita dallo Sme e il cui meccanismo «va ora rafforzato e ulteriori passi avanti vanno compiuti, anche in vista della completa liberalizzazione dei movimenti di capitale».
Ed è proprio in questo ultimo passaggio – l’Europa che abbatte le frontiere che controllano i movimenti di capitale – che Craxi aveva dato, sempre in quella cruciale estate del 1985, il suo determinante contributo.
Il semestre di presidenza italiana della Comunità Europea si era aperto nel segno dell’insistenza del presidente della Commissione Jacques Delors affinché si optasse definitivamente per la costituzione di un mercato unico liberalizzato. A giugno al Castello Sforzesco di Milano si tenne un vertice dei capi di Stato e di Governo dei paesi membri nel quale il dibattito sul tavolo era frenato dall’opposizione veemente a ogni ulteriore unificazione da parte della delegazione britannica guidata dalla premier Margaret Thatcher. L’impasse venne superata con la presentazione, a sorpresa, da parte del cancelliere tedesco Helmut Khol, subito appoggiato dal presidente francese François Mitterand, di un documento che richiedeva la convocazione della Conferenza intergovernativa al fine di rivedere il trattato di fondazione della Comunità. In quella sede si poteva approvare il mercato unico anche a maggioranza, senza il consenso britannico. In modo altrettanto inusuale, e pertanto dirompente, Craxi, che presiedeva la riunione, mise al voto la proposta di Kohl senza mediazioni, cogliendo impreparati i britannici, e questa venne approvata a maggioranza per sette voti a tre (si opposero anche Danimarca e Grecia). La Thatcher ricorderà lo «stupore» e la «rabbia» da lei provati per la scelta del «signor Craxi».
Da quella Conferenza intergovernativa sarebbe poi scaturito, con l’assenso del governo Craxi, l’Atto unico europeo che, operativo dal 1° luglio 1987, fissava le quattro libertà di circolazione: persone, merci, capitali e servizi. L’Atto unico rappresentò la base per quel Trattato di Maastricht fondato dell’Unione europea come la conosciamo oggi e che tra le altre cose indicava anche l’obiettivo della moneta unica europea. Trattato firmato per l’Italia, nel 1992, dal ministro degli Esteri Gianni De Michelis, anch’egli craxiano, che lo rivendicò nelle sue memorie.
Quell’Atto unico, firmato nel febbraio 1986, aprì alla liberalizzazione degli scambi di merci e di capitali un paese che contemporaneamente adottava una politica monetaria ancorata ai cambi fissi imposti dallo Sme. La conseguenza fu, come si notò già dal venerdì nero del mese successivo al vertice milanese, che la sovranità sui tassi di interesse del debito italiano era perduta a vantaggio delle fluttuazioni speculative dei mercati internazionali. Proprio ciò che innescò la spirale vertiginosa della crescita del debito, molto più che la spesa primaria.
Un disegno di mercato europeo che avrebbe condotto al progetto dell’euro, moneta unica tardivamente rinnegata da Craxi nella seconda metà degli anni Novanta (quando ancora non era in circolazione ma già decisa), figlia di un’Europa che «nella migliore ipotesi sarà un limbo e che nella peggiore delle ipotesi sarà un inferno» e dalla quale bisognava «pretendere la rinegoziazione dei parametri di Maastricht».
Peccato che li avesse contributi a fondare e approvare lui, quei parametri.
*Lorenzo Rossi, docente di storia e filosofia nei licei, dal 2013 è assessore al comune di Grottammare (Ap).
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