WhoCares? We care.
Le ragioni dell’inchiesta sociale stanno nelle lotte: questa la prospettiva di un progetto che intreccia i diritti dei migranti e quelli dei lavoratori per indagare il lavoro di cura e la sua irriducibilità al mercato
A metà tra un collettivo di ricerca e una ricerca collettiva, WhoCares nasce soprattutto per rispondere a due questioni. Chi fa il lavoro di cura? E soprattutto, a chi interessa quel lavoro? Come sottolineato sin dal primo numero di Jacobin, il nostro sistema di welfare subisce un attacco di proporzioni inedite. Ma i fattori che ne massimizzano gli effetti hanno radici profonde capaci di penetrare i tanti livelli che lo costituiscono. La lotta per i diritti dei migranti di Bologna, e la storia di come nel giro di poche ore sia diventata una lotta per i diritti di tutti, è un buon esempio da cui partire per intrecciare i fili di una prospettiva giacobina sull’inchiesta sociale.
Il fatto
L’hub regionale di via Mattei, nato nel 2014 con i suoi 280 posti per adulti, fa parte del complesso sistema di accoglienza che nella sola città metropolitana di Bologna conta la disponibilità di oltre 2.000 posti letto. Si tratta di un luogo di transizione: il migrante viene identificato e assistito sul piano legale e sanitario e successivamente indirizzato alle strutture di seconda accoglienza, per minori o per adulti, di competenza prefettizia (Cas) o comunale (Sprar). Il tempo di soggiorno nella struttura negli anni è andato via via allungandosi. Nel 2014, quando si contarono 929 arrivi, la permanenza media era di 16 giorni. Nel 2017, con 596 arrivi, i giorni che si calcolavano erano 95,3.
Dal 2014, la gestione dell’hub regionale di via Mattei è affidata all’Arcolaio, un consorzio tra due cooperative bolognesi, l’Arca e la Piccola Carovana a cui si aggiungono successivamente OpenGroup, Piazza Grande e la Società Dolce. Con l’evoluzione della regolamentazione dell’accoglienza e il definanziamento avviato dal precedente governo, la struttura aveva iniziato una progressiva riduzione del personale. Con il decreto legge 113 del 2018 meglio noto come Decreto Sicurezza, il mandato si è ridotto ulteriormente. Dai (famosi) 35 euro pro-capite/pro-die di cui 2,5 euro distribuiti direttamente agli ospiti della struttura come pocket money e il resto diviso tra costi del personale, per i pasti, per le pulizie, la fornitura di beni, pulizia e altro, si passa a una cifra variabile tra 19 e 26 euro più il pocket money. Il definanziamento comporta la riduzione dei servizi educativi, formativi e tutto ciò che non sia riconducibile alla mera accoglienza materiale o alle funzioni di controllo e sorveglianza e spinge il consorzio a riconsiderare la possibilità di partecipazione alla gara di appalto in atto.
Tale decisione non sfugge alla catena di comando ministeriale, che nel frattempo ha già visto andare deserte le altre gare, a eccezione di un servizio di 40 posti aggiudicati da una cooperativa veneta. La reazione non si fa attendere: chiusura dell’hub per ragioni di ristrutturazione straordinaria e chiusura anticipata dell’affido al 14 giugno con trasferimento dei 183 ospiti tra la struttura di Caltanissetta e altre strutture esistenti in regione. Tale comunicazione arriva all’Arcolaio nella serata dello scorso venerdì 7 giugno. Molti lavoratori non lo scopriranno fino alla mattina successiva, quando sulle pagine del Resto del Carlino, il prefetto di Bologna Patrizia Impresa spiega le poche ragioni e i semplici criteri per i trasferimenti.
Non si parla degli operatori e delle operatrici, ma tutti intuiscono che qualcosa non va. Da quel momento scatta la mobilitazione dei lavoratori dell’accoglienza, già provati dalle continue riduzioni orarie e trasferimenti dovuti all’impoverimento dei servizi deciso dal governo di Lega e Movimento 5 Stelle. I circa 50 operatori e operatrici direttamente o indirettamente impiegati nella gestione dell’hub si attivano, sostenuti dai tanti che da questo posto di lavoro ci sono passati nel loro peregrinare del precariato, dagli attivisti e dalle attiviste di Usb e Adl Cobas e da liberi cittadini. Grazie a questo sostegno gli operatori e le operatrici prendono parola nelle tante occasioni offerte dal caldo weekend bolognese, dalla piazza di Repubblica delle idee al parco del Biografilm Festival, fino all’assemblea di Mediterranea. La solidarietà si rafforza. Nel frattempo il Consorzio chiede un incontro con il prefetto per proporre una soluzione che eviti il trasferimento coatto degli ospiti presenti in struttura. L’appuntamento è per il 10 giugno, ma di puntuale c’è solo l’annullamento dell’incontro. I lavoratori e le lavoratrici convocano un presidio e fanno pressione sul consiglio comunale. Con il supporto di Coalizione civica ottengono l’approvazione di un ordine del giorno che reclama un tavolo di contrattazione.
Anche questa reazione non sfugge alla catena di comando del Viminale. Arriva la comunicazione che il trasferimento degli ospiti al Cara di Caltanissetta avverrà nella giornata successiva. A quel punto la reazione di Bologna si fa massiccia. Sin dal pomeriggio gli operatori e le operatrici informano i migranti, avvisandoli della loro possibilità effettiva di scelta. Diversi optano per lasciare la struttura nella notte stessa. Alle sigle sindacali di base si affianca la Cgil. Al mattino del giorno in cui dovrebbe avvenire il trasferimento si manifesta davanti alla struttura. Una rete di oltre 40 avvocati specializzati in materia di immigrazione, molti dei quali appartenenti all’Asgi, prepara la modulistica per garantire la libertà di scelta degli ospiti dell’hub, ed evitare che il sottile limite tra trasferimento e deportazione non sia valicato. Senza quel tipo di intervento quelle persone si sarebbero trovati in quella che per quanto provvisoria è una casa, pullman per il trasloco e poliziotti di scorta. Avrebbero dovuto interrompere i percorsi di integrazione, saltato le convocazioni della commissione territoriale per la richiesta di asilo, perso la possibilità di accesso al sistema sanitario. Sarebbero tornati a essere dei clandestini, una manna per la propaganda.
D’altra parte il prefetto si dice ignara di tutto. Non sa nulla, afferma a La Repubblica, di percorsi di integrazione, giocando sul fatto che nel bando di affido sono previsti soltanto i servizi di base.
Per il momento la barbarie è stata comunque evitata. Ed è stata evitata dal basso, senza l’intervento di chi le leggi dovrebbe farle rispettare e non forzarle per ottenere i propri scopi e senza un intervento forte dell’amministrazione locale.
Nel frattempo siamo arrivati al pomeriggio dell’11 giugno. Un corteo parte dall’hub per raggiungere piazza del Nettuno. determinato a trovare una soluzione per i circa 60 migranti che hanno scelto di restare nella città che li ha accolti fin da subito. Solo in 39 optano per il trasferimento a Caltanissetta. Alcuni tra quelli che hanno scelto di restare trovano un posto grazie al lavoro svolto dagli operatori e operatrici al presidio che sfruttano la rete di relazioni e le competenze che il lavoro nell’accoglienza sviluppa, anche quando non sono riconosciute. Per gli altri, invece, si attiva la rete delle famiglie solidali e dell’accoglienza informale, ma resta una misura di ultima istanza. Il problema, infatti, deve risolverlo chi l’ha causato e da questo momento il comune si impegna a sostenere una soluzione degna. Delegazioni composte dai sindacalisti di Usb, Adl-Cobas e Asgi fanno la spola tra palazzo D’Accursio e la piazza. Gli aggiornamenti e gli interventi si susseguono, ad ascoltarli, in arabo, in inglese, in italiano, una platea che intanto si ingrossa e si stringe attorno a quelle valigie portate in corteo dall’estrema periferia. In tarda serata, a fronte del diritto dei richiedenti asilo a restare in regione, si apprende che la palla torna alla prefettura che è costretta a prendere in esame la disponibilità dei posti letto negli altri Cas della Regione. L’ultimo ospite viene sistemato alle 4.30 del mattino, seguito e accompagnato dagli operatori.
Il problema umanitario è stato risolto, si avrà più tempo per capire fino a quando. Per i lavoratori e le lavoratrici si dovrà attendere ancora. Giovedì 13 giugno un tavolo con la provincia decreta una prima intesa con le sigle sindacali che afferma l’intenzione congiunta di tutelare quanti coinvolti dalla vicenda. Tuttavia, non si tratta solo dei 50 dipendenti che operano nell’hub Mattei. A rischio ci sono molti più posti di lavoro e, come fanno notare i lavoratori e le lavoratrici dell’accoglienza di Bologna, le responsabilità sono condivise da tutti i livelli istituzionali. Ci faranno sapere.
L’antefatto
Sebbene sia il più esposto agli attacchi diretti delle politiche gialloverdi, quello dell’accoglienza non è che un pezzo del puzzle più articolato. A marzo, ad esempio, si è insediata la nuova giunta della provincia autonoma di Trento, della quale fa parte l’assessora (e deputata leghista) Stefania Segnana con delega alla salute, disabilità e famiglia. Ne deriva che cinque educatrici che a Trento si occupavano di educazione alle relazioni di genere perdono il posto. I loro corsi sulla violenza e sul bullismo, si legge nella circolare che li riguarda, «potrebbero non essere pienamente coerenti con le aspettative delle famiglie». A nulla sono valse le richieste di incontro, la petizione on line e la contestazione, finita tra l’altro con una carica della polizia all’interno del palazzo della provincia. Episodi del genere sono sempre più frequenti, l’idea salviniana e bigotta del mondo che governa non è compatibile con le differenze e l’educazione alle differenze. Cioè con un lavoro che è politico per natura. «Educhiamo al cambiamento e alla possibilità, per questo siamo un continuo bersaglio», dicono operatori ed operatrici. Eppure, tra l’essere un bersaglio e un facile bersaglio ce ne passa e le ragioni di questo passaggio sono strutturali e investono diversi livelli e responsabilità. La catena di queste responsabilità è più lunga di quanto vorrebbero far credere gli amministratori di Bologna, quando affermano che la colpa è tutta di Salvini, o quanto vorrebbero far credere le cooperative e le imprese che licenziano e riducono le ore lavorate, quando affermano che la colpa è tutta della politica.
È evidente che quello che è successo a Bologna in questi giorni non sarebbe successo senza Salvini, ma ciò vale per la sola emergenza umanitaria, favorita dalle condizioni ordinarie volute in precedenza da Marco Minniti. Per la questione lavorativa è diverso. La responsabilità è trasversale e investe chi fino a ieri ha giocato sulla possibilità di risparmio della gestione privata della cosa pubblica delegando quella responsabilità alle imprese che, dal canto loro, hanno accettato qualsiasi condizione sulle spalle di lavoratori e lavoratrici, delle persone che accedono ai servizi e di chi vive loro accanto. Insomma, di tutti e di tutte. Se oggi la prefettura nega i diritti dei migranti domani potrebbe negarli ad altri: toccando i diritti degli uni si toccano direttamente i diritti degli altri, di chi contribuisce al sistema e di chi gode degli effetti di quel sistema.
Il valore del lavoro
Da questa consapevolezza nasce il progetto WhoCares. L’obiettivo è costruire una base conoscitiva che possa favorire l’azione sindacale nelle imprese e fuori da esse, promuovendo la consapevolezza dei lavoratori e delle lavoratrici e il dibattito pubblico sulla gestione e gli effetti delle politiche sociali, quelle dell’accoglienza certamente, ma anche educative, formative, sanitarie, socio-assistenziali e dei servizi alla persona. Per quanto in italiano il concetto di cura rischi di richiamare le sole dimensioni sanitaria o informale della vicenda, per gli inglesi il care è un settore ampio, che va dal lavoro non pagato svolto in casa, ancora e in larga parte basato su forti discriminazioni di genere, fino al lavoro retribuito nei servizi, tra i quali, appunto quelli dell’accoglienza che offrono lo spunto per questo intervento visti gli aspetti sollevati dai fatti di Bologna e che intrecciano direttamente i punti di attenzione dell’inchiesta sociale.
WhoCares nasce dal basso, dall’incontro tra ricercatori, attivisti e operatori del settore. Non siamo solo quelli che curano, ma anche gli interessati, direttamente e indirettamente, dalla cura. Da questa prima affermazione, lanciata durante la presentazione di un libro sul burn out sul lavoro sociale, al Vag di Bologna, le occasioni di discussione si sono moltiplicate e il gruppo di partenza si è allargato. Il primo obiettivo è la costruzione di un questionario e la definizione delle dimensioni di analisi: significa lasciar parlare gli operatori del proprio lavoro davanti a una birra e pensare, insieme, a quale tipo di domanda potrebbe permettere di generalizzare quella certa sensazione o osservazione. All’interno del gruppo ci sono lavoratori e lavoratrici che operano su comparti diversi, che non si conoscono e che si rendono conto che devono spiegare, ai loro colleghi, cosa significa questa o quella pratica operata dalla loro cooperativa o impresa.
Gli elementi in comune emergono con facilità, nonostante la parcellizzazione delle mansioni e dei servizi. Il primo è anche il più complesso da indagare e ha a che fare con il valore del lavoro. Non del valore che gli enti, le stazioni appaltanti o le imprese riconoscono al lavoro svolto dai lavoratori e dalle lavoratrici, ma del valore che loro stessi e loro stesse vi attribuiscono. Si tratta di un elemento complesso perché ha a che fare con le convinzioni degli operatori e delle operatrici con la loro formazione e con la profondità delle relazioni educative.
Davanti all’emergenza creata dalla decisione del prefetto di Bologna, i lavoratori e le lavoratrici si sono attivati informalmente. Gli avvocati hanno scelto di non andare a lavorare nelle loro usuali collocazioni per stare davanti all’hub Mattei. Gli operatori che hanno trovato un posto letto, una sistemazione temporanea, l’hanno fatto attivando i loro contatti e mobilitando le loro competenze, così come ha fatto chi ha tradotto i moduli e le informazioni. Hanno lavorato, ma per uno scopo diverso dal salario. E molto probabilmente qualcosa di simile avviene ogni giorno. È un lavoro che per molti si intreccia con la militanza politica o con la vocazione religiosa, per altri è solo incapacità di restare indifferenti e altri ancora ci sono passati e sanno cosa vuol dire non capire nulla di quello che ti sta dicendo anche chi ti vuole aiutare. Ma le emergenze sono tante. Ogni giorno è un’emergenza per chi accede ai servizi di integrazione scolastica, o a quelli territoriali, ai servizi psichiatrici o dedicati alla prevenzione e ogni giorno gli operatori vanno oltre il loro contratto, vanno oltre il prescritto, spesso a discapito dei loro stessi diritti. La «frusta dell’oltre» è la bella e angosciante metafora che usa Luca Rastello per descrivere quella sensazione di andare al di là del di ogni misura, che è una scelta, ma è anche un comando che il capitalismo contemporaneo sa cogliere e mettere a profitto.
Ma allora quanto vale quel lavoro? Non è misurabile per chi lo fa, quindi non varrà mai abbastanza per chi lo dovrebbe riconoscere.
Quando il prefetto di Bologna afferma che nell’Hub Mattei non ci sono progetti di integrazione, lo dice facendo riferimento al bando di affidamento. Finge, speriamo, di non sapere che per quanto transitoria, una condizione che si protrae per 91 giorni porta all’attivazione di relazioni che vanno oltre il prescritto e il bando. L’oltre, in quel caso, coincide con un servizio ben svolto e non riconosciuto.
Il lavoro di relazione e la relazione di lavoro
Il lavoro nel comparto del care si fonda sulla relazione tra persone e le relazioni non scadono come i contratti che vorrebbero inquadrarle, né possono realizzarsi a pieno quando il disagio della difficoltà economica e della frammentazione degli orari assale proprio quelle figure che dovrebbero essere il riferimento di chi vive in condizioni di maggiore vulnerabilità.
Tale complessità non è compatibile con la quantificazione oraria che frequentemente sostanzia l’affidamento dei servizi e caratterizza il lavoro degli operatori. Il riconoscimento del tempo di spostamento tra un servizio e l’altro, del tempo di preparazione e progettazione delle attività, del tempo dedicato al supporto individuale anche quando non è previsto, solo per fare alcuni esempi, non può essere lasciato alla libera iniziativa delle imprese. Così come non può essere lasciata alla libera iniziativa delle imprese la facoltà di organizzazione delle attività di supervisione, necessarie per prevenire il senso di solitudine e il disagio psicologico degli addetti e delle addette.
Appare difficile, in questo senso, non tenere conto dell’elemento retributivo. Non solo le ore retribuite sono inferiori a quelle effettivamente svolte ai fini lavorativi, ma sono pagate poco. «Come è possibile lavorare tutto il giorno tutti i giorni e non riuscire a pagare le bollette?» chiede un’educatrice di un centro che accoglie ragazze madri in difficoltà.
Lo sforzo fatto quotidianamente dalle organizzazioni sindacali per migliorare l’aspetto salariale è indubbio, come indubbia è la timidezza della risposta delle imprese. Il lavoro prevede forme di reperibilità specifiche scarsamente indennizzate. Dalle figure jolly, vai-dove-serve, a quelle per le quali vige la reperibilità con obbligo di residenza. La famigerata notte passiva è forse l’esempio più eclatante del grado di dequalificazione toccato dal settore: consiste in una reperibilità notturna da assicurarsi tramite la presenza nella struttura. Sei pagato solo se ti svegliano per lavorare (per chi se lo stesse chiedendo: sì, è prevista dal contratto).
Altro esempio eclatante riguarda il diritto al pasto completo per gli educatori e le educatrici dell’integrazione scolastica, che sono passati dal digiuno obbligato durante il servizio svolto nelle mense, al pasto ridotto: «Dal buono pasto al buono pasta», recitava la campagna portata avanti sull’argomento dalle sigle sindacali per denunciare come la giusta battaglia per un pasto gratuito durante il lavoro si fosse tradotta in una mezza vittoria. Si aggiunga a questo che sempre più spesso nei bandi compaiono gli obblighi, per le imprese affidatarie, di utilizzare applicativi per il conteggio delle ore, per garantire lo spostamento più rapido tra un servizio domiciliare e l’altro, tra un qr code posto accanto al letto di chi usufruisce del servizio e l’altro. Le logiche del New Public Management nel settore pubblico hanno trasformato le professioni in esercizi performativi da svolgersi nel minor tempo possibile, si trasmettono al privato sociale che accanto al pubblico lavora e che, come sottolineato da Fabrizio Antolini, sta via via sostituendo il pubblico.
C’è pubblico e pubblico
Nella sola Emilia Romagna, i dipendenti di cooperative sociali che si occupano di sanità e assistenza sociale sono, nel 2015, 32.225 (dati di UnionCamere), il 2% degli occupati nello stesso anno. Ma non ci sono solo le cooperative. Il Terzo settore è un comparto ampio, che tiene insieme enti ecclesiastici, associazioni di volontariato e non, Onlus, Ong, imprese sociali e così via. Si tratta di imprese, ma di imprese particolari, impegnate su temi di interesse generale e che fanno dell’idealismo di cui si è detto poco sopra una carta da spendere sul mercato. Ma sono anche imprese. Come affermava il sociologo Pierre Bourdieu in Ragioni Pratiche, ignorarne la doppia natura significherebbe mistificare la realtà, poiché è proprio questa doppia natura a giustificare i trattamenti di favore sul piano fiscale, l’attenzione da parte degli enti locali e, soprattutto, la creatività nella gestione della manodopera. Non solo, se molti lavoratori non riescono più a cogliere la differenza tra un’impresa cooperativa e una società per azioni molti altri vedono nella struttura societaria della cooperativa l’opportunità di una maggiore capacità di far sentire la propria voce e di una maggiore libertà di azione. Cosa questo significhi per il senso pubblico dell’attività sociale e come questa possibilità possa configurarsi nel quadro di un welfare sempre più orientato al controllo che al servizio non è un nodo facile da sciogliere. Anche perché, come accennato, al sistema cooperativo si devono aggiungere le tante altre forme di impresa che intrecciano la dinamica di finanziarizzazione dell’economia fondamentale, alla base della coesione sociale, e che sostengono la fuga dalla responsabilità pubblica del lavoro sociale. Paradossalmente questo avviene anche in quei territori in cui le amministrazioni si sono mostrate più sensibili al contrasto della precarietà causata dalle imprese private. Facile, con i precari degli altri. A Milano, la soluzione individuata dalla Regione Lombardia per non intervenire direttamente nella crisi occupazionale che ha riguardato i formatori di Afol Metropolitana è stata quella di ricorrere ai servizi di un’agenzia di somministrazione. Anche in quel caso la fragilità degli studenti a cui si rivolgono i corsi della Società consortile partecipata si traducono sulla fragilità occupazionale dei dipendenti e delle dipendenti. Anche in quel caso a rimetterci sono i lavoratori e le persone che accedono al servizio a fronte di un bisogno. È questo il pubblico che vogliamo?
Ce lo chiediamo senza darci una risposta, o almeno, senza darcene una sola. L’ambizione massima di WhoCares è quella di favorire quel genere di dibattito, allargandolo al di là dei perimetri societari e sindacali delle imprese e al di là delle competenze amministrative. La portata della questione è generale e globale. Come afferma l’Ilo nel recente rapporto dedicato al care work
«Il lavoro di cura, sia retribuito che non retribuito, è fondamentale per il futuro di un lavoro dignitoso. Popolazioni in crescita, società che invecchiano, famiglie che cambiano, discriminazione delle donne nei mercati del lavoro e carenze nelle politiche sociali richiedono un’azione urgente per l’organizzazione di lavoro di cura da governi, datori di lavoro, sindacati e singoli cittadini. Se non vengono affrontati adeguatamente, i deficit attuali nella fornitura di servizi di assistenza e la sua qualità creeranno una grave e insostenibile crisi di assistenza globale e aumenteranno le disuguaglianze di genere sul lavoro».
Per questo, alla domanda Who Cares? Rispondiamo We Care, non solo perché siamo noi a fare il lavoro, ma anche perché ci interessa che quel lavoro sia ben svolto al di là del nostro stesso lavoro. In gioco ci sono i diritti di tutti e di tutte.
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*Gianluca De Angelis è ricercatore del collettivo WhoCares.
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