
Uomini e schiavi
Il governo non trova l'accordo sulla regolarizzazione dei migranti perché ignora le condizioni di vita di chi lavora in campagna. Ce ne parla Marco Omizzolo, sociologo minacciato dalle agromafie per le sue ricerche sul caporalato
Uno dei primi effetti dell’emergenza da pandemia è stato il disvelamento della precarietà di lavoratori e lavoratrici considerati come essenziali dai provvedimenti governativi. Tra questi, è emersa subito la condizione dei lavoratori irregolari, talvolta stranieri o migranti, impegnati come braccianti nelle campagne: la loro improvvisa mancanza nei campi ha provocato l’allarme nel regolare funzionamento della filiera agro-alimentare, a cui la politica sta ancora cercando di rispondere, barcamenandosi tra le proposte di sanatoria, una liberalizzazione di voucher e addirittura dell’impiego nei campi dei beneficiari del reddito di cittadinanza. A oggi tarda la notizia di una regolarizzazione, paventata comunque come temporanea. I provvedimenti non considerano la condizione degli uomini e delle donne impegnati da anni in molte campagne italiane, delle loro battaglie per essere visibili e tutelati contro il caporalato, ogni giorno. Raccontare le loro storie è fondamentale per comprendere le ragioni di un intervento politico che sia strutturale nella filiera e organico a una pianificazione di lungo periodo volta all’integrazione.
Ne abbiamo parlato con Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore per Eurispes, presidente della cooperativa In Migrazione e del centro studi Tempi Moderni. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata. Da almeno un decennio porta alla luce lo sfruttamento dei braccianti nel pontino, in provincia di Latina, in particolare della comunità indiana Sikh nei campi di Sabaudia. Insieme a questa comunità, è stato tra i protagonisti della battaglia al caporalato e per migliorare i diritti e i salari. La sua ultima pubblicazione è Sotto Padrone (Feltrinelli, 2019), e nel 2019 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica dal presidente Mattarella, da due anni vive sotto vigilanza per via delle numerose minacce subite per la sua attività.
Le storie dei braccianti nel pontino, impegnati massivamente nelle campagne che da Latina si estendono lungo il litorale a sud, da Sabaudia fino a Fondi, sono storie di sfruttamento. Sono uomini e donne, italiane e stranieri, tra cui la comunità indiana Sikh, stretti nella morsa del caporalato e dell’agromafia organizzata. Come hanno reagito i braccianti all’emergenza del Coronavirus? Per coloro che continuano a lavorare, sono state prese precauzioni sanitarie?
La condizione dei braccianti dell’Agro Pontino in generale, di quelli stranieri in particolare, in maggioranza indiana, durante l’epoca del Coronavirus è diversificata. Ci sono alcuni fortunati che lavorano in aziende che non attraversano una particolare crisi: questi braccianti lavorano in condizioni sufficientemente adeguate con bassi livelli di sfruttamento e rispetto sostanziale delle condizioni di sicurezza del lavoro stabiliti sia dalla legislazione tradizionale che da quella imposta dall’emergenza. Altri invece vivono un peggioramento delle proprie condizioni sia retributive che di lavoro: alcuni «padroni», datori di lavoro e sfruttatori, approfittano di questa fase ben sapendo che i controlli non si fanno o sono molto rari, obbligando i lavoratori e le lavoratrici stranieri a lavorare per più ore con un’intensità maggiore rispetto al passato, per retribuzioni che si stanno lentamente abbassando, obbligandoli inoltre ad acquistare autonomamente il materiale previsto dai Dpcm (mascherine, guanti, e quant’altro). Tanto è vero che il centro studi Tempi Moderni e la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild) stanno facendo distribuire da alcuni nostri mediatori indiani all’interno della comunità non solo oltre quattromila mascherine professionali e lavabili, proprio per cercare di sopperire a questa grave mancanza, che non è legata all’indifferenza dei braccianti ma dall’obbligo loro imposto di acquistare autonomamente quel materiale. Le mascherine, peraltro, costano molto e soprattutto devono essere cambiate quasi ogni giorno, perché si usurano con molta facilità svolgendo il lavoro di bracciante nelle campagne – questo significa un notevole esborso di denaro per i braccianti, che abbassa i loro redditi e la loro disponibilità economica. Ve ne sono altri ancora che non lavorano, magari la loro azienda in questa fase, come quelle florovivaistiche e lattiero-casearie, non svolge attività: queste persone vivono in condizioni di povertà economica molto gravi, ormai siamo oltre i livelli minimi di sopravvivenza. Hanno infatti consumato tutti i loro risparmi. Davvero parliamo di una platea che raggiunge diverse centinaia, forse qualche migliaio di persone, che non ha, lo sappiamo per certo, disponibilità economiche. L’auspicio è che si mettano in sicurezza molto presto o che si avvii la sanatoria necessaria per consentirgli di trovare lavoro in maniera regolare: i lavoratori e le lavoratrici braccianti in generale, e in particolare gli stranieri che vivono da sempre in condizioni di povertà e fragilità e sfruttamento (e nel caso specifico, nel caso pontino, degli indiani), devono essere presto supportati e sostenuti, altrimenti rischiano uno stato di povertà e indigenza profondo e per lungo tempo.
Quello che emerge dal libro Sotto Padrone non è solo la tua storia personale, ma soprattutto dei braccianti della comunità indiana, una comunità di sole braccia, di profondi osservanti del sikhismo. Racconti di come sei entrato in quella comunità: dell’esperienza di tre mesi come bracciante nel 2010 seguendo la metodologia di ricerca etnologica dell’«osservazione partecipata». Insieme siete arrivati, con la Flai Cgil, alla data storica del 18 aprile 2016, quando più di quattromila persone hanno sfilato in Piazza della Libertà a Latina – non lontano, peraltro, da un comizio del leader della Lega, Matteo Salvini, previsto in città nello stesso tempo. Cosa ti aspettavi all’inizio e cosa hai trovato, sino a oggi, in questa ricerca affianco alla comunità indiana? Nel libro, per descrivere il percorso, utilizzi il concetto del passaggio dalla classe in sé alla classe per sé: ci sono delle tappe in particolare, utili da ricordare, per immaginare un percorso di emancipazione nelle lotte di oggi?
Premetto che l’osservazione partecipata è una delle metodologie tipiche della sociologia, dell’antropologia e dell’etnografia e nel mio caso non è circoscrivibile al solo periodo che ho trascorso al seguito di caporali indiani, datori di lavoro italiani o di un trafficante di esseri umani indiano, ma è in realtà il frutto di un lungo periodo, che continua ancora oggi, di osservazione interna alla comunità indiana, che mi ha permesso sulla base di un elemento centrale – la costruzione della fiducia – di costruire relazioni articolate, biunivoche, con gran parte della comunità, soprattutto braccianti. Questo mi ha permesso di restituire delle fotografie vivaci, vive potrei dire, che insieme costruiscono una narrazione nuova del fenomeno, approfondita ma allo stesso tempo dinamica. Il secondo elemento, oltre l’osservazione partecipata e la costruzione della fiducia, è certamente la partecipazione: non si è mai immaginato di costruire un percorso al solo scopo di ricerca o di una mobilitazione, ma analisi e ricerca sul campo per costruire, mediante una sorta di pedagogia dell’emancipazione, spazi crescenti di libertà all’interno dei quali i singoli braccianti, le loro famiglie e i loro figli potessero intraprendere percorsi autonomi, anche da me, di emancipazione, di liberazione. Quindi decidere se denunciare il caporale o meno, se scendere in piazza o meno, se continuare quel genere di condizione e conduzione di vita, se tornare in India, sulla base però di un percorso di analisi, studio, informazione e contro-informazione articolata all’interno di questi tredici anni nei diversi luoghi di aggregazione e di incontro, di domicilio dei diversi braccianti indiani. Per una presa di coscienza che parta dalla consapevolezza mediante un’analisi informata, che si sviluppa nei lavoratori rispetto la loro condizione sociale ed economica: questo è il primo passo per costruire coscienza di classe – anche perché questo percorso non è mai stato individuale ma sempre collettivo, cioè dentro un «gruppo classe» capace di elaborare sinergicamente e collettivamente posizioni comuni, e quindi anche politiche. Ogni storia di vita contiene in sé una prospettiva politica, quando le storie di vita si sviluppano e articolano collettivamente, l’elemento politico, che significa di prospettiva, emerge più facilmente ed è esattamente questo uno degli elementi che caratterizza e ha caratterizzato il nostro agire. Si è tornati a scioperare, il 21 ottobre dello scorso anno, sempre a Latina in piazza della Libertà, con duemila persone, ma il punto non è lo sciopero, quello è un contenitore. Il punto è la premessa che ci permette di arrivare collettivamente e con coscienza allo sciopero, e di continuare il giorno dopo forme di vertenza sindacale, di contrasto allo sfruttamento, di vertenza penale ma anche politica ed economica, di emancipazione dalle catene di un sistema che in questo caso tracima fino alla riduzione in schiavitù. Significa avviare anche percorsi di autonomia economica mediante la costruzione di attività imprenditoriali, sia pure «elementari», alternative alla pratica quasi esclusiva ed escludente dello sfruttamento lavorativo nelle campagne pontine.
«Per me non sono schiavi, sono persone ridotte in schiavitù», dici nel testo. Così come è doveroso parlare non tanto di «datori di lavoro» nel caso del caporalato, ma di «padroni»: quali sono stati gli effetti osservati del cambiamento del linguaggio nella lotta della comunità Sikh? Dalla tua esperienza di studioso e giornalista, quanto e come incidono le scelte comunicative nei rapporti di forza?
Uno degli indicatori fondamentali la trasformazione del linguaggio, cioè la capacità di rappresentarsi, di auto-rappresentarsi, dei braccianti sfruttati. Per molto tempo hanno definito il datore di lavoro come «padrone» su input obbligatorio del datore di lavoro stesso. Attraverso quel percorso di formazione, di informazione e narrazione, di elaborazione e approfondimento che abbiamo sviluppato lentamente, questo linguaggio è cambiato ed è ora in piena connessione con la loro intimità e livello di coscienza. Più cresceva il livello di consapevolezza rispetto a questa situazione, più cambiava il linguaggio della rappresentazione: si passava dal definire il datore di lavoro come padrone a datore di lavoro, in alcuni casi con cognome e nome o con il nome dell’azienda. Questo passaggio determina una delle fasi più rilevanti anche dal punto di vista semantico e semiologico della costruzione di una coscienza diversa. Prendo coscienza di me e quindi questo processo di liberazione cambia anche il modo attraverso cui mi rappresento e rappresento il mondo dentro al quale guardo. Per un prigioniero nato in prigionia le sbarre sono il suo unico orizzonte, e quindi è normale attraverso la sua rappresentazione definire le sbarre come il suo specifico orizzonte. In questo caso invece si è presa coscienza di essere dei reclusi e le sbarre non sono più state definite come orizzonte, ma appunto come sbarre. Si è compreso che aldilà di quell’orizzonte definito dalle sbarre di ferro c’è qualcosa d’altro. Non vale solo per il termine padrone, ma anche per quello di «contratto», «busta paga», «diritto», «carabiniere» o «forze dell’ordine», «sindacato», cioè quegli elementi centrali su cui si è fondata la narrazione di quel potere padronale e mafioso nel pontino e non solo. La registrazione delle mutazioni e delle trasformazioni nel linguaggio dei padroni e dei lavoratori è un indicatore estremamente interessante del percorso che questi stanno compiendo, ed è un percorso individuale ma anche collettivo.
Quando si parla di caporalato, si parla di agromafie, di mafie 3.0. Solo per dare un quadro della situazione, dal rapporto dell’osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, si evince che l’economia non osservata in Italia arriva fino a 208 miliardi di euro, mentre il lavoro irregolare arriva a 77 miliardi, il 37,3% del totale. Tra i 400 e 430 mila sono invece i lavoratori agricoli che hanno contratti irregolari, il tasso di irregolarità dei rapporti nel settore è del 39%, e tra questi più di 130 mila vivono in condizioni di vulnerabilità. Il salario mensile percepito è spesso del 50% inferiore rispetto a quanto pattuito dal contratto di riferimento, percentuale che si abbassa ancora del 20% nel caso delle donne, rispetto ai propri colleghi. Per rimanere nelle tue inchieste, non lontano dalle stesse campagne dove in larga parte la comunità Sikh è impegnata, c’è anche il Mof, uno dei più grandi mercati ortofrutticoli in Italia, la cui gestione è da tempo in odor di illegalità. Oggi, in piena emergenza da contagio, tutto il settore agricolo è in crisi: come si muovono le mafie in questa situazione, come ne possono approfittare?
Le mafie sono dentro la dimensione terriera. Nascono dalla terra e a essa sono ancora intimamente legate. Basta leggere con attenzione lo studio annuale di Eurispes, Agromafia, per rendersi conto dell’evoluzione delle mafie dentro il paradigma «della terra» attraverso il quale allargare l’orizzonte dei propri affari e relazioni. Il dibattito e la ricerca negli ultimi trent’anni ha commesso forse l’errore di immaginare l’evoluzione delle mafie come un processo di emancipazione dalla terra. Le mafie in realtà non hanno mai abbandonato le loro radici, la conquista della terra significa presiedere il loro territorio, costruire legami con la politica locale e nazionale, condizionare le attività commerciali, allargare le loro basi del consenso. Per tutte le organizzazioni mafiose oggi si contano circa 27 clan direttamente interessati o protagonisti del potere agro-mafioso e sono circa 25 i miliardi di euro che nel corso dell’ultimo anno si sono prodotti nell’ambito agro-mafioso. Si tratta di affari spalmati all’interno di tutta la filiera agro-alimentare, commerciale e dei mercati ortofrutticoli nazionali e internazionali. A questa dimensione si deve aggiungere quella delle mafie straniere. In questa fase di Coronavirus le mafie possono amplificare questa capacità di penetrazione e radicamento. Si tratta di un’analisi e di un allarme lanciato da importanti personalità della più avanzata magistratura antimafia che abbiamo in Italia e nel mondo a partire dal capo della procura nazionale antimafia, Cafiero De Raho, l’ex giudice Giancarlo Caselli, e molti altri magistrati di straordinaria competenza. Bisogna cercare di articolare la ripresa evitando di dare spazio ai capitali mafiosi e ai loro interessi, ma costruire politiche di sviluppo che abbandonino lo sfruttamento lavorativo, il caporalato, il riciclaggio di denaro sporco. Questo lo può fare soltanto la politica.
Tra i successi della lotta al caporalato nell’ultimo decennio c’è la legge dedicata, la numero 199 in vigore dal 4 novembre 2016, il cui aspetto più importante è quello di addebitare lo sfruttamento non solo all’intermediario del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro (il caporale, appunto), ma direttamente anche al padrone. Il Titolo 9 del testo di legge richiede invece un «piano di interventi» per meglio definire il collocamento, il trasporto, una sistemazione dignitosa e il supporto dei lavoratori stagionali. Questo piano doveva esser adottato entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, ma poco o nulla è stato deciso finora. Come si spiega questo stallo? Quanto hanno inciso su questa legge i Decreti Sicurezza, inerenti soprattutto alla sfera dell’immigrazione, emanati nella prima vita del governo Conte?
La legge 199 è una legge importantissima, permette l’arresto del datore di lavoro e il sequestro e la confisca dei beni usati per la sua attività criminale. Appena il 23 aprile scorso una brillante operazione della Questura di Latina ha permesso di arrestare padroni e caporali grazie alla legge 199 che per anni avevano sfruttato i loro lavoratori. Tutto questo a Latina, e precisamente a borgo Faiti. Lo stesso è recentemente accaduto nel foggiano grazie al lavoro importantissimo della Flai Cgil e qualche mese fa a Forlì. Ma la legge non viene applicata nella sua parte propositiva e questo è un problema enorme. Funziona se deve reprimere, ma i tavoli prefettizi, in cui le parti si possono incontrare e bonificare la relativa filiera dal caporalato, mancano di forza e di elaborazione, spesso per la latitanza di alcune sue componenti. Infine, le dichiarazioni della politica, volte a cancellare o modificare la 199, non sono che l’eco di interessi di poteri padronali che mirano a minare quella norma. Non a caso questa nasce da due eventi, uno drammatico e uno al contrario positivo. Quello drammatico è la morte di una connazionale a Foggia, Paola Clemente, quello positivo è invece lo sciopero dei braccianti indiano organizzato il 18 aprile 2016 in piazza della Libertà, a Latina, dalla cooperativa In Migrazione, dalla Flai Cgil e dalla comunità indiana del Lazio.
Si discute da settimane della possibile sanatoria (proposta dai sindacati e dal mondo dell’associazionismo) per i lavoratori agricoli irregolari, di quanti di loro rientrerebbero nel provvedimento e per quanto tempo, rispetto ai contratti di lavoro a loro destinati. La ministra Lamorgese è già stata chiara: non riguarderà tutti, ma solo di «quelli che servono» alla raccolta. Dal tuo punto di vista: cosa serve davvero, su quali proposte si potrebbe orientare il dibattito pubblico e l’azione politica?
La regolarizzazione è un elemento importante, ma non deve corrispondere alla logica del «ti regolarizzo perché mi sei utile alla produzione», ma perché questo ti permette di diventare a tutti gli effetti titolare di diritti fondamentali. Cioè, bisogna uscire dal paradigma per cui i migranti o in generale i lavoratori e le lavoratrici hanno diritti in relazione all’attività produttiva: gli uomini e le donne che lavorano hanno diritti a prescindere dall’attività lavorativa. Non si può essere riconosciuti come regolarmente o irregolarmente soggiornanti, e quindi avere un regolare permesso di soggiorno o essere clandestini e rischiare l’espulsione, in relazione alle varie fasi e dinamiche dell’attività economica. Il riconoscimento dei diritti, a partire dalla regolarizzazione, deve essere avviata a prescindere dell’attività economica e per questo va allargato il campo non solo ai lavoratori agricoli e ai lavoratori e lavoratrici di cura, ma a un mondo molto più vasto, e insieme a questo va cancellata la legge 132/2018 (Decreto Sicurezza o decreto Salvini), che è il passo escogitato e approvato, e ancora in vigore purtroppo, dal governo Conte 1, che ha prodotto la cancellazione della buona accoglienza ed emarginato e messo in mezzo a una strada centinaia di persone – come riconosce Amnesty International Italia con lo studio «I sommersi dell’accoglienza» – mettendoli di fatto nelle braccia di caporali, sfruttatori e criminali di diversa natura. Alcuni li ritroviamo a lavorare nelle campagne: il caso di Forlì, di qualche settimana fa, in cui sono stati liberati dalle catene dello sfruttamento circa quaranta pakistani e bangladesi richiedenti asilo è esattamente la conseguenza del Decreto sicurezza 1. Questo genere di norma va cancellata assolutamente quanto prima, va ristabilito e riorganizzato un sistema di accoglienza evoluto e avanzato, a partire dall’esperienza maturata con gli Sprar.
*Marco Omizzolo è sociologo, responsabile scientifico di In Migrazione, presidente del centro studi Tempi Moderni e ricercatore Eurispes. La sua attività di ricerca si concentra sul tema delle agromafie e della tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Davide Ficarola è giornalista freelance. È laureato magistrale in scienze politiche presso l’Università degli Studi di Firenze, con una ricerca sulle strategie di comunicazione dei partiti politici in Europa sul tema dell’immigrazione.
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